Il nuovo libro di Mimmo Franzinelli riesamina il fascismo di Giovanni Gentile non più alla luce della sua morte ma seguendone il percorso che, attraverso innumerevoli e prestigiosi incarichi (ministro, senatore, presidente dell’Accademia d’Italia), lo trasforma da filosofo dell’“atto puro” a maggior organizzatore culturale del consenso al regime.
È stato affermato, e con ottime argomentazioni, che non c’è nessun rapporto tra la filosofia di Giovanni Gentile e il fascismo. L’attualismo, secondo studiosi come Gennaro Sasso o Emanuele Severino, non è la forma teoretica del regime: anzi, è un sistema filosofico che ha alimentato anche la formazione di alcuni intellettuali antifascisti. Naturalmente ci sono posizioni opposte, per esempio già a partire da Benedetto Croce, di chi vede fra l’idealismo gentiliano e il fascismo un nesso necessario. Molto più probabilmente la genericità della metafisica gentiliana si prestava, come già Gramsci aveva notato, a forme di opportunismo politico.
Se nel primo dopoguerra si fosse affermato un governo antiliberale e autoritario ma non fascista, forse Gentile gli avrebbe prestato il suo pensiero e la sua opera politica: ben prima dell’avvento del fascismo Gentile aveva sviluppato, mantenendolo poi costante, uno dei tratti della sua concezione statalista, ossia una visione deprimente dell’individuo, ridotto a mera accidentalità, il cui unico scopo è l’armonizzarsi con la verità superiore dello Stato, assurta a dogma religioso. Si può affrontare il fascismo integrale del filosofo siciliano che, come è noto, seguì Mussolini fino alle più estreme conseguenze, anche a prescindere delle sue posizioni filosofiche. Il nesso tra filosofia e posizioni politiche risulta più persuasivo, invece, nel nazismo di Martin Heidegger, il cui coinvolgimento è stato più profondo di quanto lo stesso filosofo pubblicamente affermò (riducendo la sua adesione a “una fesseria”, eine Dummheit) e i Quaderni neri, da poco pubblicati anche in Italia, stanno lì a dimostrarlo.
Tornando a Gentile, egli arrivò a riconoscere nel regime fascista un compimento della storia italiana dal Risorgimento in poi. Il suo coinvolgimento nella dittatura mussoliniana fu pressoché totale, come dimostra l’ultimo saggio di Mimmo Franzinelli, Il filosofo in camicia nera. Giovanni Gentile e gli intellettuali di Mussolini.
Nel complesso e ambiguo problema del rapporto tra gli intellettuali e il regime, per Gentile non ci sono dubbi: il consenso è netto. Fa bene Franzinelli a documentare, senza rimuovere o relativizzare, questa adesione; in particolare scrive che il ruolo del filosofo fu quello “di politico e organizzatore culturale (probabilmente il maggiore e più moderno organizzatore culturale italiano della prima metà del Novecento)” del fascismo. Insomma, un importante intellettuale in grado di attrarre a sé non solo pensatori fascisti ma anche antifascisti: per verificarlo è sufficiente scorrere l’elenco dei collaboratori all’Enciclopedia italiana.
Per misurare il contributo di Gentile alla politica del Ventennio, si legga l’utilissima cronologia politico-culturale alla fine del volume: ci si renderà così conto della quantità di incarichi che Gentile assunse fino alla fine della sua vita. Qui sta gran parte del valore del lavoro di Franzinelli: guardare al Gentile intellettuale e uomo di potere del regime indipendentemente dalla sua tragica fine. La sua morte desta spesso pietà, anche perché in sé Gentile fu alieno da sentimenti di ostilità e di odio, tuttavia non spese mai una parola per stigmatizzare l’essenza violenta del fascismo e, in certi casi, la legittimò autorevolmente.
La novità della ricerca di Franzinelli è quella di ripercorrere la carriera di un intellettuale che diventa fascista e che passa da liberale a illiberale, fino a seguire, in nome di una assurda coerenza, il fascismo nella sua metamorfosi saloina. Attraverso la lettura completa dell’epistolario Gentile-Mussolini e della pubblicistica del filosofo, Franzinelli dà conto del suo cursus honorum: da docente universitario a ministro della Pubblica istruzione, fautore di una riforma scolastica di impronta autoritaria e classista; da direttore dell’Enciclopedia italiana ad autore del Manifesto degli intellettuali fascisti, a direttore dell’Istituto nazionale fascista di cultura, fino a presidente dell’Accademia d’Italia: questi sono solo alcuni tra i maggiori incarichi di Gentile.
Emerge spesso, tra le altre cose, la sua volontà adulatoria, capace di toccare vertici di cortigianeria che avrebbero fatto impallidire anche Tacito. Per esempio, in un articolo del maggio 1934 scrive di Mussolini: “Oggi forse è l’uomo di Stato a cui tutto il mondo guarda come al più sincero propugnatore del disarmo e di ogni possibile intesa fra le nazioni in Europa e fuori. Dietro al suo duce tutto il popolo italiano vuole la propria prosperità e grandezza in un mondo libero risanato dai veleni della guerra e pacificato dallo spirito di giustizia”. Righe che destano nel lettore una certa ironia, visto che lo stesso Gentile solo due anni prima, alla voce Fascismo dell’Enciclopedia compilata con Mussolini, aveva affermato che “solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla”.
Franzinelli documenta anche altro: il silenzio di Gentile, pur antirazzista, sull’ignominia delle leggi razziali. E, se è vero che in privato aiutò qualche studioso ebreo (come Oskar Kristeller), è vero anche che esaltò l’aggressione all’Etiopia; che nel 1936, ricevendo a Roma il fanatico antisemita Hans Frank (poi impiccato a Norimberga nel 1946), parlò di Mussolini e Hitler come di “nomi pieni di luce”; che nel 1942 scrisse un rozzo saggio dal titolo Giappone guerriero in cui si esalta la nuova civiltà dello spirito che quel Paese avrebbe fondato assieme a Italia e Germania. Ancora, nel marzo del 1944, Gentile inneggia, in una prolusione di fronte a una spettrale Accademia d’Italia, a Hitler come a “Condottiero della grande Germania”, a baluardo dell’Europa.
Dopo l’8 settembre 1943, il filosofo è smarrito, avversato dagli stessi fascisti per la sua moderazione, cerca di trovare all’interno della Rsi un ruolo di pacificazione in nome della difesa della patria “invasa” dagli Alleati, non rendendosi conto che la sua idea di patria era quella nazifascista, quella che, come scrisse Carlo Dionisotti ricordando la morte di Gentile, era degenerata in “tirannica e razzista”.
La morte di Gentile, nell’aprile del 1944 per mano dei gappisti fiorentini comandati da Bruno Fanciullacci, avviene in un clima di guerra civile, di fronte alla quale i suoi appelli all’unità degli italiani non potevano avere nessun effetto. In Gentile, ormai stanco e avvilito, si volle colpire un simbolo del fascismo. Il suo assassinio è forse un esempio di empietà e giustizia assieme, va ricordato però che sempre a Firenze, dove il filosofo fu ucciso, cinque giovani contadini del Mugello, renitenti alla leva della Rsi, erano stati ammazzati dai fascisti a Campo di Marte in un pubblica esecuzione.
Di tutto quello che si scrisse a seguito della morte di Gentile rimangono memorabili le parole di Benedetto Croce: “E ora anche il Gentile è morto, di una tragica morte; ma la pietà e l’orrore del sangue versato non possono nascondere la netta, recisa e dura verità che egli è caduto vittima di quelle forze alle quali aveva dato l’anima sua, di quelle violenze che generano violenze, di quelle ingiustizie che generano ingiustizie”.
Pubblicato giovedì 26 Agosto 2021
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