Geniali, creativi e molto, molto irascibili. Sono gli artisti che, nella New York del secondo dopoguerra, hanno cambiato per sempre il modo di vedere e concepire l’arte. Primo fra tutti Jackson Pollock, seguito da Willem de Kooning, Mark Rothko e Franz Kline. Con coraggio e intraprendenza, in breve tempo, questa nuova generazione di artisti ha sconvolto le regole dell’arte e, sulla scia delle grandi avanguardie, è riuscita ad imporsi nella cultura artistica internazionale, trasferendo, di fatto, la capitale dell’arte da Parigi a New York. Gli esiti pittorici di quella che sarà definita la Scuola di New York sono al centro di una mostra a Roma, ospitata nelle sale del Vittoriano, dal 10 ottobre 2018. Le opere esposte, circa cinquanta, provengono tutte dal Whitney Museum di New York, selezionate dal curatore Luca Beatrice. Tre le linee guida per muoversi nel percorso espositivo: anticonformismo, introspezione psicologica e sperimentazione. Fulcro della mostra è Number 27 di Pollock, la grande tela realizzata nel 1950 con la tecnica del dripping che, prendendo le mosse dalla scrittura automatica surrealista, prevede lo sgocciolamento del colore sulla tela attraverso l’uso delle mani, di barattoli bucati, di pennelli o bastoni.
La Scuola di New York ha raccontato l’arte americana dagli anni Quaranta ai Sessanta del secolo scorso: un periodo vivace e ricco di fermenti creativi, dove New York è stato il polo culturale più attivo al mondo. Questa nuova generazione di artisti ha sentito la necessità di vivere la pittura senza filtri, riuscendo ad ottenere esiti differenti. Se, ad esempio, gli “action painters” avevano portato avanti una ricerca sul gesto e sulla forma, i “color field painters” invece avevano indagato il rapporto del segno con il colore. In ogni caso, come spesso capita, il pubblico non li aveva apprezzati. E neppure la critica. Caso eclatante quello del 1950, quando alla grande retrospettiva sulla pittura contemporanea americana organizzata dal Metropolitan Museum non venne invitato ad esporre nessun esponente dell’espressionismo astratto. Una ingiustizia così intollerabile che diciotto di loro scrissero al direttore del museo, Roland Redmond, una lunga lettera di protesta, pubblicata poi sul New York Times. Ed è proprio per questo carattere battagliero che questo gruppo di giovani artisti venne ribattezzato in senso spregiativo dall’Herald Tribune “degli irascibili”. Il loro gesto di protesta diede vita a sei mesi di agitazione, celebrato dalla famosa fotografia di Nina Leen pubblicata sul numero di Life nel gennaio 1951, in cui compaiono vestiti da banchieri gli “Irascibili diciotto”, incluso il più vecchio Hans Hofmann, maestro di molti di loro.
Con tutte le loro diversità, gli Irascibili avevano caratteristiche comuni: molti vivevano un senso di inferiorità nei confronti dell’avanguardia europea e guardava con soggezione alle opere di artisti quali Mondrian, Léger, Ernst. Inoltre, molti di loro avevano lavorato per la Works Progress Administration (WPA) durante gli anni Trenta e, sempre in quel periodo di estrema povertà, aveva avuto un legame con la politica radicale. E quindi, in qualche modo, tutti avevano partecipato, fra la Guerra civile spagnola (1936-37) e la disillusione seguita al patto di non aggressione nazi-sovietico (1939), al dibattito riguardante il rapporto fra arte e politica. In questo senso alcuni di loro presero a modello Pablo Picasso con la sua Guernica, altri i pittori muralisti messicani o ancora l’americano Thomas Hart Benton.
La nuova generazione di artisti americani era alla disperata ricerca di nuovi modi per esprimere quel mix di angoscia e speranza prodotta dalla Grande depressione, dalla Seconda guerra mondiale e dall’ascesa degli Stati Uniti come superpotenza mondiale. «Per noi – avevano scritto Rothko e Gottlieb in una lettera del 1942 – l’arte è un’avventura all’interno di un mondo sconosciuto. È nostro compito, in quanto artisti, fare in modo che lo spettatore osservi il mondo dal nostro punto di vista e non più dal suo. (…). Noi siamo per il grande formato, perché ha la potenza dell’inequivocabile. Vogliamo riaffermare la superficie pittorica. Siamo per le forme piatte perché distruggono l’illusione e rivelano la verità». L’avventura degli astrattisti americani a colpi di battaglie e grandi tele si impose così nella cultura ufficiale.
Fra le sostenitrici più appassionate del movimento, un posto unico spettò a Peggy Guggenheim, ereditiera ebrea e collezionista americana. La donna, nel luglio del 1941, era rientrata in tutta fretta nel suo Paese, fuggendo da una Parigi occupata dai nazisti. Prima di partire però, Peggy mise in sicurezza la sua collezione d’arte nei magazzini di un castello vicino a Vichy, dopo aver ottenuto un sonoro rifiuto dal Louvre, che definiva l’arte d’avanguardia “non degna di essere salvata”. Tornata a Manhattan, il 20 ottobre 1942, Peggy Guggenheim inaugurò la galleria Art of This Century, dove esposero gli artisti emigrati dall’Europa, molti dei quali surrealisti. E non solo. In pochissimo tempo il nuovo spazio espositivo divenne un polo culturale dinamico, in cui l’arte moderna europea per la prima volta entrava in contatto con i lavori della New York School.
Fra i rappresentati più noti di questa nuova generazione, Jackson Pollock con la sua Action Painting, fu senza dubbio quello più famoso. Con uno stile ribelle alla James Dean, Pollock incarnava il genio e la sregolatezza: dedito agli eccessi e all’alcool, era amante della velocità e della solitudine. Proprio come l’attore americano, anche Pollock morirà, a soli quarantaquattro anni, in un incidente automobilistico l’11 agosto del 1956 a East Hampton.
Tanto era l’ammirazione di Peggy Guggenheim per lui che, dopo poche settimane di conoscenza, lo mise sotto contratto, versando all’artista un assegno mensile di centocinquanta dollari. «Era – dirà di lui Peggy Guggenheim – un uomo contraddittorio. Così timido e difficile da presentare alla gente e nervoso. Arrivava sempre sbronzo e per questo non avrebbe potuto farcela da solo». Vestito con un paio di jeans e una maglietta nera, Pollock era un artista infaticabile, spinto dalla disperata speranza di esprimere i propri sentimenti gettando vernice sulla tela.
«Non dipingo sul cavalletto – aveva affermato Pollock –. Preferisco fissare le tele sul muro o sul pavimento. Ho bisogno dell’opposizione che mi dà una superficie dura. Sul pavimento mi trovo più a mio agio. Mi sento più vicino al dipinto, quasi come fossi parte di lui, perché in questo modo posso camminarci attorno, lavorarci da tutti e quattro i lati ed essere letteralmente dentro al dipinto. Questo modo di procedere è simile a quello dei “Sand painters”, Indiani dell’ovest».
La morte di Pollock segnerà la fine del percorso di affermazione collettiva dell’intero gruppo.
Francesca Gentili, critica d’arte
Pubblicato venerdì 7 Settembre 2018
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