L’articolo di Cecchini riprende quasi integralmente il racconto del dirigente del Partito comunista Umberto Massola, che sui fatti scrisse un opuscolo nel 1945, e ampi brani dello scritto del 1962 del dirigente socialista della Cgil Oreste Lizzadri.
Mi limito, rimandando a questi testi, a una cronaca essenziale dei fatti – preceduta da un richiamo al contesto più generale – per poi sviluppare qualche riflessione.

Dal maggio 1942 al febbraio 1943 si sviluppò in tutto il Nord un vasto movimento di scioperi e di sabotaggi. Il segnale per lo sciopero di marzo lo diedero gli operai della FIAT Mirafiori, il 5 marzo. Seguirono le altre fabbriche torinesi. L’8 marzo migliaia di donne manifestarono in piazza Castello contro la guerra e per la pace, per portare la protesta nelle città e per dimostrare il seguito popolare degli operai. Le operaie furono agguerrite anche nelle fabbriche, al grido “Pane! Pace!”.

Nonostante la repressione e i numerosi arresti, il movimento si sviluppò in tutto il Piemonte – soprattutto nel Biellese, dove la presenza delle operaie tessili fu fondamentale – dal 16 marzo, e a Milano, dal 19 marzo.
I fascisti ormai percepivano il proletariato come il nemico principale: una sorta di ritorno alle origini, quando la violenza squadrista nella politica e nella società fu un tutt’uno con la violenza sul lavoro, la disgregazione di ogni struttura operaia, la proibizione dello sciopero.
Probabilmente sia Massola sia Lizzadri esagerarono nell’accentuare la dimensione politica antifascista degli scioperi, che nacquero per una fondamentale esigenza di sopravvivenza. La razione-base alimentare, già insufficiente, subiva continue diminuzioni fino a raggiungere il più basso livello in Europa. Alla FIAT il motivo scatenante fu il rifiuto di pagare la promessa indennità di sfollamento ai lavoratori di aziende in centri colpiti dai bombardamenti.

Il collegamento tra lotta di classe e lotta politica, tra lotta economica e lotta antifascista si fece via via sempre più stretto. Del resto scioperare in un Paese sottoposto a dittatura, a rischio della propria vita, era di per sé un atto politico. Così come era un fatto politico che tutto fosse cominciato a Torino, la più antifascista e la più operaia delle città italiane, dove i fascisti avevano piegato la classe operaia solo dopo la marcia su Roma, col ferro e col fuoco.
È problematico individuare il ruolo preciso, nell’organizzazione degli scioperi, del Partito comunista. La rottura tra operai e fascismo fu determinata – lo abbiamo visto – dall’aggravarsi delle condizioni materiali, e la forza organizzata del PCI era allora del tutto embrionale (6.000 iscritti nel settembre 1943). Ma la sottolineatura della “spontaneità” degli scioperi non deve far dimenticare, come notò Giovanni De Luna, che “in una grande fabbrica, sulla base della sua struttura produttiva, anche un gruppo numericamente minoritario può efficacemente dirigere e ‘gestire’ un movimento di lotta” e che, pur essendo allora il gruppo dirigente del PCI “’spiazzato’ rispetto alle lotte di fabbrica”, “’l’autonomia’ nei confronti del PCI passava in quel caso attraverso il PCI stesso, con il quadro di fabbrica comunista difficilmente identificabile con il partito”. Sulla base della “spontaneità” operaia si inserì dunque il PCI, prima con i suoi quadri, poi sempre più come partito, aggiungendo ai motivi economici quelli politici del no alla guerra e al fascismo.

La precipitazione della situazione militare e l’avanzata della lotta operaia accelerarono la disfatta del regime. In aprile si sviluppò una grave crisi nel governo, nella direzione del partito e nei sindacati fascisti, nell’apparato dello Stato. A maggio le ultime truppe italiane in Tunisia furono buttate a mare, a luglio gli angloamericani sbarcarono in Sicilia. Intanto i bombardamenti colpivano in modo micidiale le città. La congiura ordita dalla monarchia, dalla fronda fascista, dai quadri dell’esercito – mentre anche il Vaticano prendeva le distanze – condusse al colpo di stato del 25 luglio. Il peso delle lotte operaie era stato davvero rilevante, come riconobbe il 10 agosto 1946, alla Conferenza di pace a Parigi, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi in un discorso passato alla storia.

Resta una domanda, che mi pongo studioso del movimento operaio ligure: perché gli operai di Genova e della Liguria non scioperarono nel marzo 1943, ma solo dopo il 25 luglio e, soprattutto, dopo l’8 settembre? È vero che ci furono eccezioni: la più importante fu lo sciopero alla Manifattura Tabacchi di Genova dal 26 al 30 marzo, per l’aumento dei salari. Ancora una volta furono le operaie le più combattive: sette di loro vennero arrestate. Inoltre il 23 marzo si scioperò alla Brown Boveri di Vado Ligure. Ma il dato generale fu quello di un appuntamento mancato.

Non basta, per rispondere, fare riferimento alla – relativa – fragilità del Partito comunista, evidenziata anche da una nota non firmata, ma di Giancarlo Pajetta, sull’organizzazione a Genova e in Liguria, scritta a fine anno. Può essere utile anche ripartire da una considerazione di Tim Mason, secondo il quale: “nella storia del movimento operaio non esiste un nesso meccanico tra il grado di sofferenza di volta in volta misurabile, da un lato, e la disponibilità alla lotta dei gruppi di lavoro coinvolti, dall’altro”.
Fame e sfruttamento possono portare alla demoralizzazione come alla rabbia. L’ipotesi di una naturale propensione operaia alla lotta non è sostenibile, tanto più se si considera la cesura del ventennio. Il fatto che buona parte dell’industria ligure fosse direttamente coinvolta nella produzione bellica determinava inoltre un controllo militare particolarmente rigoroso. I lavoratori volevano sottrarsi all’invio per lavoro in Germania: la deportazione era stata particolarmente intensa già nel 1941-42, e lo sarà ancora nel 1943. Non è mai stata scritta una storia della paura durante una dittatura, e non possiamo sapere. Sappiamo però che nei mesi successivi la classe operaia ligure divenne un attore centrale della fase finale della guerra e del processo di transizione alla democrazia.
Giorgio Pagano, co-presidente del Comitato Provinciale Unitario della Resistenza della Spezia in rappresentanza di Anpi, presidente dell’associazione Funzionari senza Frontiere, sindaco di La Spezia dal 1997 al 2007
Pubblicato lunedì 20 Marzo 2023
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