cover-libro-pensare-la-liberta-i-quaderni-diAntonio Giuriolo (http://www.anpi.it/donne-e-uomini/2350/antonio-giuriolo), partigiano vicentino morto nel 1944, è immortalato nelle pagine di Luigi Meneghello, tra i Fiori italiani e, soprattutto, in quelle de I piccoli maestri. Paradossalmente l’importanza della figura morale e civile di Giuriolo sembrava essere esaurita, senza più aver bisogno di indagarne la storia intellettuale, nel ritratto pure altissimo che ne aveva fatto lo scrittore vicentino. Anche se, in realtà, lo stesso Meneghello scriverà che i maestri dell’antifascismo italiano «sarebbe importante studiarli, ricostruire la loro cultura, riconoscerne l’origine e la tempra del loro non-conformismo, rintracciare la storia delle loro libere scuole gli effetti della loro influenza».

Renato Camurri, docente di storia contemporanea all’Università di Verona, adesso raccoglie e introduce un parte dei quaderni e delle riflessioni di Giuriolo per documentare i momenti genetici di una coscienza antifascista; si trattava di ripercorrere le tappe di una formazione, tra gli anni Trenta e Quaranta, e di un’elaborazione culturale e politica che è fatta di letture, appunti e note diaristiche personali, riflessioni che lo porteranno ad aderire a Giustizia e Libertà, al Partito d’Azione e, infine, alla Resistenza dopo l’ 8 settembre 1943.

La necessità di studiare la formazione culturale e politica di Giuriolo deriva dall’altrettanta necessità di tornare a indagare la genesi e lo sviluppo dell’antifascismo di uomini e donne della Resistenza, antifascismo che in alcuni casi si rivelò, prima di tutto, come la liberatoria reazione personale a un regime che aveva fatto del conformismo uno dei fondamenti del suo ordine sociale. Nello specifico, il curatore inserisce il profilo di Giuriolo in «un preciso gruppo di figure d’intellettuali appartenenti all’area giellista prima e azionista dopo, nati grosso modo tra il 1910 e il 1920».

L’opposizione al regime di Giuriolo era già incarnata nella sua vita appartata nella Vicenza fascista; forse non a caso uno dei quaderni di appunti, qui non raccolti, si concentra sulla figura solitaria e sdegnosa di Cavalcanti: all’inizio l’opposizione al fascismo di Giuriolo è una questione di stile e, si direbbe, di prossemica.

Giuriolo legge e così si sprovincializza dalla tetraggine della cultura e retorica fasciste, almeno quelle ufficiali. Croce, Thomas Mann (portato di nascosto dopo un viaggio in Germania), Tocqueville, la lettura fondamentale di Socialismo liberale di Carlo Rosselli e degli Elementi di un’esperienza religiosa di Aldo Capitini, i problemi economici visti alla luce della giustizia sociale, le riflessioni sul Risorgimento e su Machiavelli sottratti alla interpretazione fascista, i libri del catalogo Laterza… insomma, la lettura e lo studio come elaborazione di autonomia e indipendenza. Poi i rapporti con il giovane Bobbio, docente all’Università di Padova, Luigi Russo, Carlo Ludovico Ragghianti, Tristano Codignola, la fondazione del Partito d’azione a Milano nel 1942, l’organizzazione della rete antifascista in Veneto.

Da segnalare gli ampi quaderni, non antologizzati ma di cui il curatore rende conto nella lunga introduzione, dedicati a riflessioni e letture di classici greci e latini, recuperati in vista di una coscienza etica e politica. Democrazia, libertà e tirannia sono i concetti attraverso i quali Giuriolo legge il mondo classico. Basti pensare ai fogli dedicati al Tacito degli Annales, difensore delle istituzioni repubblicane di Roma, che potremmo opporre all’interpretazione esaltata, per esempio in Germania, di Tacito in funzione antiparlamentare e razzista, o al mito di Roma e dell’Impero nella propaganda fascista. Queste ultime sono manipolazioni ideologiche con poche basi nella filologia e contro le quali potremmo usare una lucida osservazione di Giuriolo: «Il culto della storia e delle memorie nasce e si sviluppa con la libertà: la tirannide sollecita l’odio e l’adulazione e l’uno e l’altra non ama ma deforma la verità».

Responsabilità, sobrietà e purezza di ideali faranno di Giuriolo uno di quei ‘piccoli maestri’ che seppero riunire attorno a sé studenti e giovani partigiani come Luigi Meneghello: il loro primo insegnamento fu pensare la libertà come attuazione di un compito morale, come reazione all’attendismo e alla rassegnazione di fronte allo sfacelo nazionale. In un appunto dal titolo Vita partigiana, nel quale Giuriolo racconta l’ingresso nella Resistenza, si legge: «cominciava per me una vita tutta nuova nella quale volevo impegnarmi a fondo con tutto me stesso, per uscire anch’io tutto rinnovato; una vita che mi dava l’occasione, finalmente, di saggiare la consistenza della mia fede morale, anche con supremo sacrificio». Un esercizio di avvicinamento dei più consapevoli e consequenziali della lotta partigiana in Italia.

Nell’estate del ’44 Giuriolo è attivo sull’Altopiano di Asiago, con la consueta intransigenza va affermando che – come partigiani – bisogna essere preparati e non improvvisati, ha un’idea precisa della guerriglia partigiana e delle sue difficoltà, come dimostrano le sue lettere a Egidio Meneghetti del CLN del Veneto. Il 12 dicembre dello stesso anno Giuriolo è sull’Appennino tosco-emiliano al comando della brigata “Matteotti di montagna” e morirà durante una ritirata sotto il fuoco tedesco a Corona, a ovest del Monte Belvedere.

Forse uno dei modi per uscire dalla crisi del paradigma resistenziale è quello di ritornare a raccontare, fuori da ogni agiografia, la vita di coloro che parteciparono alla lotta di Liberazione con rigore esistenziale e una energia morale inaudita dopo anni di acquiescenza alla dittatura del popolo italiano.

Non si tratta di innalzare miti ma indicare l’esemplarità e, come scrive Camurri, la «morale eroica che una parte minoritaria degli italiani dimostrarono di possedere nei cruciali anni della guerra».

A Giuriolo, infine, mi pare si possano applicare alcune righe di quella crociana ‘religione della libertà’ (è il titolo del primo capitolo de La storia d’Europa) che fu uno dei momenti decisivi del suo processo intellettuale: «la figura eroica, che parlava ai cuori, era quella del poeta-milite, dell’intellettuale che sa combattere e morire per la sua idea; una figura che non rimase nei rapimenti dell’immaginazione e nei paradigmi educativi, ma apparve in carne ed ossa sui campi di battaglia e sulle barricate in ogni parte d’Europa».