Sono un ragazzo di quasi 19 anni e la prima volta che mi sono imbattuto in un’organizzazione neofascista fu quando frequentavo la seconda o terza media.

Ricordo di aver partecipato con la mia famiglia ad un evento culturale nel teatro cittadino: si raccontava del genocidio armeno del 1915-1916. Poco prima che lo spettacolo inizi, un gruppetto di cinque o sei persone (fra cui un ragazzo che conoscevo) entra in sala a prendere posto; li noto subito perché tutti avevano una maglietta nera con scritto sulla schiena una strana frase, che ricordava i tempi del fascismo, e i capelli rasati a zero. A quell’età certamente sapevo ricondurre quei tipi ad un gruppo di estrema destra, ma non avevo minimamente le capacità critiche di capire fino in fondo i “valori” di cui erano portatori o l’orrore che vi si celasse dietro.

Il libro “L’educazione di un fascista” di Paolo Berizzi, (Feltrinelli, 2020) offre, attraverso un linguaggio semplice e diretto, ciò che forse manca all’ “antifascista medio”, ossia una così completa e minuta descrizione non solo degli ambienti fascisti ma anche, e soprattutto, del loro proselitismo e della propaganda che coinvolge sempre più ragazzi, talvolta anche bambini.

Il viaggio che l’autore compie coraggiosamente (da febbraio 2019 vive sotto scorta a causa delle minacce ricevute da gruppi neofascisti e neonazisti) inizia dalle palestre di arti marziali: un mondo in continua espansione e crescita economica che è sempre più corteggiato dai movimenti neofascisti.

Perché Berizzi ha scelto proprio le palestre di arti marziali e del combattimento per descrivere l’educazione di un fascista? O meglio, perché i nuovi fascisti usano proprio gli sport da combattimento per radicalizzare nuovi militanti? Gli interpellati, ossia allenatori, dirigenti di squadre e amatori forniscono risposte disomogenee che fanno riflettere: c’è chi liquida la questione dicendo che l’ideologia non c’entra e chi apertamente si dichiara fascista. Ciò che lega il mondo dello sport da combattimento e il neofascismo è senz’altro l’interpretazione dello sport, da parte del primo, e la concezione di società e di uomo, da parte del secondo.

I neofascisti pretendono di traslare i valori fondamentali del combattimento sul ring (lealtà, rispetto per l’avversario, piena fedeltà al maestro, per citarne alcuni) nella vita quotidiana. Peccato però che questi valori non siano mai attuati al di fuori del campo da combattimento. Ne sono un valido esempio gli episodi di violenza gratuita, che talvolta sfociano anche in omicidi, causati dagli stessi lottatori e pugili che si considerano fautori di una nobile disciplina che insegna a rispettare l’altro! Fortunatamente, in questi ambienti, ci sono anche forti oppositori di tale degenerazione, che tentano di resistere utilizzando tutte le norme previste da regolamento per limitare il fenomeno. Purtroppo i risultati sono modesti, a causa dell’ambiguità delle organizzazioni neofasciste che si camuffano sotto spoglie innocenti, difficili da identificare.

Il viaggio di Berizzi continua in riviera romagnola, dove Mussolini fece costruire le prime colonie fasciste e dove qualcuno oggi le ripropone: lì decine e decine di bambini vengono istruiti a cantare testi scritti da Massimo Morsello, cofondatore di Forza Nuova con Roberto Fiore.

La “scuola di coraggio fisico e patriottismo” approda anche in montagna con soggiorni non più dedicati a bambini, ma a giovani adolescenti che partecipano a seminari sovranisti, sfide tribali dove la prestazione fisica viene osannata, dibattiti sull’Europa, sugli Stati, sulla Patria. I relatori invitati a queste conferenze dove si respira aria di odio, razzismo e intolleranza appartengono non solo a CasaPound e Forza Nuova, ma anche, alcune volte, alla Lega e a Fratelli d’Italia.

Tutto ciò – l’autore lo scrive esplicitamente – dovrebbe seriamente preoccuparci: i due partiti più in ascesa del panorama politico italiano, entrambi sovranisti, hanno relazioni nella realtà sociale con partiti e movimenti che mettono in pratica la violenza, la criminalità, l’odio di razza.

Berizzi descrive l’ambiente della destra italiana come un sistema satellitare in cui, attorno al grande pianeta della Lega, ne militano tanti piccoli altri, gruppuscoli neofascisti e neonazisti. Questo sistema sopravvive anche grazie a chi crede che il fascismo non esista più, a chi sminuisce a “ragazzate” le svastiche e le stelle di David che compaiono sulle porte di ebrei e sopravvissuti ai lager, solo per citare recenti casi.

Il libro traccia anche un’interessante analisi del rapporto tra propaganda violenta e videogames: videogiochi violentissimi, a cui sempre più adolescenti giocano, che insegnano l’odio per il diverso, il “fascino” di conquistarsi soldi e potere attraverso la violenza e le armi. I ragazzi che giocano a questi videogames sono più esposti, nella vita reale, a commettere i crimini appresi dalla play station o dall’xbox. A tal proposito l’autore riporta anche la storia di un poliziotto impegnato nel combattere questa forma di indottrinamento violento tenendo conferenze nelle scuole e parlando faccia a faccia con gli alunni: se vogliamo una società limpida e moralmente solida è doveroso cominciare ad educare i giovanissimi.

Berizzi affronta anche la questione delle cosiddette ‘ronde’ cittadine, per la gran parte di impronta neofascista e apertamente razzista; ma l’autore ci mette in guardia anche su un settore insospettabile: il razzismo neofascista penetra anche nel volontariato e anima le azioni di “carità”, carità razziale s’intende, nel volontariato dei fascisti, i beni alimentari di prima necessità vengono distribuiti in base al Paese d’origine. Questa discriminazione non è benevolenza verso chi ha meno, è solamente un’altra maniera per fare proseliti, creare differenze e ostilità tra presunte “razze”. Purtroppo la maggioranza delle persone non lo capisce, si limita a vedere solo una faccia della medaglia, quella più pulita e presentabile.

La crescente deriva fascista però non si manifesta solo con l’aumentare del numero dei militanti estremisti, ma è un male che dilaga a macchia d’olio anche fra giovani che si potrebbero considerare moderati, addirittura estranei agli ambienti della destra estrema. Sta cominciando a crescere una generazione che non sa cos’è la Shoah, che non riesce nemmeno ad immaginare lontanamente il dolore che ha dovuto provare un ebreo o un rom o un disabile in un campo di concentramento. Ormai è considerata storia troppo vecchia, che non ha più niente a che fare col presente e quindi può essere beatamente ignorata come si ignorano la battaglia delle Termopili o la Seconda guerra punica. Il germe del neofascismo si insidia nella mia compagna di classe che pensa che se una persona si dichiara fascista non c’è nulla di male, perché in fin dei conti è un’idea come un’altra, o nel mio compagno di scuola che mi chiede il significato della parola Olocausto.

Il concetto di Europa, poi, è praticamente assente. Resta, infine, il grande problema della subdola ambiguità delle affermazioni e delle tesi neofasciste che purtroppo sempre meno persone colgono. Per citare Umberto Eco: «Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: “voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane!” Ahimè, la vita non è così facile. Il fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti». Gli ultimi esempi che ho riportato rappresentano, a mio avviso, proprio queste forme più innocenti, sono destinate ad aumentare se non sono combattute sul piano culturale e ideologico.

L’analisi psicologica dei fascisti del nuovo millennio delineata nel libro suscita molti spunti di riflessione, utili non solo per capire fino in fondo che tipo di persona è un fascista convinto, ma anche per comprendere di cosa abbiamo bisogno affinché la democrazia e i diritti dell’uomo non vengano messi in pericolo. Il libro svolge un lavoro nobile e necessario: informare per resistere; sensibilizzare per curare. Se tutti percepissimo chiaramente quanto è importante essere informati e attenti rispetto a ciò che accade intorno a noi, forse vivremmo in un Paese migliore.

Gabriele Segato, studente del liceo delle scienze sociali “Duca d’Aosta” di Padova