Tra tutti i fenomeni naturali, certamente i terremoti sono da sempre tra quelli che hanno più impressionato l’umanità: in tutte le culture antiche che si sono sviluppate in aree sismiche, esistono divinità sotterranee che scuotono la terra per punire gli uomini o per mandare loro, per qualche motivo, un segnale.
In realtà, finché gli uomini sono stati cacciatori-raccoglitori nomadi, i terremoti erano certamente impressionanti, ma non particolarmente pericolosi: anche se la tenda o la capanna fosse crollata, la paura sarebbe stata tanta, ma i danni sarebbero stati molto limitati. I guai sono incominciati quando gli uomini, divenuti sedentari, hanno incominciato a costruire edifici in muratura, sempre più grandi.
Al giorno d’oggi, con la maggior parte della popolazione mondiale che vive in città più o meno grandi, spesso in palazzi sviluppati in altezza per decine e decine di metri, i terremoti sono sicuramente tra i fenomeni naturali più temibili.
In linea di principio, una strategia efficace per la mitigazione del rischio sismico richiederebbe di sapere dove, quando e quanto forte un terremoto può colpire la regione in esame e quali conseguenze ci si deve attendere qualora esso avvenga. La risposta alla prima domanda riguarda la previsione dei terremoti, mentre la seconda é oggetto degli studi di rischio sismico.
La previsione dei terremoti, secondo una definizione data nel 1976 dalla Commissione per la previsione dei terremoti del Comitato di Sismologia del Consiglio delle ricerche statunitense, consiste nella indicazione della magnitudo (cioè dell’intensità), della localizzazione e del tempo origine di un futuro evento sismico, con una precisione tale da consentire una valutazione univoca del successo o fallimento della previsione stessa.
Nel corso dei decenni, sono stati fatti moltissimi studi per trovare il modo di prevedere i terremoti.
I metodi di previsione che sono stati proposti e studiati finora sono basati essenzialmente sulla ricerca di precursori diagnostici, cioè di fenomeni che dovrebbero precedere i terremoti consentendo di prevederli, magari indicando anche il luogo, il tempo e l’intensità di questi eventi. A questo scopo, sono state proposte misure delle variazioni della deformazione delle rocce, della velocità di propagazione delle onde sismiche, dei livelli delle acque freatiche, della conducibilità elettrica dei terreni e del contenuto di radon nelle acque, nel terreno e nell’aria e molte altre, incluse quelle dei comportamenti anomali di animali.
Nessuna di queste misure ha però mostrato di essere capace di fornire una previsione neppure lontanamente affidabile: ognuna di esse, se ha funzionato qualche volta, in tutti gli altri casi non lo ha fatto, sicché si deve inevitabilmente concludere che quelle rare occasioni nelle quali il fenomeno in esame ha effettivamente preceduto un terremoto siano esclusivamente dovute al caso.
In realtà, prevedere i terremoti si è rivelato un problema molto più complesso di quanto si supponeva quaranta anni or sono ed oggi la maggior parte degli specialisti del settore lo ritiene sostanzialmente impossibile, almeno nei termini di quella vecchia definizione del Consiglio delle ricerche statunitense.
Per capire le ragioni di ciò, bisogna partire da cosa è un terremoto.
Questi si dividono in due tipi: i terremoti vulcanici e tettonici. I terremoti vulcanici sono conseguenza dei movimenti del magma che alimenta i vulcani attivi. Generalmente, non sono molto forti (anche se a volte possono causare danni notevoli, come il terremoto che precedette di qualche anno l’eruzione del Vesuvio del 79 dC) e sono localizzati in aree molto limitate.
Non sono comunque certo questi terremoti a costituire il pericolo maggiore nelle aree vulcaniche. I terremoti tettonici, che sono quelli che provocano i danni maggiori, invece hanno origine nei lentissimi movimenti relativi delle placche terrestri che provocano la deformazione delle rocce nelle regioni di confine dove l’attrito blocca localmente questi movimenti.
I terremoti si verificano quando la tensione accumulata supera il carico di rottura della roccia, che si rompe all’improvviso e l’energia elastica accumulata lentamente nel corso di anni o di secoli si libera bruscamente.
Parte di essa viene irradiata nella forma di onde sismiche che si propagano attorno, scuotono il suolo in superficie e, quando prodotte nei fondali marini, possono provocare maremoti. Ciò avviene soprattutto nelle regioni di confine fra le placche, ma non esclusivamente in quelle: infatti, gli scorrimenti che si originano ai confini delle placche si propagano nelle rocce circostanti per centinaia e centinaia di chilometri, originando tensioni lungo linee di minore resistenza: le faglie tettoniche.
Le aree nelle quali si supera il carico di rottura si possono perciò trovare in qualsiasi punto lungo le faglie. Il punto dove avviene la frattura viene detto ipocentro mentre si chiama epicentro il punto della superficie terrestre sulla verticale dell’ipocentro, sebbene oggi sia noto che in realtà il rilascio di energia non avviene in un punto, ma in un volume di roccia che può essere anche di molti chilometri cubici.
È proprio questo meccanismo di origine dei terremoti tettonici che rende così difficile la loro previsione. Anche se il meccanismo è diverso, la situazione è simile a quella che ci capita quando vogliamo spezzare un fil di ferro piegandolo ripetutamente avanti e indietro: sappiamo che prima o poi si spezzerà, ma non sappiamo per quanto tempo dobbiamo esercitare i nostri sforzi per romperlo.
Bisogna però dire che se determinare l’intensità, la localizzazione e il tempo origine di un futuro evento sismico è attualmente (e probabilmente ancora per molto tempo) impossibile, le nostre conoscenze attuali ci permettono invece di stabilire con la quasi totale certezza in quali aree geografiche si verificheranno in futuro terremoti.
Infatti, la geologia e la geofisica permettono ormai, anche grazie a nuove tecnologie come il telerilevamento dallo spazio e le reti geodetiche basate sui sistemi GPS, di identificare con sicurezza la posizione delle faglie lungo le quali si verificheranno i terremoti. Inoltre, queste nuove tecnologie ci permettono anche di misurare con quali velocità si stanno muovendo queste faglie, dando così un’indicazione di quanto probabile sia un evento sismico nel giro di qualche anno.
Gli studi di sismologia storica ci dicono poi quali zone sono state colpite in passato da sismi più o meno intensi e quindi quali sono le zone a rischio più alto. Così, si possono tracciare mappe di rischio sismico, come quella per l’Italia che si può scaricare liberamente dal sito dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. È interessante notare come nel nostro Paese l’unica area nel quale il rischio sismico è assente è la Sardegna.
A questo punto però evitare i danni e le vittime non è più un problema scientifico ma politico ed economico. Preso atto che terremoti di intensità maggiore o minore, ma sicuramente anche forti, si verificheranno prima o poi ovunque in Italia, la questione non è come trovare il modo di avvertire in tempo la popolazione di uscire di casa per evitare di essere uccisa dai crolli, ma di fare in modo che le case (ma anche gli edifici pubblici e i monumenti) non crollino.
Non è un caso che in zone nei quali i terremoti sono frequenti quanto e più che in Italia, e spesso anche molto più forti, come nella Costa Ovest di USA e Canada, la Nuova Zelanda e il Giappone le vittime dei terremoti siano molto meno che nel nostro Paese. Non è certo la conoscenza di come costruire in modo da resistere a un terremoto che manca: quello che è necessario è che l’imprenditore edile rinunci a una parte di profitto per mettere in atto tutte le misure necessarie a rendere sicuro l’edificio.
Certamente, rispetto alle nazioni che abbiamo citato in precedenza (ad eccezione del Giappone, ma l’edilizia storica giapponese è tradizionalmente antisismica) l’Italia ha anche il problema di centinaia di migliaia di edifici costruiti nel passato da mettere in sicurezza.
Anche per questi tuttavia non mancano adeguate tecniche di consolidamento e anzi in Italia esistono poli di eccellenza in queste tecnologie, come l’Università della Basilicata a Potenza. Al solito, il problema è economico.
Lo Stato (ma anche il singolo cittadino) però dovrebbe prendere atto del fatto che investire subito in sicurezza sismica non è una spesa, ma un investimento che permetterà sicuramente in futuro di risparmiare non solo somme enormi, ma anche vite umane e perdita di beni culturali.
Vito Francesco Polcaro, scienziato dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia spaziale (Istituto Nazionale di Astrofisica) e membro del Centro per l’astronomia e l’eredità culturale dell’Università di Ferrara
Pubblicato mercoledì 13 Dicembre 2017
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