Schizzo a penna per un ritratto di Bertolt Brecht

«La nostra biancheria ci appartiene, e di quando in quando la laviamo. Le nostre parole non ci appartengono, e non le laviamo mai» (1). Questa fulminante osservazione, annotata nel 1920 da un Bertolt Brecht appena ventiduenne, è perfetta per denunciare la banalizzazione del linguaggio che osserviamo nel mondo contemporaneo. Un mondo in cui le parole vengono per così dire levigate e arrotondate nel discorso guidato dai media, e quindi sbiadiscono, perdono gli spigoli, esauriscono il loro potenziale espressivo: assumono insomma significati convenzionali, si impoveriscono e diventano semplici tasselli all’interno di frasi fatte che trasmettono cliché e banalità.

Per questo motivo “lavare” le parole è, oggi più che mai, un compito necessario. Ovviamente esso non potrà essere il ritorno a un presunto loro significato “originario” – perché le parole sono veicoli di significati in costante evoluzione, come lo è l’esperienza di chi le usa – ma piuttosto un utilizzo indirizzato al pieno dispiegamento del loro potenziale semantico ed espressivo. In questo modo sarà possibile recuperare un discorso originale e critico sul nostro mondo. L’esplorazione del significato e delle implicazioni della parola fragilità, che Roberto Gramiccia conduce da tempo e che trova ora espressione in questo libro scritto con la collaborazione di Ginevra Amadio, rappresenta un contributo importante al recupero del potenziale semantico e critico del termine. Nella riscoperta della fragilità da parte di Gramiccia, che nasce da una lunga esperienza di medico e da una non meno assidua frequentazione del mondo della cultura e dell’arte, la parola assume infatti uno spessore nuovo e inconsueto.

Il saltatore di tori, statuetta proveniente da Cnosso (Museo Archeologico di Heraklion)

“Fragilità” non è qui il semplice signum di una debolezza individuale meritevole di compassione – quella compassione che nella nostra epoca ipocrita è «ciò che non si nega a coloro a cui si nega l’aiuto». È qualcosa di molto diverso da questo: è un aspetto ontologicamente costitutivo dell’essere umano. Il punto di partenza di questo approccio originale al tema della fragilità è rappresentato dalle riflessioni di Arnold Gehlen sull’uomo come «essere manchevole» (concetto che Gehlen a sua volta riprendeva da Herder): un essere che, indifeso più di altri esseri nell’ambiente naturale, si crea una seconda natura, il mondo della cultura specificamente umana, inventando la tecnica e facendone uso. La fragilità è insomma per Gramiccia «la creta con cui siamo impastati», un «vincolo» e una «formidabile risorsa» al tempo stesso.

Tra le tante intuizioni e descrizioni del mondo e della natura umana, Antonio Gramsci ha introdotto il concetto di “rivoluzione passiva”

L’autore distingue tra fragilità individuale, fragilità sociale e fragilità esistenziale. Non seguirò nei dettagli il suo ragionamento, limitandomi a sottolineare come la fragilità esistenziale derivi dal combinarsi delle prime due, e come essa si presenti oggi «in una variante “stordita” e imbelle», cioè incapace di reagire alla propria condizione. In effetti la fragilità può presentarsi come passiva e rassegnata; oppure porsi in grado di reagire attivamente per superare la propria condizione di disagio e di sofferenza. Una «rivoluzione passiva» (il concetto coniato da Vincenzo Cuoco e poi rielaborato e approfondito da Gramsci in pagine giustamente famose) è possibile – ci dice Gramiccia – solo in presenza di una situazione di fragilità sociale rassegnata. La fragilità attiva, per contro, rappresenta «il propulsore di qualsiasi processo dialettico» progressivo in ambito storico. Ma si può passare dal primo stato al secondo, dalla passività alla rivolta? La risposta del libro è affermativa, e al riguardo è riportato l’esempio dell’insurrezione di Napoli durante l’occupazione nazista.

Roberto Carignani, “Le Quattro Giornate di Napoli”, dettaglio

È quindi lecito chiedersi: perché la fragilità attiva oggi non riesce a contendere il terreno a quella passiva? Perché – questa in sostanza la risposta proposta – l’ideologia dominante ha naturalizzato il capitalismo, mettendone in discussione la stessa storicità. Questa osservazione è corretta, anche se è forse il caso di aggiungere che la situazione attuale è ben diversa dal neoliberismo trionfante e arrogante dei primi anni Novanta. La stessa ideologia del “postmoderno”, che Gramiccia e Amadio considerano come «l’elaborazione teorica più compiuta della fragilità passiva individuale e sociale che si fanno pensiero», e che in effetti colpisce proprio le forme di pensiero antagonistiche a quello dominante, non sembra più in grado di mantenere la propria presa ideologica a fronte di una situazione che mette in luce la falsità di tutti i dogmi del neoliberismo.

Persone in coda fuori da una filiale della banca Northern Rock nel Regno Unito per ritirare i risparmi durante la crisi finanziaria del 2007-2008

In effetti, è chiaro almeno dalla crisi del 2007-2008 e dalla gigantesca socializzazione delle perdite avvenuta in quegli anni che non è affatto vero che «lo Stato è il problema e il mercato è la soluzione». Quanto all’idea che lo sviluppo dei commerci internazionali rechi di per sé pace e prosperità ovunque, è facile constatare come oggi la reazione contro questo dogma sia stata addirittura impugnata da una frazione della classe dominante statunitense come un’arma per conseguire il potere politico – salvo dimostrare, con l’erraticità stessa delle proprie mosse, la propria inettitudine e incapacità di dare una soluzione progressiva al problema. Il che del resto non sorprende, in quanto il necessario presupposto per trovare una soluzione sarebbe mettere in discussione una politica guidata dagli interessi delle grandi corporations, e questo non può farlo alcuna frazione della classe dominante.

(Imagoeconomica, Carlo Carino by AI MID)

Se oggi sono insomma presenti alcuni fattori che potrebbero favorire il passaggio dalla fragilità passiva alla fragilità attiva, essi non sembrano di per sé in grado di generare il cambiamento auspicato; e la stessa necessità – invocata nel libro, e condivisa da chi scrive – di riproporre la costruzione di un moderno Principe, ossia di un partito politico in grado di organizzare la fragilità attiva, non sembra trovare oggi un referente adeguato, almeno alle nostre latitudini. Risultato: assistiamo invece a una «rivoluzione digitale» che può ben essere definita – come fa Gramiccia – «la più grande rivoluzione passiva di tutti i tempi»: perché in essa il capitale pone al proprio servizio la tecnica non solo in termini di produzione, ma anche di sviluppo di forme estremamente raffinate di controllo ed egemonia. Queste sono alcune delle riflessioni che la prima parte del libro di Roberto Gramiccia e Ginevra Amadio sollecita. Ma c’è una seconda parte, non meno interessante, dedicata ai «fragili eroi» che hanno fatto la storia.

Rosa Luxemburg in una foto segnaletica

In essa gli autori ci presentano una rassegna di ritratti di personaggi in grado di esemplificare i vari aspetti della fragilità, e tra questi uno dei concetti chiave contenuti nella prima parte del libro: l’enorme potenziale di cambiamento e di costruzione della civiltà che la fragilità è in grado di sprigionare. Si tratta di pagine di particolare intensità, dedicate a figure che vanno (mi limiterò a menzionare i ritratti che mi hanno più colpito) da Spartaco a Ipazia, da Leopardi a Gramsci, da Rosa Luxemburg a Kafka, dal chitarrista jazz Django Reinhardt al calciatore Garrincha, dal giornalista e scrittore Gianni Rodari all’epistemologo Paul Feyerabend, da un artista quale Mario Schifano a una poetessa come Alda Merini, per finire col fisico Stephen Hawking.

Il musicista jazz, Django Reinhard

Si tratta di personaggi molto diversi tra loro, non di rado segnati da un destino tragico. Ma in tutti questi ritratti, disegnati con grande maestria e delicatezza, la fragilità e il suo potenziale di espressione e di liberazione sono sempre ben presenti, talvolta in modo sorprendente. Cosicché queste pagine esemplificano e danno per così dire carne e ossa alle tesi esposte nella prima parte del saggio.

Il libro di Gramiccia e Amadio, come è naturale, si muove entro coordinate teoriche di riferimento occidentali. Tanto più sorprendente è quindi la sua convergenza con alcune riflessioni sullo stesso tema presenti nel pensiero cinese. Mi riferisco in particolare al classico del taoismo Daodejing. Al suo interno la fragilità torna più volte, e per esprimere concetti importanti. Fragilità, tenerezza e malleabilità sono viste come raffigurazioni del potenziale e della forza della vita contro la durezza e rigidità della morte:
se gli esseri molli e fragili sono, nel nascere…
vizzi e secchi diventano, invece, quando muoiono. Sicché, quel che è duro e rigido è compagno della morte, quel che è molle e delicato lo è della vita (2).

Di qui uno dei messaggi più importanti del Daodejing, più volte riproposto nel corso dell’opera: «Fragilità e debolezza prevalgono sulla durezza e sulla forza»; e, in modo ancora più tranchant:
che il debole prevale sul forte e il molle sul duro,
nessuno al mondo lo ignora,
ma nessuno è capace di metterlo in pratica (3).

Teoria della fragilità ha l’obiettivo di accrescere in noi la consapevolezza di questa forza della fragilità, e soprattutto la capacità di metterla in pratica.

Vladimiro Giacchè


NOTE

  1. Schriften zur Politik und Gesellschaft 1919-1956, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1977, p. 13.
  2. Laozi, Daodejing. Il canone della Via e della Virtù, a cura di A. Andreini, Testo a fronte, Torino, Einaudi, 2018, § 76, p. 211.
  3. Laozi, Daodejing, § 36, p. 95 e § 78, p. 217 (cfr. anche il § 43, p. 119); per il § 78 si è però qui preferita la traduzione contenuta in Tao Tê Ching. Il libro della Via e della Virtù, a cura di J.J.L. Duyven- dak, Milano, Adelphi, 1973, p. 167.