Guido Pasolini, nome di battaglia “Ermes”

Il 12 febbraio 1945 Guidalberto Pasolini, detto Guido, nome di battaglia “Ermes”, fratello minore di Pier Paolo, cadde ucciso “da mano fraterna nemica” nell’eccidio di Porzûs, un episodio tra i più orrendi della lotta partigiana: “evento limite” [1] nella complessa vicenda della Resistenza.

Pier Paolo Pasolini e la madre Susanna

Accertata ufficialmente la notizia della morte un giorno del maggio di quell’anno, Pier Paolo e Susanna, la madre, “rimasero abbracciati per ore e ore, a lungo, piangendo, in quel letto di sfollati, a Versuta. I figli dei contadini, come usa dalle nostre parti, portavano dei doni funebri, chi uova, chi farina. Fu la loro unica consolazione” [2], ricordò Nico Naldini, cugino dei fratelli Pasolini.

Nel 1961 Pasolini rispose così, su “Vie Nuove”, a un lettore che aveva saputo della morte del fratello da un manifesto fascista:

21 giugno 1945: funerale di Guido Pasolini. Il fratello Pier Paolo è in abito chiaro. PPP più tardi scriverà: “Nulla è semplice, nulla avviene senza complicazioni e sofferenze:”

“La cosa si racconta in due parole: mia madre, mio fratello ed io eravamo sfollati da Bologna in Friuli, a Casarsa. Mio fratello continuava i suoi studi a Pordenone: faceva il liceo scientifico, aveva diciannove anni. Egli è subito entrato nella Resistenza. Io, poco più grande di lui, l’avevo convinto all’antifascismo più acceso, con la passione dei catecumeni, perché anch’io, ragazzo, ero soltanto da due anni venuto alla conoscenza che il mondo in cui ero cresciuto senza nessuna prospettiva era un mondo ridicolo e assurdo. Degli amici comunisti di Pordenone (io allora non avevo ancora letto Marx, ed ero liberale, con tendenza al Partito d’Azione) hanno portato con sé Guido ad una lotta attiva. Dopo pochi mesi, egli è partito per la montagna, dove si combatteva. Un editto di Graziani, che lo chiamava alle armi, era stata la causa occasionale della sua partenza, la scusa davanti a mia madre. L’ho accompagnato al treno, con la sua valigetta, dov’era nascosta la rivoltella dentro un libro di poesia. Ci siamo abbracciati: era l’ultima volta che lo vedevo. Sulle montagne, tra il Friuli e la Jugoslavia, Guido combatté a lungo, valorosamente, per alcuni mesi: egli si era arruolato nella divisione Osoppo, che operava nella zona della Venezia Giulia insieme alla divisione Garibaldi. Furono giorni terribili: mia madre sentiva che Guido non sarebbe tornato più. Cento volte egli avrebbe potuto cadere combattendo contro i fascisti e i tedeschi: perché era un ragazzo di una generosità che non ammetteva nessuna debolezza, nessun compromesso. Invece era destinato a morire in un modo più tragico ancora. Lei sa che la Venezia Giulia è al confine tra l’Italia e la Jugoslavia: così, in quel periodo, la Jugoslavia tendeva ad annettersi l’intero territorio e non soltanto quello che, in realtà, le spettava. È sorta una lotta di nazionalismi, insomma. Mio fratello, pur iscritto al Partito d’Azione, pur intimamente socialista (è certo che oggi sarebbe stato al mio fianco), non poteva accettare che un territorio italiano, com’è il Friuli, potesse esser mira del nazionalismo jugoslavo. Si oppose, e lottò. Negli ultimi mesi, nei monti della Venezia Giulia la situazione era disperata, perché ognuno era tra due fuochi. Come lei sa, la Resistenza jugoslava, ancor più che quella italiana, era comunista: sicché Guido, venne a trovarsi come nemici gli uomini di Tito, tra i quali c’erano anche degli italiani, naturalmente le cui idee politiche egli in quel momento sostanzialmente condivideva, ma di cui non poteva condividere la politica immediata, nazionalistica. Egli morì in un modo che non mi regge il cuore di raccontare. Avrebbe potuto anche salvarsi, quel giorno: è morto per correre in aiuto del suo comandante e dei suoi compagni. Credo che non ci sia nessun comunista che possa disapprovare l’operato del partigiano Guido Pasolini. Io sono orgoglioso di lui, ed è il ricordo di lui, della sua generosità, della sua passione, che mi obbliga a seguire la strada che seguo. Che la sua morte sia avvenuta così, in una situazione complessa e apparentemente difficile da giudicare, non mi dà nessuna esitazione. Mi conferma soltanto nella convinzione che nulla è semplice, nulla avviene senza complicazioni e sofferenze: e che quello che conta soprattutto è la lucidità critica che distrugge le parole e le convenzioni, e va a fondo nelle cose, dentro la loro segreta e inalienabile verità” [3].

“Nulla è semplice”, ma senza “nessuna esitazione” bisogna scegliere da che parte stare.

In quell’anno Pasolini pubblicò la raccolta “La religione del mio tempo”, che conteneva le poesie “La Resistenza e la sua luce” e “Lacrime”. Nell’immagine ripetuta della “pura luce” il poeta esprimeva l’ansia di giustizia e di libertà di quell’esaltante primavera della storia. Questi i versi iniziali:

“Così giunsi ai giorni della Resistenza
senza saperne nulla se non lo stile:
fu stile tutta luce, memorabile coscienza
di sole. Non poté mai sfiorire,
neanche per un istante, neanche quando
l’Europa tremò nella più morta vigilia” [4].

In “Lacrime”, il testo immediatamente successivo, tutta quella luce si rivelava “soltanto un sogno/ingiustificato, inoggettivo, fonte/ora di solitarie, vergognose lacrime” [5].

La “cultura azionista” del giovane Pasolini fu presto abbandonata, ma sembra permanere nella concezione della “mancata rottura storica” e della “continuità” nel passaggio dal fascismo all’Italia repubblicana. La rottura, secondo questa concezione, ci fu nel sistema politico, ma nell’apparato dello Stato, nella mentalità, nel costume ci fu invece rigorosa continuità. Da qui le “vergognose lacrime”.

Pasolini rimase sempre fedele a questa concezione. La svolta, la nuova “rottura storica” ci fu nel Sessantotto. Nel settembre di quell’anno scriveva:

“La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline” [6].

Il rapporto di Pasolini con il Sessantotto non fu semplice. Gli si possono muovere molte e fondate critiche di incomprensione del movimento. In lui ci fu forse anche una sorta di smarrimento, derivato dal fatto che il Sessantotto metteva in discussione la qualità “critica” del suo lavoro, che gli studenti consideravano datato.

Pasolini con Pontecorvo e Zavattini nel 1968

Emerge tuttavia con forza una domanda: perché tanti ragazzi del Sessantotto amarono Pasolini, nonostante alcune sue prese di posizione lo collocassero su fronti diversi se non opposti?

Probabilmente perché Pasolini non fu poi così tanto lontano dal Sessantotto.

Il poeta aveva fino ad allora aspramente combattuto quello che definiva “regime poliziesco parlamentare” e il suo cemento ideologico, il cattolicesimo reazionario, in singolare sintonia con quella cultura azionista con cui nel dopoguerra non ebbe più rapporti, e che però era stata in prima fila contro lo stesso avversario, il “clericofascismo”. Pasolini non poteva, quindi, non dare un giudizio positivo su un movimento libertario e anticonformista come il Sessantotto.

È vero che nella poesia “Il PCI ai giovani!”, nel marzo 1968, il poeta aveva definito gli studenti “figli di papà” dalle tante “prerogative piccolo borghesi” [7], ma più che dalla parte dei poliziotti di Valle Giulia egli stava dalla parte degli operai e del PCI, con cui gli studenti avrebbero dovuto allearsi: “quella poesia è una sollecitazione per gli studenti a lasciarsi alle spalle la loro appartenenza borghese e andare verso il PCI e verso gli operai” [8].

1968, 24 febbraio le prime manifestazioni studentesche

Il che fu poi quello che i ragazzi del Sessantotto cercarono di fare, anche se al prezzo di trasformare profondamente la cultura giovanile del “Sessantotto degli inizi” [9]: la depurarono cioè dalla sua specificità generazionale e subordinarono il suo linguaggio a quello dell’antagonismo di classe e dell’ideologia operaista. “Operai e studenti uniti nella lotta”, si ritmava. Ma il PCI non lo capì, e restò nel suo recinto, la fabbrica. Gli stessi studenti divennero prigionieri della “Dottrina” (per dirla con Vittorio Foa), e scelsero anch’essi, sia pure in modo diverso, lo stesso recinto. Il vecchio classismo comunista e il nuovo operaismo dei gruppi della “sinistra extraparlamentare” non capirono, entrambi, che non basta il punto di vista di classe, perché occorre creare un nuovo “senso comune”, una nuova moralità, un nuovo senso della vita con al centro la fratellanza. Quello che aveva chiesto il “Sessantotto degli inizi”.

Più che tra Pasolini e il Sessantotto, che scardinò il comune nemico “clericofascista”, la rottura fu tra Pasolini e la gestione dell’eredità del Sessantotto da parte sia del PCI sia dei gruppi della “sinistra extraparlamentare”, entrambi, sia pure in modo diverso, incapaci di comprendere che l’identità collettiva degli italiani era sempre più opera del mercato. Il punto più avanzato della riflessione di Pasolini sta nell’affermazione del rapporto tra l’edoni­smo della nuova cultura e l’affermarsi di un nuovo potere. Mentre né i gruppi né il PCI comprendevano che, nella società dei consumi, la centralità operaia era finita e che la battaglia per l’egemonia si giocava, ormai, sul “cosa” e sul “come” consumare. Era una battaglia che metteva in campo soggetti diversi e autonomi – gli studenti e gli intellettuali – che non potevano essere riconducibili a “classe operaia in formazione” o a “piccola borghesia in via di proletarizzazione”. “Operai e studenti uniti nella lotta”: sì, ma come soggetti distinti e alleati. Il che non accadde.

“12 dicembre”, documentario sulle morte bianche

Tra il dicembre 1970 e l’estate 1971 Pasolini girò un film per Lotta Continua. Alcune sequenze furono girate a Carrara: vi sono delle bellissime riprese delle cave di Colonnata e i racconti degli incidenti sul lavoro e delle fatiche dei cavatori.

Amilcare Mario Grassi era presente. Così ricorda: “Pasolini scartava nelle interviste i cavatori omologati nel linguaggio, sia quello del consumismo, sia quello del PCI, sia quello dei gruppi ‘rivoluzionari’. Aveva ragione: la classe operaia non era più ‘centrale’. Lo capì in anticipo” [10].

Di fronte al trionfo della “religione delle merci” e allo scandalo per “l’assenza di senso del sacro nei miei contemporanei” [11], Pasolini reagì fino a pensare “che il sacro possa mutare funzione e divenire un luogo di resistenza ai nuovi codici normativi del consumismo e per questa via essere avvicinato alla trasgressione ‘autentica’ opposta a quella di massa e garantita dall’alto dell’oggi” [12].

Ma questo, a ben vedere, ricollocava Pasolini nel “Sessantotto degli inizi”, rivolta morale anticonsumista alla ricerca di un nuovo senso della vita: cioè del “sacro” inteso come trasgressione verso la modernizzazione-secolarizzazione, del “sacro” come via per una modernizzazione senza secolarizzazione.

Una secolarizzazione che poteva essere combattuta attraverso la riforma intellettuale e morale, la riforma dei saperi e della cultura, il nuovo senso della vita che il movimento giovanile rivendicava. Più con il sentimento e l’intuizione che in una forma definita: “La rivoluzione non è più che un sentimento”, recitava del resto un verso di “Progetto di opere future”, poesia di Pasolini del 1963 raccolta in “Poesia in forma di rosa”. Ancora: “Non bisogna avere più paura – come giustamente un tempo – di non screditare abbastanza il sacro o di avere un cuore [13]”.

Il “Sessantotto degli inizi” era anche amore radicale e ricerca di un nuovo modo di vivere. Tutti furono abbarbicati alle vecchie tradizioni culturali. Certamente anche Pasolini, che espresse anche posizioni di “nostalgia reazionaria”. Anche in lui c’era, a volte, l’opzione tutta novecentesca per la violenza: “Se non nei fatti, almeno nelle intenzioni, è l’ora della violenza”, recitava un verso di “Panagulis” [14]. Guido Crainz notò che l’“intenzione della violenza” espressa in questa poesia era in sintonia con la cultura del tempo, nel senso che esprimeva il ruolo simbolico che la violenza vi svolgeva; ma che il verso successivo sulla “violenza, aggiungo, senza speranza” se ne distaccava, perché “nelle riflessioni di quegli anni l’’intenzione della violenza’ entra semmai come architrave – possibile o necessario – della speranza [15]”.

E tuttavia di Pasolini ci colpiscono molto di più gli aspetti profetici, quelli che ci parlano ancora. Le sue proposte erano sempre impolitiche o metapolitiche. Ma sempre contro il pote­re. L’appello a fare cose impossibili lo accomunava al “Sessantotto degli inizi”. Vide prima di tutti, nelle viscere degli anni Settanta, i processi culturali che trionfarono negli anni Ottanta: il passaggio dalla solidarietà all’individualismo privatistico, il neoliberismo come nuova modalità di “fare gli italiani”, di modellarne comportamenti e mentalità. Con il trionfo del consumismo si esaurivano antiche appartenenze e lealtà, si disgregavano le identità collettive e si distruggeva “la cultura del popolo” [16].

Si può forse rispondere alla domanda precedente come ha fatto chi scrive: “I ragazzi del Sessantotto, e io con loro, rimproveravano a Pasolini l’incomprensione di fronte ad eventi che stavano mutando profondamente il Paese nel segno dell’emancipazione. Però, nello stesso tempo, ero affascinato dalla sua capacita di vedere il lato edonista e distruttore non solo della ‘modernità’, ma anche di quel processo di emancipazione” [17].

Resta un’ultima domanda: da dove derivò quella capacità? Certamente dal talento. Ma in Italia vi furono scrittori, poeti, registi più grandi ancora. Forse questa capacità derivò soprattutto da una “disperazione che affondava le sue radici nella sua vicenda generazionale e personale (ma chi può mai sottrarsi al sospetto di parlare in ultima istanza per fatto personale?)”[18]. È nella dimensione esistenziale, nella sofferenza della vita, nella frequentazione della marginalità che Pasolini trovò la forza per guardare in profondità, più di altri intellettuali, la società del suo tempo. 

Giorgio Pagano, copresidente del Comitato Unitario della Resistenza della Spezia in rappresentanza dell’Anpi, storico, sindaco della città di La Spezia dal 1997 al 2007

 

[1] Marcello Flores, Mimmo Franzinelli, “Storia della Resistenza”, Laterza, Bari, 2019, p. 432.
[2] “Ritratto dei due Pasolini da giovani”, colloquio-intervista di Enzo Golino con Nico Naldini, “L’Espresso”, 1997, 4 settembre.
[3] “Vie Nuove”, 1961, 15 luglio.
[4] Pier Paolo Pasolini, “Tutte le poesie”, a cura di Walter Siti, vol. I, Mondadori, Milano, 2003, pp.944-947.
[5] Ibidem.
[6] Pier Paolo Pasolini, “Lettera al Presidente del Consiglio”, “Il Tempo”, 21 settembre 1968, in Id., “Il caos”, Editori Riuniti, Roma, 1981, p. 41.
[7] Pierpaolo Pasolini, “ll PCI ai giovani!”, “l’Espresso”, 1968, 10 marzo.
[8] Giovanni De Luna, “Ma Pasolini non stava con i poliziotti”, www.lastampa.it, 1° marzo 2018.
[9] Per “Sessantotto degli inizi” intendo la stagione di un movimento, sulla scia di Edgar Morin nel libro “Maggio 68. La breccia”, “sovra e infra-politico” e “totalmente libertario, ma sempre con l’idea di fraternità onnipresente. Un movimento con “aspirazioni profonde, quasi antropologiche”. Si veda: Giorgio Pagano, Maria Cristina Mirabello, “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”, Vol. II, Edizioni Cinque Terre, La Spezia, 2021, p. 285.
[10] Giorgio Pagano, Maria Cristina Mirabello, “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”, Vol. I, Edizioni Cinque Terre, La Spezia, 2019, p. 371.
[11] Pierpaolo Pasolini, “Il sogno del centauro”, Editori Riuniti, Roma, 1983, p. 81.
[12] Franco Cassano, “Il pensiero meridiano”, Laterza, Bari, 1996, p. 125.
[13] Pier Paolo Pasolini, “Scritti corsari”, Garzanti, Milano, 1975, p. 155.
[14] La poesia fu pubblicata su “Il Tempo” del 30 novembre 1968 e poi nella raccolta “Trasumanar e organizzar” (Garzanti, Milano, 1971, p. 25).
[15] Guido Crainz, “Il Paese mancato”, Donzelli, Roma, 2003, p. 269.
[16] Pier Paolo Pasolini, “Lettere 1955-1975”, Einaudi, Torino, 1988.
[17] Giorgio Pagano, Maria Cristina Mirabello, “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”, Vol. II, cit., p. 516.
[18] Franco Cassano, “Il pensiero meridiano”, cit., p. 125.