Il merito di Paolo Vanacore non è tanto quello di scrivere belle storie, quanto la sua capacità di afferrarti con mano ferma e trascinarti al loro interno. D’altronde, si tratta di un uomo di teatro, e solo chi ha sfiorato con il tocco di dita tremanti un sipario rosso prima di aprirlo, può mostrare l’anima di un personaggio ancor prima di far giungere la sua voce. E sono voci profonde quelle di queste donne, scelte con cura o incontrate casualmente. Viene solo voglia di proteggerle tutte. Una dopo l’altra o tutte assieme. Assordante l’eco di solitudine, incomprensione, resa. E all’improvviso il trionfo dell’amore, la rivincita della vita sulla vita stessa e senti che il cuore accelera il suo battito. Inevitabile, che il cuore ce l’ha messo per primo l’autore, non risparmiandone neanche una pulsazione. Ecco. È un testo che pulsa.
Adriano Sofri (3 novembre del 2000) scriveva su la Repubblica circa Pasolini: “…conosceva – di più, ne era uno specialista – un segreto che noi intravedemmo solo grazie al femminismo: il segreto dei corpi. Che noi non abbiamo, ma siamo un corpo. Che quando facciamo l’amore, mangiamo, giochiamo a pallone, pensiamo pensieri e scriviamo poesie e articoli di giornale, è il nostro corpo che lo fa. Pasolini riconosceva il proprio corpo, e dunque quelli degli altri. Sapeva che esistono popoli, le nazioni, le classi, le generazioni, e una quantità di altri vasti ingredienti della vicenda sociale, ma li guardava al dettaglio nel modo di camminare e di pettinarsi, di urtarsi per gioco o di ghignare per minaccia. Si sentiva in dovere di essere marxista, ma il suo era un marxismo delle fisionomie, dei gesti, dei comportamenti e dei dialetti. Il sentimento così forte del proprio corpo e di quello degli altri, tenerezza e colluttazione, seduzione e ripudio, amore e sputi in faccia, passa nel corpo della sua prosa, ma controllato e raziocinante”. Cosa c’entra Pasolini? Eppure c’entra; in modo consueto e disinvolto, sicuramente legittimo. Ho ritrovato in questo libro le sue borgate dimenticate – per scelta, da chi le aveva viste nascere – e riudito le voci di chi diceva: “Anche se fate finta che non sia così, ci siamo anche noi”. Quei volti sofferti di quella sofferenza insita nei tratti di visi che cercavano dignità in vite che di dignità ne avevano davvero poca. Storie al margine sotto l’argine: ho amato Pasolini ed ho apprezzato il tentativo del tutto involontario di Vanacore di riesumarne l’essenza che gli ha permesso di stravolgere realtà scomode senza avere l’intento di farlo. È che, a volte, il narratore è talmente bravo da riuscire non solo ad entrare nella storia ma a diventarne anche il personaggio principale. Che esistono le “prime donne” e quelli che si accontentano di sedersi in prima fila. La prospettiva cambia e se si ha la capacità di non cadere nell’arroganza della consapevolezza di essersi meritati quel posto, diventa un piacere starsene lì a osservare fino a che punto ci si espone. E per gli scrittori quel punto limite è un luogo pericolosissimo, poiché rischiano di perdersi per sempre in quello che stanno scrivendo. Vanacore quel limite l’ha visto e scavalcato e questo gli ha permesso di restare per un tempo infinito sospeso in quel tempo senza tempo. Un visionario, per nulla allucinato. Scorci di vita reali, sentimenti immanenti, esistenze realmente esistite. E si rimane lì mentre qualcosa accade e tu non puoi farci nulla. Si rimane lì con la vita che ti passa tra le dita sperando solo che duri il più possibile.
“L’amore è umano e al tempo stesso sovrannaturale, terreno e irreale, cieco e sordo. L’amore l’ho solo anelato, mai vissuto pienamente, mai posseduto completamente, mai fu amore tutto mio. Sono stata ammirata, comandata e celermente consegnata, ma per diventare donna amata e amante, purtroppo avrei dovuto aspettare molto, moltissimo tempo. Pensai erroneamente che questo matrimonio poteva almeno rappresentare la giusta occasione per iniziare a vivere, per essere indipendente, per liberarmi da quella mano che ancora stringeva forte il mio polso tutte le volte che provavo a prendere una direzione diversa. Meglio sorridere, quasi beffardamente, ma sorridere. Istintivamente mi sforzavo di passeggiare per la vita a braccetto con l’allegria, un modo per esorcizzare i miei infiniti problemi. Mi dedicai al lavoro: per questa mia lecita aspirazione nessuno si sarebbe mai sognato di contrastarmi. Né mia madre, né il mio giovane marito. Utilizzai al meglio quelle doti comunicative frutto degli stimoli esterni ricevuti durante l’infanzia, doti che unite a tutta l’intraprendenza necessaria a circondarmi di consensi, fecero di me una donna professionalmente appagata. Senza scendere a compromessi e senza fingere. Ho impostato i miei rapporti di lavoro in maniera diversa, scandagliando l’umanità degli altri, cercandola, anche dove era meno visibile, dove l’aridità arrivava a sopraffare persino l’ultimo cinque per cento di buono che non ho mai smesso di credere fosse presente nel più spietato dei miei colleghi. E ce l’ho sempre fatta. Sempre. Chi mi ha detestato lo ha fatto perché si è trovato inaspettatamente messo a nudo, pensando di essere scoperto. E sbagliava, perché di fronte alle reciproche nudità avrei teso le mani”.
Roba che vien voglia di andare da questa donna senza preoccuparsi troppo di quello che si vuole o deve dire. Raggiungere e basta. E il punto è che per ciascuna delle donne per cui Vanacore si è esposto, quasi a voler dimostrare a tutti i costi di essere dalla loro parte (e come dargli torto), ci sarebbe la voglia di trascorrerci del tempo di cui siamo sicuri, spesso come si trattasse di amiche a cui si tiene davvero. Perché è così, si finisce di leggere il libro e si resta sconcertati di come sia stata rapida la conoscenza di queste persone mai incontrate prima eppure così vicine. Che non è solo il racconto delle loro vicende personali, quanto il modo, netto e a volte crudele, come se fosse una cosa difficile da dire ma bisogna dirla e allora lo si fa nel modo più reale possibile. Reale. Perché è sempre il reale che conduce all’umano e solo l’umano che ci fa sentire persone migliori, per il semplice fatto di averlo compreso. E quanta umanità vi è in queste pagine, quanta fragilità e clemenza. Quanta coscienza e passione. Quanto sentimento.
Figlio di Napoli, Paolo, e il sentimento ce l’ha dunque nelle vene e non deve faticare per esprimerlo. I napoletani (detto da una romana senza alcun tipo di riserve) sono tutti figli d’arte dal momento della nascita, legittimamente per quell’ardore che scorre dentro loro. Ma qualcuno più degli altri ed io che ho avuto la fortuna di incontrarne uno mi sono sentita di dire solo: “ch’ ne parlamm a fa!”. Che per usare le parole di Ippolito Nievo, Napoli è rimasto per me un certo paese magico e misterioso dove le vicende del mondo non camminano ma galoppano, non s’ingranano ma s’accavallano, e dove il sole sfrutta in un giorno quello che nelle altre regioni tarda un mese a fiorire. Ecco. Vanacore, nonostante sia stato adottato da Roma che lo tratta come figlio proprio, e a buon ragione, ha con sé esattamente quel non tardare a fiorire, nel senso di seminare.
Io non so se anche agli altri capita mai di sentirsi stranamente responsabili ogni qual volta si consiglia una lettura o la visione di qualcosa in particolare. Come se fosse opera in parte anche nostra. In fin dei conti, stiamo chiedendo a qualcuno estraneo da noi stessi, di spendere il proprio tempo per la stessa cosa per cui abbiamo speso il nostro e questa è una grande responsabilità. Ma ci sono volte in cui si è talmente sicuri di quello che si è provato, da raggiungere una certa serenità d’animo nel dispensare consigli. Ed io, che sono restia a condividere le cose belle con gli altri (intendendone le emozioni), me lo concedo stavolta consapevole che la prima responsabilità a cui sono stata chiamata a rispondere è quella di mantenere in vita queste donne. Far loro spazio tra la folla e metterle al sicuro. E al mondo, non esiste niente di più sicuro di tanti cuori pronti ad accoglierle.
Pubblicato lunedì 24 Aprile 2017
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