È bello pensare che oltre a noi che usiamo parole di Memoria, c’è e ci sarà una chitarra, o un pianoforte, o un violino o un tamburo o un’orchestra e una voce, anche una sola, che continueranno a suonare e a far risuonare quello che è stato, che faranno vibrare corde di conoscenza, di storie che si sarebbe voluto fossero dimenticate. Licia, Claudia, Silvia Pinelli

Il concept album 17 fili rossi + 1, ricordando Piazza Fontana, prodotto dalla casa discografica Latlantide, assolve all’impegno di raccontare una storia alla quale per lungo tempo giustizia e verità sono state negate. Unica nel panorama musicale italiano, questa suite collettiva per la memoria, ha per tema il racconto di uno tra i più sconcertanti e tragici accadimenti della storia del nostro Paese, a cinquantaquattro anni di distanza (è uscita in occasione del 12 dicembre 2023).

Milano, 12 dicembre 1969. Piazza Fontana. I rilievi dopo la bomba nella Banca nazionale dell’Agricoltura (archivio fotografico Anpi nazionale)

Sedici tracce di musica, canzoni e monologhi che rievocano la strage terrorista di mano fascista avvenuta alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969. Tracce che ricordano le diciotto vittime: i diciassette che persero la vita nell’esplosione più Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della questura tre giorni dopo e riconosciuto come diciottesima vittima dal presidente Giorgio Napolitano nel 2009.

Giuseppe Pinelli con la futura moglie Licia in uno scatto del 1953. Quando morirà, defenestrato dalla questura di Milano, il 15 dicembre 1969 aveva 41 anni

Tracce a cui hanno collaborato artisti emergenti e interpreti già noti nel contesto della canzone d’autore e d’impegno civile, scrivendo brani o riproponendone dal loro repertorio, ma anche giornalisti, registi, intellettuali da sempre in primo piano nel supportare cause sociali, che hanno prestato i loro scritti e la voce al racconto di quel tragico evento.

Roma, 3 maggio 1969, manifestazione dell’Msi. Le cronache riferirono di incidenti (archivio fotografico Anpi nazionale)

Si era allo scorcio degli anni Sessanta in cui una vasta mobilitazione sociale presentava un acceso intensificarsi degli scontri in chiave politica, soprattutto tra estrema destra e sinistra: venivano allo scoperto spinte e conflitti di diversa natura. Un sistema caratterizzato dalla consueta crisi del centro-sinistra e dalla conseguente formazione, su incarico del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, di un monocolore democristiano guidato da Mariano Rumor, chiuso a ipotesi di coalizioni o aperture a sinistra.

Nel Paese reale, intanto, nuovi protagonisti facevano il loro ingresso sulla scena politica: studenti, operai meridionali, donne, lavoratori non specializzati che chiedevano diritti e maggiori libertà, forme di democrazia diretta. Anche aumenti salariali, condizioni di vita più dignitose fuori e dentro la fabbrica, dove si pativa super sfruttamento, lavoro ripetitivo, alla catena, con ritmi sempre più incalzanti. Queste erano le richieste che accendevano la miccia di una accesa stagione di scioperi, cortei, manifestazioni di piazza, che mobilitavano grandi masse di lavoratori, i quali, per la prima volta, si riconoscevano come collettività, con un’identità propria da far valere.

Anche i Covitti Scuola Rinascita dell’Anpi saranno obiettivo di attentati fascisti (archivio fotografico Anpi nazionale)

In questo clima rovente, da una parte si cominciava a temere una reazione autoritaria, così come in Grecia si era affermata la dittatura dei colonnelli, mentre dall’altra si intensificava l’azione della destra estrema, con azioni che avrebbero dovuto comportare il diffondersi tra la popolazione di un sentimento di insicurezza, tale da giustificare o auspicare svolte politiche di stampo autoritario. Così si susseguirono attentati alla Fiera di Milano, alle sedi dell’Anpi, alle sedi del Pci [Aldo Giannuli, Bombe a inchiostro, p. 27]. Azioni che venivano attribuite, però, alla protesta irrazionale della sinistra violenta, la sinistra anarchica che, secondo i prefetti, manovrava per mettere in scacco il Paese [Guido Crainz, Il paese mancato, p. 364].

Di questi anni, del resto, era la costituzione di numerosi gruppi appartenenti all’area dell’estrema sinistra, formatisi a partire dal recupero del marxismo rivoluzionario e, in parte, dell’anarchismo che rappresentarono un fenomeno dirompente nel contesto politico italiano.

Secondo l’interpretazione ufficiale, dunque, erano anarchiche le bombe scoppiate su sette treni italiani nell’agosto 1969. Come la bomba più dirompente, quella che il 12 dicembre di quell’anno, alla Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano, provocava la morte di diciassette persone e il ferimento di altre ottantotto. Una strage senza eguali nella storia del Paese, un atto di guerra che dava inizio alla “strategia della tensione”: «un inasprimento forzato dello scontro sociale volto a spostare a destra l’opinione pubblica […] e a costruire le basi per governi d’ordine, se non presidenzialismi autoritari o aperte rotture degli assetti costituzionali» [Guido Crainz, p. 368]. Mostrava quanto la politica si fondasse su più livelli, alcuni occulti e criminali, dei quali era necessario operare lo «svelamento dei rapporti di potere» [Aldo Giannuli, p. 9].

Pietro Valpreda agli arresti (archivio fotografico Anpi nazionale)

Le indagini chiariranno la paternità fascista della strage di Piazza Fontana, attuata con il concorso di apparati dello Stato – governo, magistratura, forze dell’ordine, servizi segreti –, logge massoniche e connivenze internazionali. Da subito, però, tra gli inquirenti, e sostenuta dai media, prendeva corpo la versione di una responsabilità di stampo anarcoide, soprattutto dopo l’arresto di Pietro Valpreda, l’anarchico accusato di essere implicato nell’attentato di Piazza Fontana e l’incriminazione di Giuseppe Pinelli.

Silvia Pinelli, una delle figlie di Pino, al centro accanto alla presidente nazionale Anpi Carla Nespolo (scomparsa nel 2020)

A Giuseppe Pinelli, anarchico e partigiano, animatore del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, diciottesima vittima della strage, all’interno dell’album sono dedicate diverse canzoni. Ma già all’epoca dei fatti, una fu immediatamente composta, a ricordo della sua morte ma soprattutto a ristabilire una verità.

Milano, 1898, il generale Bava Beccaris ordina di sparare sulla folla

Indelebile nella memoria popolare è rimasta, infatti, La ballata di Pinelli, resa famosa da Pino Masi, l’interprete ufficiale di Lotta Continua. Il teso si rifaceva a quello di Giancorrado Barozzi, Dado Mora, Flavio Lazzarini e Ugo Zavanella che, nella sede del circolo anarchico “Gaetano Bresci” di Mantova la sera del 21 dicembre 1969 dopo i funerali di Giuseppe Pinelli, lo improvvisarono sulla musica de Il feroce monarchico Bava, canto popolare ispirato dai moti di Milano del 1898, repressi nel sangue dal generale Bava Beccaris. La ballata raccontava della morte di Giuseppe Pinelli, indagato perché unico ferroviere anarchico del comparto ferroviario di Milano. Questi, il 15 dicembre 1969, precipitò a terra da una finestra del quarto piano della Questura di Milano dove era stato invitato a presentarsi per accertamenti. Qualcuno disse che si era gettato, altri sostennero che fosse stato spinto da chi stava svolgendo le indagini.

Pinelli con le figlie Claudia e Silvia

Circolò da subito una versione che divenne quella ufficiale a seguito delle dichiarazioni del questore di Milano Marcello Guida e del commissario Luigi Calabresi: a causa del forte stress, del senso di colpa per il crimine commesso Pinelli si era gettato dalla finestra. All’opinione pubblica venne data in pasto l’immagine del suicida, del colpevole certo e complice degli attentatori. Si affermò da subito, così, una convinzione generale che Valpreda e Pinelli fossero i responsabili della strage. I maggiori quotidiani nazionali e la Rai, del resto, sposarono senza alcun dubbio la versione fornita dal governo: i telegiornali annunciavano che l’anarchico Pietro Valpreda era il colpevole della strage e il suicidio di Pinelli ne era la conferma, mentre i giornalisti che proponevano interpretazioni diverse dell’accaduto si videro tagliare o rifiutare gli articoli. [David Forgacs, L’industrializzazione della cultura italiana, p. 213].

Un’altra celebre foto di Pino Pinelli, a destra nello scatto

La canzone di Pino Masi ribaltava la falsa interpretazione, facendo emergere verità che sarebbero state confermate da successive indagini. Sarebbero venuti alla luce i numerosi depistaggi a carico di magistrati e funzionari di polizia che pilotarono i sospetti verso la pista anarchica. La ballata di Pinelli, così, anticipava già la cultura della controinformazione. Un’informazione alternativa a quella del potere, una nuova forma di lotta politica che avrebbe trovato spazio sui periodici della sinistra extraparlamentare («Potere Operaio», «Quaderni Piacentini»), sui quotidiani («il Manifesto») sulle riviste underground («Re Nudo», «Mondo Beat», «Il pane e le rose»), nel cinema militante, nel teatro, nel fumetto. Un’informazione alternativa che avrebbe reso note a un pubblico ampio e popolare le inchieste sulle stragi, sugli attentati, sulle connivenze politiche e avrebbe dato forma a un pezzo fondamentale dell’identità italiana. La canzone di Masi riaffermava delle verità e dei valori: «anarchia – diceva – non vuol dire bombe / ma giustizia nella libertà».

Funerali dell’anarchico Pinelli, opera di Enrico Baj

La ballata di Pinelli fa comprendere quanto le canzoni possano diventare agenti di informazione, di memoria e riscatto e quanto fondamentale sia la loro funzione. Ora è un intero album a farsi carico di questo compito, un album in cui canzoni e narrazioni non solo ricordano i fatti, inchiodandoli alla luce della verità perché non possano cadere in rimaneggiamenti e revisionismi, ma propongono riletture, riflessioni, riaccendono l’attenzione su questioni mai chiarite fino in fondo e soprattutto ignote alle giovani generazioni. Un album che si pone, dunque, come un documento da diffondere e divulgare ai giovani di oggi, affinché conoscano questa parte della storia del Paese, spesso occultata e dimenticata.

Una scena del docufilm docufilm “Io ricordo, Piazza Fontana”

Il progetto nasce da una lirica di Fulvio Mario Beretta che, con alcuni interventi sul testo e la composizione della musica da parte di Renato Franchi (storico interprete d’impegno civile) e la collaborazione di Maria Macchia – curatori e ideatori del progetto – ha dato origine alla canzone che dà il titolo al disco. Ispirata anche a un altro fatto, narrato nel docufilm Io ricordo, Piazza Fontana, coproduzione Rai Fiction – Aurora TV realizzato nel 2019 con la regia di Francesco Miccichè. In esso Francesca Dendena, fondatrice dell’Associazione Piazza Fontana 12 dicembre ’69, interpretata da Giovanna Mezzogiorno, collega con dei fili rossi le foto delle diciassette persone decedute a causa della bomba, di Pino Pinelli e dei presunti responsabili dell’attentato.

Il brano omonimo, 17 fili rossi, di Renato Franchi & His Band (ex Orchestrina del Suonatore Jones), è dunque il punto di avvio della narrazione, l’inizio di un viaggio sonoro che vede protagonista la Milano del dicembre 1969, con la sua nebbia, gli addobbi natalizi, la quotidianità, sconvolta poi da qualcosa di impensabile: Poi nella banca qualcuno ha portato/ il fuoco assassino di un sole malato/la bomba, lo scoppio, l’inferno, l’orrore.

E come nella tradizione del canto partigiano l’autore recita un elenco, quello delle vittime della strage, come i morti di una battaglia contro l’oppressore fascista. Nome e cognome a restituire un’identità, quella devastata dalla deflagrazione.

Filippo Andreani è un cantautore comasco che nel 2008 ha affrontato un progetto solista ispirato alla Resistenza e alla storia dei partigiani Capitano Neri, fondatore della 52ª Brigata partigiana, e Giuseppina Tussi, la staffetta Gianna. Qui è autore di Quasi soltanto mia, pregevole ballata, voce e chitarra acustica, in cui ancora fa capolino la Milano di prima del disastro, quella del dopolavoro e di Gianni Rivera, dei panni stesi ad asciugare sui balconi di ringhiera. Racconto intimo e personale in cui dai ricordi e dalla nostalgia irrompe la rabbia per una donna rimasta sotto le macerie. Una rabbia trattenuta, più che rassegnata, di chi cerca di elaborare il lutto.

Al buio la sera c’è solo il rancore/ a riempirmi la mano quando accarezzo/il lenzuolo stirato al tuo lato del letto.

(dalla pagina Fb)

Piazza Fontana, nota anche come Luna rossa, canzone storica, è interpretata dal gruppo milanese nato nel 1967, Come le foglie. Composta, parole e musica, da Claudio Bernieri nel 1971, fu incisa dagli Yu Kung nell’album Pietre della mia gente (1976). Gruppo canoro e strumentale, Yu Kung, formatosi nel 1971, si esibiva nelle fabbriche, nelle cooperative, nei festival dell’Unità, nei circoli Arci, e si proponeva la diffusione della conoscenza della musica popolare. Tra i partecipanti, Claudio Bernieri, giornalista, inviato di guerra per l’Europeo e collaboratore per varie testate, ma anche musicista, autore di saggi tra cui il noto Non sparate sul cantautore. Canzoni come pietre, musica sotto tiro (1978), ricercatore di canto popolare. Attivo anche nel Nuovo Canzoniere Italiano è autore di una delle canzoni che hanno fissato indelebilmente la tragedia di quel 12 dicembre 1969.

La versione di Come le foglie aggiunge al pezzo originario un ritmo marziale che accresce il carattere di protesta insito nel canto, ulteriormente accentuato dall’arrangiamento musicale, con il tin whistle e il violino di Keith Easdale, che si rifà al celebre inno di lotta irlandese The foggy dew dedicato alla sollevazione di Pasqua, uno degli eventi che portarono all’indipendenza dell’Irlanda. Piazza Fontana si fa così anch’esso canto di lotta, antiborghese e antifascista.

Il brano è riproposto anche in versione strumentale dalla Banda degli Ottoni a Scoppio, ensemble con una storia trentennale di musica e concerti pensati per dar voce agli ultimi, agli indifesi, per essere al fianco dei lavoratori, nelle manifestazioni antifasciste, in quelle per i diritti civili e per la pace, in molti momenti della vita politica pubblica a Milano e nel mondo. Nella convinzione che la musica possa cambiare la vita delle persone e la società.

Emily Collettivo Musicale, band parmigiana folk rock che racconta in musica un immaginario legato alla poetica sociale e di lotta, nell’album interpreta Fontana del dolor. Brano scritto da Angelo Cavallini, cantastorie popolare attivo nelle piazze e nelle sagre di paese fino agli anni ’90, recuperato attraverso una ricerca storica fatta sul campo da Claudio Bernieri e inserita nel suo documentario Piazza Fontana del dolor.

La strage di Piazza Fontana ebbe infatti un impatto dirompente anche nella cultura popolare rappresentata dagli artisti di strada come Cavallini. Straordinaria figura di cantastorie ambulante e fisarmonicista, con la moglie Vincenzina che lo accompagnava al canto e alla batteria, formò un duo che si esibiva in piazze, fiere e mercati del nord Italia, intrattenendo e onorando l’antico mestiere del cantastorie, tanto da ricevere, il 7 dicembre 2002, l’Ambrogino d’oro dal Comune di Milano.

La musica e il ritmo da ballo fanno da sfondo alla Milano presa dal clima di festa che si risveglia nell’incubo nero di una carneficina. Uomini, donne, bambini, uccisi e feriti gravemente, lacerati e mutilati nei loro corpi. Un verso però ricorda l’importanza del canto come strumento di protesta: Canto perché si faccia piena luce.

Una delle commemorazioni della strage (imagoeconomica, Clemente Marmorino)

Paolo Archetti Maestri, leader di Yo Yo Mundi, celebre gruppo astigiano impegnato da sempre sui temi della memoria della Resistenza e dell’ambientalismo, è autore del brano La fontana. Qui il monumento si fa soggetto muto e testimone silenzioso della tragedia che avvenne.

Andreacarlo, musicista e sound designer attivo dai primi anni 2000, autore di musiche per mostre e istallazioni è autore della ballata Oggi no. Cita Vengo anch’io di Jannacci, con il famoso refrain. Qui, però, la meta non è lo zoo comunale, ma Piazza Fontana, luogo in cui è bene recarsi solo se consapevoli di ciò che avvenne. Andreacarlo compone un testo sull’oggi, sulla memoria da difendere e mantenere viva.

Si potrebbe andare /tutti quanti in Piazza Fontana / Io non vengo…oggi no…/Chiudo gli occhi e vado all’indietro di cinque minuti/Le persone che si salutano con tre baci/Oggi no, andate voi che io resto qua/A sentire sulla pelle l’effetto che fa.

Oggi no di Andreacarlo in una versione più pop:

Nella ballata da cantastorie Un ferroviere, Daniele Ridolfi, voce, ukulele e armonica fa parlare Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, ma soprattutto marito e padre che perse la vita ingiustamente. Entra nella sua vita, con i ricordi delle bombe del recente passato di guerra, reminiscenze della quotidianità: i giochi con le figlie, Claudia e Silvia, la moglie Licia che lo attende, il lavoro, ciò che caratterizza l’identità di una persona. Una realtà a cui non ha più fatto ritorno. La normale conseguenza dell’inseguire/ un sogno d’amore/è scontrarsi sul pavimento/ di chi ha solo il gelo nel cuore. Il sogno d’amore è quello di un mondo migliore, egualitario, libero, come quello predicato dal pensiero anarchico.

La band folk rock di Arezzo Casa del Vento propone Popolo unito, rivisitazione del celebre El pueblo unido Jamás Será Vencido gruppo musicale Quilapayún, portata al successo dagli Inti-Illimani, canto di lotta legato al movimento Unidad Popular e alla presidenza del Cile da parte di Salvador Allende, il cui ritornello echeggia tra le parole scritte da Luca Lanzi. Canzone sulla memoria, contro i revisionismi che puntano a riscrivere una storia diversa e falsificata. Canzone sulla forza della voce collettiva che deve continuare a chiedere giustizia per i diritti dei più fragili, perché si spenga l’odio che porta alle guerre, per tutte le stragi ancora impunite.

Versione dall’album Al di là degli alberi (Mescal, 2004)

Non poteva mancare tra le sedici tracce La ballata di Pinelli, eseguita di Alessio Lega, cantautore e interprete di canzoni d’autore e della riproposizione dei repertori storici di canto sociale, politico, in particolare anarchico, con l’accompagnamento del fisarmonicista Guido Baldoni e il basso di Rocco Marchi. La ballata è interpretata in una versione che unisce l’originale ispirata dai moti milanesi, Il feroce monarchico Bava, con la più recente, scritta poco dopo la morte di Pinelli. Due eventi che vedono accomunate le stesse grida strazianti e dolenti dei feriti e sopravvissuti, gli stessi caduti innocenti, le stesse lacrime di madri e famigliari, la medesima Milano oltraggiata.

La band marchigiana Gang canta Via Italia, su testo di Sandro e Marino Severini, riflessione amara su un Paese senza memoria, in cui i crimini restano impuniti, ricoperti dalla polvere. Da un balcone cadde Giuseppe Pinelli ma nessuno vide, sentì e disse nulla. Un Paese in cui le verità restano taciute.

Versione tratta dall’album Storie d’Italia, CGD, 1993

Non solo canzoni, si diceva, ma anche narrazioni che gli autori hanno messo a disposizione per il progetto. Contributi che segnano un notevole valore aggiunto al lavoro poiché ricostruiscono, svelano punti di vista inediti, rappresentano voci critiche che permettono all’ascoltatore di entrare nel contesto di quegli anni. Mettono in scena gli antecedenti, le cause e le ragioni di quell’evento che ha cambiato la storia del Paese. Con parole incalzanti e pungenti, producono contraccolpi, impossibile restarne indifferenti.

Disegnano un percorso che si snoda a partire da Il Paese della vergogna del giornalista e scrittore milanese Daniele Biacchessi, sulla musica di Renato Franchi. Le parole corrono veloci a svelare la Milano illuminata a giorno, le compere e gli acquisti, gli addobbi natalizi. Una Milano dove piove e la temperatura è bassa, così tanta gente invade il centro: ci sono gli zampognari, i venditori di caldarroste, la gente che transita al Teatro alla Scala, quella sera va in scena Il barbiere di Siviglia. Tutti gli italiani si sentono felici, innocenti. Un boato rompe quel clima festoso: sette chilogrammi di esplosivo deflagrano alle 16.37. Il Paese è attonito, dalle televisioni rimbalzano frammenti di guerra. Cosa contengono i minuti dopo una strage? si chiede Biacchessi. In quel tempo bloccato, la vita si è ibernata, le persone si sono impietrite. “Ci sono silenzi fatti di rumori che si trasformano in urla. Si sentiranno poi in tanti altri luoghi del Paese”.

Renato Sarti, attore, drammaturgo, regista triestino fondatore del Teatro della Cooperativa alla periferia milanese di Niguarda in Il rumore del silenzio, sulla musica composta da Renato Franchi, si sofferma sui funerali che si celebrarono in Piazza Duomo. Un numero impressionante di persone riempiva la piazza, arrivando da ogni luogo. C’era il timore che squadracce fasciste potessero devastare la città. L’ordine era di ispezionare ogni angolo, di non rispondere alle provocazioni, di non esporre bandire, di non applaudire. Assordante il rumore del silenzio di uomini e donne giunti lì a lanciare una dichiarazione di solidarietà alle vittime: la bomba non aveva colpito solo quelle persone, ma tutti gli italiani, ora più che mai determinati a difendere libertà e democrazia. Viene poi tratteggiata la figura del presidente del Consiglio Mariano Rumor, un uomo piccolo “che cammina senza fiato, come don Abbondio che incontra i bravi”. Chi ha davanti, però, non sono dei balordi criminali, ma gente per bene, onesta, che lavora duramente per migliorare la propria vita e quella del Paese. “Il significato più profondo di quelle onoranze, nel senso più profondo del termine – sottolinea Sarti – è politico”.

L’attore Paolo Raimondi dà voce al monologo scritto da Claudio Ravasi, A Milano vado poco, sulla musica di Roberto D’Amico e Renato Franchi. Racconto autobiografico che fa percepire l’impotenza e la lacerazione che si provano al ricordo di quel giorno. La rabbia per le menzogne di uno Stato assente, il senso di ingiustizia per chi non ha mai pagato.

Ventotene, il Memoriale del confino e dell’antifascismo

La narrazione procede con La prima strage di Stato dove l’autore, l’attore, regista e drammaturgo Silvano Piccardi, arriva all’origine della strage di Piazza Fontana. Parte da lontano, dalle parole di Ernesto Rossi, dirigente di Giustizia e Libertà, condannato al confino, a Ventotene, che il 7 luglio 1945 in una lettera al compagno Riccardo Bauer scriveva: L’Italia è più fascista oggi di quando siamo andati in carcere. In realtà – racconta Piccardi – sul piano sociale le forze antifasciste, grazie alle lotte operaie e contadine e alla determinazione dei settori più democratici, seppero battersi, al punto che negli anni Sessanta si aprì un grande movimento, il ’68 studentesco e intellettuale e il ’69 operaio. “Sembrava si preparasse una svolta contro le forze reazionarie eredi del fascismo strisciante”, che si potesse creare una saldatura tra le masse, e gli strati sociali più attivi, ma ci fu l’esplosione della bomba a Piazza Fontana. E poi molte altre, a Brescia, a Bologna. “Quell’Italia più fascista oggi di quando siamo andati in carcere non era scomparsa, si era radicata dentro le istituzioni del potere e lavorava alla propria rivincita”. Non si è saputo nulla di tutte le stragi compiute da allora in poi con il diretto coinvolgimento delle più importanti istituzioni repubblicane, dice Piccardi. “Non sarà certo con i governi Berlusconi, e gli altri che si sono succeduti fino a giungere all’attuale governo neofascista che si arriverà a chiarire alcunché. No. La strategia delle stragi di Stato (…) alla lunga, alimentata dal trionfante neoqualunquismo berlusconiano, e dalla sempre più diffusa mentalità mafiosa (…) ha saputo dare i suoi frutti, e continua darne di sempre più velenosi, al punto che i cittadini oggi hanno perso addirittura fiducia nel senso e nell’utilità dello stesso sistema elettorale democratico, per cui non sanno più per chi votare. E una democrazia in cui la gente non è più nemmeno in grado di esercitare il diritto di voto, che futuro può avere?”

(Imagoeconomica, Clemente Marmorino)

Conclude Moni Ovadia con Non è finita sul sottofondo musicale di Non è finita Piazza Loreto suonato dalla fisarmonica di Roberto Nassini. Canzone composta da Fausto Amodei nel 1974, Ovadia ne cita i primi versi: non è finita piazza Loreto/ si è vinta una battaglia/ma non la guerra/perché il taglio di una pianta/non è completo/finché le radici restano sotto terra. “Ce ne siamo accorti il 12 dicembre 1969”, dice Ovadia. “Quell’anno c’era stata una straordinaria stagione di lotta, quelle operaie si erano unite a quelle studentesche, soffiava un vento di trasformazione che avrebbe potuto fare della nostra democrazia una democrazia autentica e antifascista. Non è stato così. Gli americani avevano voluto che gli ex fascisti rientrassero nei gangli vitali della nazione: servizi segreti, polizia”, continua Ovadia. E aggiunge: “Ricordare l’attentato di Piazza Fontana è un atto politico fondamentale per affermare che il fascismo è presente nel nostro paese e nei luoghi più sensibile delle strutture portanti della comunità italiana, che vede sfregiata ora dopo ora la Costituzione che ci ha donato la grande Resistenza antifascista”.

Insieme alle canzoni e alle narrazioni altro pregio dell’album è l’aspetto grafico, con le illustrazioni dell’artista milanese Giovanni Tagliavini e l’iconica immagine dei funerali in Piazza Duomo nel celeberrimo scatto di Uliano Lucas.

Milano, 1984. Si commemora Piazza Fontana ma presto si tornerà in piazza per un’altra strage, quella del rapido “904” del 23 dicembre a Val di Sambro, la cosiddetta “Strage di Natale”.  Nella foto, il secondo da destra è Tino Casali, partigiano e in quell’anno assessore, futuro presidente nazionale Anpi (dal 2006 al 2009). Al centro, con il cappotto grigio, Carlo Ghezzi, allora segretario della Camera del Lavoro di Milano e attuale vicepresidente nazionale vicario Anpi

Importante sottolineare, inoltre, che 17 fili rossi + 1, ricordando Piazza Fontana si fa portavoce della memoria anche di altre stragi. Il progetto discografico, infatti, va a inserirsi in un contesto più ampio di iniziative legate alla denuncia e alla memoria di quella che è stata denominata “strategia della tensione”, di cui la bomba in Piazza Fontana fu solo il primo drammatico atto. Dopo il 12 dicembre 1969 e fino al 1980, infatti, ci fu un susseguirsi di stragi, la maggior parte della quali rimaste impunite, nelle quali persero la vita, complessivamente, 137 persone. Gioia Tauro, 22 luglio 1970 (6 morti), Peteano, 31 maggio 1972 (3 morti), Questura di Milano, 17 maggio 1973 (4 morti), Savona, vari attentati tra il 1974 e il 1975 (1 morto), Piazza della Loggia, Brescia, 28 maggio 1974, (8 morti), Treno “Italicus”, San Benedetto Val di Sambro, 4 agosto 1974 (12 morti) fino alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, con 85 morti.

Il progetto di “Non dimenticarmi” dell’artista Ferruccio Ascari

Per ricordarle, non lontano dalle lapidi delle 17 vittime del 12 dicembre 1969 e di Giuseppe Pinelli, verrà realizzata “Non Dimenticarmi”, un’installazione permanente composta da 137 steli metallici che sostengono altrettante campane a vento, ciascuna dedicata a una delle vittime di quelle stragi. Il memoriale, progettato dall’artista Ferruccio Ascari, si configura come una doverosa riparazione nei confronti della mancata giustizia e delle ferite ancora aperte inflitte al nostro Paese.

La realizzazione dell’album è patrocinata dall’Associazione Piazza Fontana 12 dicembre ’69, dal Comitato Promotore Non dimenticarmi, da ARCI Ponti di Memoria, da Licia, Claudia e Silvia Pinelli ed è stata sostenuta da diversi soggetti, tra i quali numerose sezioni provinciali e locali dell’ANPI.

Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi, Edizioni Interno 4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli