Tutti uniti siam d’accordo / per non farlo il militare
Perché noi il general Cadorna / ci fa tutti fucilare
È un esempio di instant song del momento, sottratta all’oblio grazie ad antiche ricerche di Jona e Liberovici: la ritroviamo in questo librazzo, come gli autori si divertono a chiamarlo; tecnicamente è anche il paradigma strutturale che meglio aiuta a capire l’importanza della trincea a sette note, cioè l’oscura fucina in cui prende forma molto di ciò che sarà cantato dai fascisti per vent’anni, dai partigiani dopo l’otto settembre e dagli italiani tutti ancora oggi: O surdato nnamurato e Quel mazzolin di fiori, due esempi su tutti; non è il caso invece della canzone del Piave, scritta nel 1919. Torniamo un attimo al titolo dell’opera; al rombo del cannon: un filo rosso che “pervade le menti, si insinua nella vita quotidiana in trincea (…) e che continuerà a lungo a risuonare nei canti anche in tempo di pace, come una cicatrice che fatica a rimarginarsi”. È ciò che si legge nel secondo capitolo, quello sulle formule vive. Il paragrafo, d’accordo con un’intuizione dello storico Antonio Gibelli a cui gli autori pagano pegno fin dalle prime pagine, risalta il trauma uditivo dei giovani contadini sbattuti in trincea attraverso il lirismo di questo chiasmo: il canto del fragore e il fragore del canto.

Bim bim bom, al rombo del cannon è “la formula verbale di più lunga durata e presenza nel canzoniere popolare”. Accanto ad essa, il capitolo passa in rassegna le plurime agenzie formative del canto popolare guerresco: folklore di base contadino, stornelli maltusiani, parodia, melodramma, café chantant, rivista, teatro varietà, ma anche canzonacce da suburra improvvisate durante varie smobilitazioni; più avanti (p. 416) troviamo anche un esempio della meno conosciuta fronna, canto lirico-monostrofico in genere a due o tre voci e senza accompagnamento musicale.
Tutto ciò e altro ancora condensa un moderno canzoniere nazionale, linguisticamente sovraregionale e socialmente interclassista, nel quale convivono modernità e arcaismo, ma anche rabbia e malinconia. Qui, forse più ancora che negli epistolari, per il faticoso uso attivo di una traballante e per certi versi sperimentale lingua scritta e orale, riverbera davvero la lingua della guerra, se è vero che la canzone di per se stessa sorge naturalmente spontanea e in questo senso meno autocontrollata di una qualunque epistola, sempre sottoposta a puntuale censura.
Ma il librazzo è molto di più. È un flusso storico di sette intensi capitoli che è bello scorrere nell’indice iniziale anche per scegliere da dove iniziare la lettura. Se vi incuriosisce un Mussolini non retorico, ancora socialista e animato cronista per la carta stampata, il suo diario di guerra offre interessanti spunti anche o proprio su ciò che i suoi commilitoni cantano, nel segno di una contromemoria più pacifista che sovversiva: ve n’è traccia abbondante proprio nel diario mussoliniano. Impegnato sulle alture di Doberdò, calato nell’anonima folla grigioverde di cui riconosce il generale disamore per la guerra, il futuro duce resoconta di canti sentimentali e strofette che si mettono di traverso alla retorica del canto irredentista.
La forza del libro di Jona, Castelli e Lovatto sta anche nel far trapelare una patria immaginaria e una patria temporale sotto la cenere di una patria finalmente reale. Comincio da quest’ultima, che è proprio la trincea nella sua fangosa crudezza, con le canzoni effettive, per niente mitologico-risorgimentali e spesso antipatriottiche, colonna sonora di una patria temporale in cui per la prima volta cafoni e mangiapolenta si riconoscono in forzosa convivenza, compartecipi di una realtà piovuta sulle loro teste all’improvviso e che affrontano, subiscono, tanto inadeguati, materialmente, quanto impreparati nello spirito (ma tanto la guerra sarà breve, vaticinò qualche imprudente in malafede e temporalmente la patria, parola dantesca, prende una concreta e temporale consistenza tra Carso e Isonzo).

Quanto sentiamo antico, lontano dal nostro orizzonte temporale, dalla nostra esperienza, dalla nostra sensibilità, luoghi-canzone come Monte Nero o Caporetto (quanti giovani credono erroneamente che Caporetto si trovi in Italia)? Quanti sanno che il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando fu al centro di sarcastiche canzoni di trincea? E a rivederlo oggi, cosa cerchiamo nel film Uomini contro? Gli occhi cerulei del magnetico sguardo di Volontè, o davvero la versione cinematografica del succitato libro di Lussu che meglio di tutti denudò i generali nella loro tragica insipienza? Il mito è un problema e se la grande guerra è oggi offuscata da una nebbia mitologica – è una mia personalissima considerazione – è anche perché una seconda e più recente guerra mondiale ha contribuito ad allontanare dalla memoria la prima. Ecco che allora il librazzo, sulla scia di un antimitico controcanto del cigno, aiuta a raddrizzare molti piani scoscesi, perché ci riporta la guerra casa per casa, e nella sua concretezza-palla-al-piede, per la ricchezza delle fonti che ne sono lucido e solido sostrato, si rivolge alle nostre coscienze di cittadini del tempo presente, non meno che alla nostra banale curiosità di lettori. A leggerle bene, su tutti è Carlo Salsa col suo Trincee a esemplificare meglio il concetto, ste canzoni di mitico e patriottico, di immaginario e favoloso hanno abbastanza poco. Altro che di Trento e Trieste… Si parla del comandante della ramazza e di quanto la truppa sia stufa di mangiare pastasciutta.
Carlo Pestelli, cantautore, chitarrista, concertista, ricercatore, musicologo
Pubblicato lunedì 20 Maggio 2019
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