Daisy Lumini (https://en.wikipedia.org/wiki/Daisy_Lumini# /media/File:Daisy_Lumini_1972.JPG)

Non voglio essere etichettata, e non voglio che mi si scambi per una pasionaria delle note. Amo moltissimo la musica e non concepisco che venga strumentalizzata, sia come un qualsiasi oggetto di consumo, sia come canale di propaganda politica. Daisy Lumini, Giornale d’Italia, 24/10/1970

 

Daisy Lumini è una musicista a tutto tondo. Diplomata al Conservatorio, compone al pianoforte e quando canta si accompagna alla chitarra. Scrive canzoni alla moda, negli anni dell’evasione in pieno boom economico, ma anche musica colta per il cinema, per il cabaret, per il teatro d’avanguardia. È una vera cantautrice. Sa fischiare pezzi arditissimi come se tra le labbra tenesse uno strumento. Ricerca e trascrive musica antica. Canta brani d’opera come mezzosoprano, ma con la voce naturale interpreta canti popolari della tradizione fiorentina. Attraversa il mondo della musica, alternando i generi più diversi, nei quali sempre si distingue, apparendo innovativa, straordinariamente talentuosa, certa di ogni sua scelta.

Ripercorriamo la sua carriera grazie a Beppe Chierici, il grande attore, vincitore del Premio Molière, amico, traduttore e interprete di Brassens. Con Daisy ha condiviso dieci anni di amore incondizionato, i dieci anni in cui lei ha deciso chi voleva essere. Lo incontriamo nella sua casa di Pesciano, tra dischi, libri, opere d’arte, oggetti d’antiquariato e gatti rispettosi. È il 18 agosto.

Beppe Chierici (http://www.lisolachenoncera.it/rivista/letture/ beppe-chierici-la-cattiva-erba/)

Dasy nasce a Firenze il 18 agosto 1936 in una famiglia dell’alta borghesia fiorentina. Il padre Vasco la battezza con quel nome britannico che poi lei trasformerà in Daisy. Lui è un grande pittore su legno, famosissimo in città e non solo. Un uomo stimato, molto conosciuto, uno del popolo che ha avuto successo. Realizza opere meravigliose in legno: mobili, vassoi, tavoli, cornici. Pezzi unici, raffinatissimi. La madre è multimilionaria, discendente di una ricca famiglia nobiliare. «La famiglia – dice Beppe – possedeva un patrimonio enorme di appartamenti, palazzi, ville di campagna. In San Frediano, il centro storico di Firenze, c’erano diciotto appartamenti, altri su Piazza Pitti, in via dei Mille, poi la casa di campagna al Mugello. Gli ultimi anni andò a vivere con Tino Schirinzi in un appartamento di 400 mq con una vista pazzesca su Piazza Pitti. Era il laboratorio e negozio del padre. Poi si trasferirono a Vicchio».

È il padre ad appassionarla alla musica. Oltre a insegnarle a fischiare – e il suo fischio diventerà un vero e proprio strumento – iscrive Daisy al Conservatorio Cherubini, dove lei si diplomerà con il massimo dei voti in Pianoforte e in Composizione. Nel frattempo frequenta il Liceo Michelangelo e poi la Cambridge University of Florence. Scuole prestigiose, la madre ci tiene che Daisy tenga alto il nome della famiglia. E che sposi poi un buon partito dell’alta borghesia, con cui vivere una vita di agio, avendo cura di gestire tutto quel patrimonio.

Ma Daisy si ribella. E sceglie come compagno uno sportivo, il portiere di riserva della Fiorentina che a quei tempi non è certamente il marito ideale da esibire in società. Inoltre, quest’uomo la picchia. Anche dopo che lei decide di lasciarlo.

Meglio andarsene, fuggire via.

A Roma Daisy comincia a lavorare nel mondo della musica. Con il paroliere Aldo Alberini, in arte Rasna, scrive canzoni che da subito le fanno ottenere molto successo. Come Whisky (1959) che Mina lancia nel film Urlatori alla sbarra.

Testo trasgressivo in cui una donna, al pari di un uomo, si concede qualche bevuta e non teme il giudizio della gente. Trasgressiva, ma non quanto Il gabbiano (1960), la canzone preferita dei carcerati. «Quando tenevo la trasmissione notturna di Radio Radicale – spiega Beppe –, una cosa mi chiedevano tutte le notti: facci ascoltare Il gabbiano». Canzone sulla libertà, faceva sognare e sperare tanti giovani che, dalle loro carceri, a Daisy inviavano lettere struggenti.

La risposta della novia, invece, diventerà tra i cavalli di battaglia di Milva.

Per Betty Curtis scriverà La casa più bella del mondo.

Brani addirittura per Claudio Villa. Daisy è davvero un’autorità come autrice, entrata subito nella RCA, la maggiore delle case discografiche.

Morricone la chiama per fischiare ne I Basilischi della Wertmüller.

Quel fischio fa impazzire tutti, Daisy è una virtuosa. La chiamano l’usignolo di Firenze per questo. O The singer with the wistle. L’arte di scrivere per immagini la avvicina ancora di più al cinema e di nuovo Morricone le arrangia due suoi brani, Femmine d’estate e Incantesimi. Scriverà poi per La bugiarda di Comencini,

per Commando suicida di Camillo Bazzoni, e per America Secret Service dove, per prima, mette in musica la storia di Sacco e Vanzetti. [Cfr. A. Caponeri, VINILE n° 16, 2018, p. 55].

«C’è stato un periodo in cui sono stato direttore artistico alla Polivideo – dice Beppe Chierici –. Avevo curato trasmissioni sul canto popolare italiano ed europeo. In quel periodo questa casa produttrice realizzò il più bel programma su Joan Baez ottenendo di poter filmare un suo concerto famosissimo durante la tournée in Europa negli anni Ottanta, quello di Ginevra. Così ebbi modo di incontrarla. La cosa incredibile è che lei aveva sentito la canzone su Sacco e Vanzetti che Daisy aveva scritto prima di lei e che presentò in America, invitata al Perry Como Show: Charlestown in Massachusetts, si chiamava. Parlava della tragica fine dei due anarchici. Daisy ne era rimasta colpita, ne aveva certamente sentito parlare o ne aveva letto. Daisy era molto colta, non era una svampita. Successivamente la cantò anche in Italia. Joan Baez conosceva il brano, e a distanza di tanti anni si ricordava di questa cantante italiana che lo aveva scritto».

Così, Daisy si esibisce in varie tournée in Germania, in America dove canta anche alla Carnegie Hall. A Milano lavora al cabaret da Bongiovanni. Tra gli artisti con cui collabora c’è Jannacci, un amico fraterno. Lì diventa presto una personalità e quando ci tornerà con gli spettacoli sul folk, i milanesi si ricorderanno di lei. La andranno a cercare nei teatri off di Porta Romana, per rivedere la grande artista.

Nel ’66 partecipa al Festival di Napoli dove in coppia con Mario Merola canta Femmene ’e Tammorre, un canto popolare del Seicento, riadattato.

Non vince la competizione, ma intanto è nata la stella Daisy Lumini. Cantante, autrice, non a caso lo studio americano The singer songwriter in Europe – Paradigmas, politics and place la menziona, insieme a Maria Monti (link Patria), come prima cantautrice donna italiana [Isabelle Marc, Stuart Green, pp.85-87]. Ben inserita nel music business, dunque. Ma il mondo dello spettacolo vede in lei uno straordinario prodotto commerciale e le confeziona il ruolo della cantante sexy, l’ammiccante brunetta in giarrettiera. «Quando per la prima volta cantò in Italia la canzone su Sacco e Vanzetti – continua Beppe – la fecero apparire come una soubrette, presentata in maniera così volgare da far perdere il senso di ciò che stava cantando. Non si aspettava di essere trattata così, era ingenua in queste cose. La televisione le ha costruito questo stereotipo femminile che non la rappresentava».

Tra il ’68 e il ’69 il regista Leone Mancini la scrittura per cantare la sigla finale della trasmissione Ieri e oggi in cui compare nelle vesti di cantastorie, ricevendo notevole fama.

È a questo punto, nel pieno della popolarità, che nella vita di Daisy avviene un grande stravolgimento: l’incontro con l’attore Beppe Chierici, innamorato del teatro povero, delle canzoni di Brassens, di una vita fatta di cose semplici. È l’inizio di una grande storia d’amore e di una feconda collaborazione artistica.

«Siamo stati insieme dieci anni. Che valevano come ottanta per una coppia normale. Perché eravamo sempre insieme, giorno e notte, giorno e notte».

Più volte la madre le fa recapitare assegni da cinque milioni di lire perché lei abbandoni quella vita e lasci l’uomo che, a detta sua, l’ha traviata, portata via da Firenze e dalla sua realtà borghese, relegata a una vita di miseri guadagni, quando invece lei poteva avere tutto. «Non so quanti assegni le abbia mandato, ma io avevo insegnato a Daisy a vivere del nostro lavoro».

Il mondo di Daisy cambia radicalmente. Negli anni delle lotte e degli scontri di piazza, della protesta e della canzone militante, un certo modo di fare musica e spettacolo è anche una dichiarazione politica, una scelta di campo, uno stile di vita. Che lei sposa. Così, in virtù della politica culturale del decentramento, si recita nei teatrini sperduti sull’Appennino, tra la gente, nelle piazze, nei circoli Arci fino ai grandi teatri di Bologna e Milano. A volte anche gratis. «Si andava a cantare al Festival dell’Unità senza ricevere compensi dal partito, ma una paga in tavolini in rame, sedie, quadri. Del resto, andavamo in paesi così piccoli e sperduti dove non avevano neanche i soldi per piangere. Ci davano in cambio mercanzie. Lei non si è mai pentita, era molto fiera della sua scelta».

Sono spesso a mangiare in una trattoria, Daisy non ama cucinare, lì si paga mille lire per un pasto. «Ci trovavamo tutti i senatori e deputati comunisti che lasciavano i due terzi dello stipendio al partito, e non avendo soldi andavano lì per pranzare. C’era, per esempio, Umberto Terracini. Ci chiamava da parte e ci diceva: non fate mai la politica caffereccia, eh. Cioè fare politica comodamente seduti in poltrona, bevendo un caffè e fumando una sigaretta. La detestava, ci avrebbe portato contro un muro, diceva. Lui non ha mai perso un nostro spettacolo. Questo è fare politica, ci diceva. Forse per questo L’Unità ci elogiava».

L’incontro tra Daisy e Beppe sembra guidato dal caso, ma anche l’istinto conta.

«Non l’avevo mai vista prima di quella sera, in cui andai allo spettacolo di Duilio del Prete che conoscevo da sempre. Mentre ero in pausa dalle cure che facevo all’Istituto Pasteur di Parigi, ero stato in Africa per dieci anni a lavorare come geologo e dovevo ripulirmi dalle malattie contratte laggiù, lessi di Duilio in scena in un teatrino di Trastevere. Era mio amico di infanzia, sono io che l’ho convinto a fare il cantante e l’attore. Era come un fratello. Con Duilio ci rivediamo dopo i miei dieci anni di Africa. Tutto era cambiato: avevo due figlie, lui stava con Edmonda Aldini e faceva teatro. Era il suo debutto in quel teatrino pieno di gente. Nell’intervallo mi accorsi di questa creatura che era seduta accanto a me, per caso durante lo spettacolo, attorno alla quale si accalcava una folla di persone. La guardai, era davvero incantevole con i suoi lunghissimi capelli neri. Ho immaginato che fosse famosa perché in tanti le chiedevano dei suoi progetti artistici. Quando sono andato a salutare Duilio nel camerino mi sono accorto che c’era di nuovo lei. Lui insistette perché andassi a cena a casa sua in via di Monserrato vicino a Piazza Farnese. Chi trovo seduta a tavola con lui? Ancora lei, ancora accanto a me. Duilio mi chiedeva che cosa avessi combinato in tutto quel tempo e io gli raccontai dell’Africa, le cose più interessanti che mi erano capitate, non quelle terribili che avevo visto laggiù. Questa creatura mi guardava e ascoltava. Alla fine della cena mi propongo di accompagnarla a casa, abitava tra piazza Farnese e piazza Navona. Abbiamo parlato tornando a casa e non abbiamo più smesso. Fu una cosa folgorante, un vero colpo di fulmine. Al punto che io non sono mai più rientrato all’Istituto Pasteur, mai più partito per l’Africa, non me ne sono più andato per dieci anni». Poco dopo Beppe venne a sapere che i partecipanti a quella nuova missione di ricerca, prospezione geologica e mineraria che avrebbe dovuto guidare in Africa, vennero in gran parte trucidati. L’istinto, si diceva.

Dieci anni a condividere casa e lavoro. «Abbiamo vissuto nella casa di via dell’Orso n. 28, anche con le mie figlie. Era una casa asilo, in tanti, artisti, musicisti, attori, pittori arrivavano, si fermavano a chiacchierare di musica, di arte, di cinema. C’erano attrici come Anna Proclemer, il regista Leone Mancini che a quei tempi era il compagno della Wertmüller. Poi attori come Carmelo Bene. Io amavo bere il buon vino con gli amici. Quando Carmelo lo venne a sapere, ogni sera verso mezzanotte che finiva a teatro, ci suonava, ci salutava, andava in cucina, sceglieva la bottiglia e la mattina dopo spariva. Ci svegliavamo e in terra trovavamo le bottiglie vuote. Lui, come niente, tornava la notte successiva. E poi direttori d’orchestra come Gelmetti, Mannino, Guaccero, musicisti della scuola di Santa Cecilia. C’era tutto questo mondo che era molto disimpegnato. Si alzavano al mattino, la casa era grande e in tanti dormivano da noi, e discutevano di spartiti, di note, di accordi. Io li trovavo dei marziani, erano fuori dal mondo. C’era stata l’occupazione di Praga, era già successo il finimondo, ma a loro non interessava. Ci siamo detti, Daisy ed io, che c’erano cose più importanti e piano piano ci siamo distaccati. E se facessimo uno spettacolo insieme, che ne pensi, lo faresti? E da lì è nato tutto».

Fuori dal luccicante mondo dello star system, del cinema e della canzonetta nasce Daisy come folklore. Beppe come Brassens, spettacolo che, nel ’69, va in scena al Teatro della Ringhiera.

Nella casa di Beppe, famiglia di orgogliosa cultura contadina, si canta da sempre. «Del canto popolare io conoscevo la tradizione piemontese, mentre Daisy le ninne nanne toscane. Presto abbiamo capito che potevamo impostare uno spettacolo con quei materiali. È il primo in cui lei canta il folklore. È stata una rivoluzione per chi si aspettava la Daisy Lumini cantante di canzonette, la vedette televisiva. Lei si presentò, infatti, con un repertorio completamente diverso: canti popolari toscani di secoli prima».

Una ricerca sul campo? «Alcune canzoni le conosceva perché le ricordava dall’infanzia, per altre ha fatto una ricerca straordinaria, da musicista. Nelle osterie, come Caterina Bueno, Daisy non andava, la sua ricerca si è svolta più nella biblioteca del Conservatorio di Santa Cecilia. È diventata amica di Diego Carpitella, l’autorità massima del folklore a quei tempi. Pietro Sassu e Carpitella li frequentavamo spesso, venivano a casa nostra, loro l’hanno introdotta nel mondo del folk. Avvenne tutto all’interno del Conservatorio di Santa Cecilia dove Carpitella già era insegnante. Daisy non ha fatto l’esperienza della ricerca sul campo, nelle osterie, tra i contadini, nei luoghi di lavoro. Solo dopo, quando mi venne chiesto di curare una trasmissione per la televisione svizzera che si chiamava Buonanotte bambini, siamo andati alla ricerca di ninne nanne, col magnetofono abbiamo registrato i canti e le voci delle donne nelle campagne».

Il primo spettacolo, dunque, si compone di canti toscani e piemontesi. E poi c’è Brassens. «Io lo traducevo, ma non avevo mai pensato di cantarlo. È lei che mi porta su questa strada. Ma era spettacolo, era teatro, non solo canzoni. Era follia per quei tempi: il sipario di rotoli di carta igienica, il bidone dell’immondizia che diventava una casa, un altro una culla. Tutte cose che a quei tempi erano sbalorditive, infatti ci attribuirono di aver inventato il teatro povero. Ma esisteva già, noi l’abbiamo semplicemente fatto. Con mezzi che non costavano niente. Perché il bidone lo trovai per strada, la bicicletta era stata buttata via. A Roma se uno spettacolo andava bene durava quindici giorni, noi siamo andati in scena sei mesi. Il caso ha voluto che Berenice, Lorenza Mazzetti, avesse una rubrica su Paese Sera. Lì, scrisse che Arthur Miller era venuto a vedere il nostro spettacolo e che lo aveva fatto impazzire. Da allora il teatro rimase pieno per mesi, tutta Roma venne. Era la Ringhiera, abbiamo lanciato quel teatro».

Il cambio di stile di Daisy è un vero stravolgimento, che mette in luce la straordinaria originalità della sua voce naturale. Una voce importante, profonda, colorita. «Quando è passata al folklore, niente più canzonette, niente più fischio, i critici musicali hanno capito di che stoffa era fatta. È lì che la stampa è impazzita. Parlavano di noi in continuazione. Massimo Dursi, del Resto del Carlino, ha scritto critiche ditirambiche, Aggeo Savioli de L’Unità, lo stesso. Paese Sera ci faceva degli inni, era il giornale della sinistra romana. Massimo Castri su Sipario fece sei pagine sul teatro povero come se lo scoprisse per la prima volta, ed eravamo noi. Che ci sorprendevamo che venissero a vederci».

Successo di critica e di pubblico. «Il pubblico che partecipava ai nostri spettacoli non era quello che seguiva il canto popolare, ma che lo scopriva grazie a Daisy, che era un personaggio noto, una cantante famosa. La gente che pensava di ascoltare Whisky, Il gabbiano o di sentire Daisy fischiare qualche pezzo comprendeva che in lei c’era tutto un altro mondo. Il nostro pubblico andava da Gian Maria Volonté e Nanni Moretti a gente sconosciuta. Compresi gli studenti che volevano partecipare a qualcosa che smuovesse le coscienze, che contestasse la storia passata e il presente. Eravamo due pazzi: una cantante così conosciuta che aveva deciso di mettersi a cantare Maremma, o il Lamento della sposa, o una vecchia canzone sui vignaiuoli, fino ai canti dei partigiani. E un attore che sulla scena sembrava un selvaggio che poteva permettersi di tutto. Il mio Brassens a Roma non lo avevano mai sentito, quelle canzoni erano come pugni nello stomaco, e in scena mi cambiavo tante volte: ero il prete, il barbone, l’intellettuale».

Canzoni tenute insieme da un tema? «Il canovaccio, il filo che collegava il tutto, era l’idea di parlare di cose popolari: il ladro, il marito ubriacone, niente di elitario”.

Un grande successo anche per Daisy. “Credo che questo l’abbia risanata di tutte le ferite che aveva dentro, perché ogni sua storia d’amore era stata una ferita. Questa esperienza l’aveva fortificata: Vengono per me, non vengono per le mie canzoni, diceva. Per lei è stata la rivelazione».

L’industria discografica, però, non è così interessata alla sua svolta artistica. «La RCA non la volle più, perché era comunista. In realtà ero io comunista, non ero iscritto al partito ma andavo nelle sezioni, partecipavo alle iniziative. Non mi iscrivevo perché in me c’è sempre stato un lato anarchico che non mi ha mai fatto essere parte di un gregge. E lei era uguale. Restiamo liberi, ci siamo detti».

Gli spettacoli, intanto, diventano dischi: Daisy come folklore. Daisy Lumini canta la vecchia Toscana esce nel ’69 con i canti popolari toscani. È la prova del suo talento e del valore del suo lavoro di reinterpretazione del canto popolare. Riprende brani tradizionali dando loro un’intensità di rievocazione rara. Brani come Cade l’oliva (XVII sec.),

Maremma (XIX sec.),

La malcontenta (XIX sec.),

Ninna nanna, aulla culla (XIX sec.),

Sotto il ponte (XV sec.),

Fate la nanna coscine di pollo (XVII sec.),

Leati Geppo (trescone) del XVI secolo,

Il lamento della sposa (XVIII-XIX sec.).

Poi La cattiva erba, tratto dallo spettacolo Contro la guerra e le armi (1970). «Era il periodo in cui si rischiava davvero, c’erano venti di guerra dappertutto. Proposi a Daisy di lavorare su questa tematica partendo da testi antichissimi come quello del filosofo cinese del VI secolo a.c. Lao Tsu, Contro la guerra e le armi, per arrivare ai canti partigiani.

Non solo il folklore, ma anche testi che non vi appartenevano: Daisy per esempio mise in musica i versi di Rimbaud, Il soldato dormente,

e quelli di un poeta russo, Il testamento di Lermontov.

Io ho tradotto e cantato la Canzone di Antoine: Perché quei cannoni?

Diversi i brani anonimi, tra cui il delicato Nenia dalla guerra dei Trent’anni.

Erano presenti tutte le sfaccettature della guerra in quello spettacolo. Con anche riferimenti all’attualità».

Intero album:

La donna del vento, dello stesso anno è un album composto di traduzioni dei brani della cantautrice francese Anne Sylvestre. Tra queste Filomena, storia di una donna incantatrice e un po’ strega che incatena il cuore degli uomini.

Se l’acqua ti bagna è una intensa poesia d’amore,

poi La donna del vento

e La rosa dei venti, canzone sull’amicizia.

Tutte dal sapore popolaresco.

«Anne Sylvestre, donna coltissima, era idolatrata da Brassens, veniva chiamata la Brassens in gonnella e lui stesso l’aveva soprannominata la Duchessa in zoccoli. Fu lui a presentare il suo primo disco e a lanciarla. Era famosa come Barbara, le due cantautrici contemporanee più interessanti della scena francese. Barbara era una musa eterea, Anne una combattente. C’è stata un po’ di competizione: il fatto che a un certo punto Barbara fosse più famosa di Anne Sylvestre ha irritato quest’ultima al punto di rompere con Brassens, che alla fine l’ha lasciata perdere. Si era esibita in quattro o cinque delle prime parti dei suoi concerti. Lei scriveva testi di estremo valore poetico e di grande impegno, ma non politici, più sociali. Contro la borghesia, storie di figure femminili che si ribellano alle regole borghesi. Siccome ero molto amico di Anne, decisi di preparare questo spettacolo per Daisy su alcune delle sue canzoni che avevo tradotte. Sarei andato avanti, ma Anne non ha mai risposto alle lettere in cui le chiedevo un parere e il consenso a continuare. Con questo suo distacco anche io mi sono un po’ piccato e ho smesso di lavorare al progetto. È stata una cantante estremamente tormentata che passava dall’amicizia alla rivalità in modo rapidissimo. Come Anne Wanderlowe, un’altra personalità forte e di grandissimo talento che ha vissuto qualche tempo con la Sylvestre. Io tradussi quattro sue canzoni per Daisy. Tra queste Piove su Roma, storia di una disperata che ha il marito in galera e spera che camminando sotto la pioggia qualcuno le dia un po’ di conforto, un riparo. Non abbiamo mai potuto inciderla perché anche Anne non ha mai risposto alle nostre lettere».

Nel ’72 esce l’album Questa seta che filiamo, dallo spettacolo Essere e avere. Tra le tante canzoni sul lavoro, sui soprusi e le ingiustizie nel mondo contadino e operaio del passato e del presente, risuona anche la Ballata di Longarone, scritta da Beppe sul disastro del Vajont. «L’ho scritta di getto – dice Beppe – nella tradizione dei vecchi cantastorie, in una notte in cui non potevo dormire perché troppo indignato per l’incredibile, ignominioso verdetto giudiziario” [Chierici, Un Ulisse da taschino, p. 149].

Il disco parte dal racconto delle Tessitrici di seta, un testo epico del Duecento, poi Il servo della gleba, Il vignaiolo, I filatori di lana. «Sono i mestieri del Medioevo. Era un modo per parlare del proletariato: non lavori nobili, ma i lavori dei servi, dei braccianti agrari, della gente del popolo che col tempo è diventata la massa degli operai di oggi. Lo spettacolo iniziava con noi vestiti da menestrelli e finiva che indossavamo le tute da lavoro dei meccanici. Raccontavamo questa evoluzione. Era un excursus che abbiamo voluto fare sulla vita, la quotidianità di questa gente. Abbiamo scavato nel passato e abbiamo voluto essere anche europeisti, non ci interessava che i canti fossero solo italiani, il canto popolare è popolare proprio perché abbraccia tutta l’Europa».

Nel disco, inoltre, sono inseriti testi più politici come La Comune non è morta, sulla tragica esperienza della Comune parigina,

Fuoco e mitragliatrice, canto anonimo della Prima guerra mondiale, Il bersagliere ha cento penne, trasformazione partigiana di un canto militare. Infine Tera e aqua di Fossati-Liberovici a ricordo della tragedia del Polesine.

Nel ’73 è la volta de I canti dei menestrelli, dallo spettacolo omonimo, primo in Italia che fa riecheggiare i canti dei trovatori in lingua d’oc e d’oil magistralmente tradotti da Beppe. Testi del XII, XIII, XIV secolo rinvenuti su testi antichi conservati nelle biblioteche. Il disco è stampato in pochissime copie dalle Edizioni delle Acciaierie di Piombino. «Questo cd fu un evento. Ne fu stampato un numero limitato di copie inviate ai più grandi scrittori, personalità della cultura, come omaggio. Il fatto che in un’azienda ci si occupasse di realizzare, in edizione lussuosissima, un cofanetto contenente i canti dei menestrelli, coi testi incisi su carta di pregio, fa capire il livello di cultura che c’era in Italia». Un lavoro impensabile oggi, straordinario. «Capimmo che il folk era un movimento veramente universale. E che c’era anche il folklore europeo da studiare. Così io ho cominciato a tradurre le canzoni popolari del Trecento, su documenti autentici dell’epoca. E Daisy a trasporle in musica, interpretando gli antichi spartiti. E qui lei ha fatto della paleontologia musicale. Del resto, era un’esperta di musica antica. Quando andavamo in Francia in giro per le biblioteche e ci facevano consultare i manoscritti originali era stupefacente vedere i diversi modi di trascrizione, con le note su appena quattro righi. Interpretare è stato un grande lavoro. Come anche tradurre. Poi è successo che Gianfranco Contini, un’autorità mondiale del medievalismo, ha adorato il nostro disco e ci scrisse una straordinaria presentazione. Preferisco al Signor Cannello il Signor Beppe Chierici, scrisse. Cannello era Carducci, che aveva tradotto alcuni testi anche lui. E poi Palazzeschi che pubblicò commenti impressionanti».

Anche il disco Canti popolari toscani inciso da Daisy, che raccoglie brani della tradizione, viene prodotto dalle Acciaierie di Piombino. Distribuito in una confezione deluxe a tiratura limitata, con presentazione di Carlo Cassola.

Dalla metà degli anni Settanta il lavoro di Beppe, molto richiesto nel cabaret, ha una grande impennata, soprattutto a Parigi dove, nel 2002, gli verrà assegnato il prestigioso Premio Molière.

Beppe Chierici canta Brassens:

Del ’76 è il secondo suo disco dedicato alle canzoni di Brassens, che anche Daisy conosce. «L’ho portata a Parigi perché lo incontrasse. Lui le ha fatto una proposta che lei ha fatto male a rifiutare. La sera che siamo stati insieme lei gli ha cantato le sue canzoni popolari, Brassens rimase così colpito da chiederle di aprire la prima parte del suo spettacolo. Era stato stregato da Daisy, ma lei non accettò. Io non potevo imporle niente. La volta che lo feci fu l’inizio della fine. Come quando le consigliai di accettare la proposta di Strehler. Lui la voleva al Piccolo di Milano per la Storia di un soldato di Brecht, lei non voleva andare per non lasciarmi e io insistetti: è la tua occasione, la tua consacrazione. Si è lasciata convincere, ed è andata a Milano. In quel periodo di separazione ci siamo accorti che il nostro amore col tempo si era logorato. La causa per cui ci siamo lasciati».

Con buona pace della famiglia? «La famiglia non aveva accettato che lei facesse quella vita fino a quando al nostro spettacolo in un teatro leggendario di Firenze, suo padre ha visto il pubblico fiorentino alzarsi in piedi a farci la standing ovation. Lì ha capito l’importanza del lavoro di Daisy. Il fatto che sua figlia avesse successo in questo modo lo aveva molto lusingato. Che stesse con uno come me, non molto. Aveva difficoltà ad ammettere che non avevo plagiato sua figlia, come molti pensavano, che non l’avevo tolta alla carriera promettente delle grandi case discografiche per offrirle arte povera, ma che facevamo belle cose insieme e che forse le avevo tirato fuori un’anima che nessuno conosceva. Un’anima che sarebbe rimasta seppellita da storie tristi e squallide. Lei, in quegli spettacoli, si esprimeva totalmente».

Ma il lavoro forse più importante che Daisy e Beppe realizzano insieme deve ancora arrivare. È il disco Il paese dei bambini con la testa (’75). «Imperava in quel momento lo Zecchino d’oro, infanzia significava Zecchino d’oro. Non avevano più la testa quei bambini infarciti di canzonette. Abbiamo pensato che in Italia ci fossero altri bambini, con la testa, bambini saggi che avessero voglia di affrontare tematiche impegnate». La canzone Faccia di fumo parla di ecologia,

Quattro cavalli e quattro cowboys è sulla violenza del west, la cultura americana con i suoi modelli,

La ballata di Laika è sulla difesa degli animali.

«Un disco stampato fino al 2012, che per più di quarant’ anni ha continuato a vendere. Non lo sapevamo avendo devoluto i diritti d’autore. Del resto, Ettore De Carolis scrisse meravigliosi arrangiamenti e Renzo Margonari disegnò una copertina di incredibile bellezza: un bambino che invece di guardare le monete guarda le farfalle. La Televisione della Svizzera italiana ne regalò copie ai bambini svizzeri. E poi produsse la trasmissione Il paese dei bambini con la testa. Eravamo adorati. I doganieri in Svizzera ci riconoscevano ogni volta che passavamo: tal chi Baracco e Prunella, dicevano. Personaggi amatissimi dai bambini. Era uno spettacolo per bambini veri, curiosi, interessati alle cose del mondo».

Intero album:

La Svizzera è anche il paese che accoglie il Clown Dimitri che insieme a Daisy e Beppe mette in piedi la prestigiosa Università Elvetica delle Arti Sceniche. Beppe insegna recitazione e Daisy canto. È un’esperienza importante che le fa acquisire consapevolezza del proprio valore come artista.

Poco dopo Daisy viene chiamata dal Pci a esibirsi in un concerto al Palazzo dello Sport di Roma per celebrare l’armistizio della guerra del Vietnam. C’erano Paolo Pietrangeli, Ivan Della Mea, tutti i cantanti politici con le loro canzoni militanti. Con la chitarra in spalla Daisy canta una ninna nanna: Ninna nanna del bambino del Vietnam. Quando attacca, subito scende il silenzio. Poi viene giù il teatro, tanto è sorprendente. «Stiamo per andare via, ma la ministra della cultura vietnamita ci vuole conoscere. Era commossa. Lì mi venne l’idea di fare un disco per i bambini da regalare agli orfanelli del Vietnam. Daisy acconsentì. Il disco lo produsse la televisione svizzera che pagò tutte le spese anche per donarne copie ai bambini svizzeri. Io andai alla Siae per offrire i diritti a due bambini vietnamiti che non ho mai incontrato, ma che so essersi laureati».

La musica può fare qualcosa di concreto. «Una ninna nanna poteva bastare. Questa donna aveva sentito la verità di Daisy. La guerra era finita ma noi la vivevamo ancora».

La storia con Beppe finisce, ma Daisy, nella scintillante Milano degli anni Ottanta, continua a lavorare a progetti di ricerca, di musica colta e concettuale, dedicandosi al teatro musicale contemporaneo. Non è la prima volta che questo mondo entra nella sua vita. Già nel ’73 partecipa come mezzosoprano all’opera Il diavolo in giardino di Franco Mannino, con l’Orchestra sinfonica e il coro della Rai di Torino.

Ma la svolta decisiva arriva poco dopo, quando Luciano Berio mette in musica La vera storia di Calvino. La regia è affidata a Roberto Scaparro che per il debutto alla Scala sceglie Daisy. La parte è quella di una cantastorie, ruolo perfetto per lei. Da un palchetto Italo Calvino le manda i suoi applausi.

Luciano Berio racconta l’opera.

Poi il giovane e molto promettente compositore Salvatore Sciarrino le offre parti in diverse delle sue opere. Tra queste i Cailles en sarcophage (’79) e il Lohengrin che nel 1984 vincerà il Prix Italia. Epilogo:

In quegli anni una nuova storia d’amore accende di passione la vita di Daisy. Un incontro decisivo, anzi, reincontro, visto che i due si erano già conosciuti e frequentati in passato. È con Tino Schirinzi, grande attore di teatro, volto di Paganini nel seguitissimo sceneggiato televisivo. Ma è una storia amara, destinata a un finale tragico che passa per la grave malattia di Tino, un tumore incurabile all’esofago, la dedizione totale di Daisy per lui e il silenzioso distacco dalla musica, dal teatro, da tutto ciò che aveva fatto di lei la grande artista famosa nel mondo. L’ultimo lavoro è datato 1990, ed è la musica di scena per lo Stadelmann di Claudio Magris. Poi, più nulla. Un salto, il 18 agosto del ’93, dal viadotto in costruzione presso Barberino del Mugello, mette fine alla vita di entrambi.

Daisy Lumini e Tino Schirinzi (da http://www.bolognatoday.it/eventi/desy-e-tino.html)

«Arrivavo da Parigi, era mezzogiorno, ed entravo in casa esausto dopo il viaggio. Al telegiornale vidi apparire una foto che scattai a Daisy per la copertina di un disco: era in poltrona con la chitarra, sullo sfondo il lungotevere. Annunciavano di aver ritrovato i corpi dopo tre giorni di ricerche. In Italia non vivevo più da anni, io non sapevo nulla. Dopo mezz’ora ha cominciato a squillare il telefono. Il Messaggero, Il Tempo, Il Corriere della sera, L’Unità: tutti i giornali mi chiedevano cosa ne pensassi di quella tragedia. Non penso assolutamente niente, risposi. Ognuno ha il diritto di suicidarsi quando vuole e come vuole. Ho voluto rispettare quella decisione senza commentare. Poi dovetti staccare il telefono. Per me fu terribile. Ho comprato tutti i giornali che annunciavano la disgrazia, ma non ho mai trovato una pagina culturale che riconoscesse a Daisy i meriti del suo lavoro. La reazione del mondo della cultura alla sua morte fu di indifferenza totale. Non ci fu nessuna commemorazione artistica. Solo qualcosa recentemente».

Daisy era esuberante, adorata dai tanti amici e colleghi incontrati facendo musica. Decisa e sicura di sé sulla scena, nel profondo animata da un temperamento tragico e oscuro. Le scelte di vita e quelle artistiche ci raccontano di una donna che avrebbe potuto vivere nello sfarzo, invitata a esibirsi nei grandi teatri, a lavorare per le più prestigiose case discografiche. Per il cinema, per la televisione, per il teatro. Un futuro scintillante. Invece Daisy sceglie di indirizzare la sua arte alle cause degli ultimi, di dare voce ai dimenticati, di spogliarsi di tutto per arrivare all’essenza.

«Penso che l’opportunità che lei ha avuto, di aver accolto questa idea creativa di vita, è stata ciò che l’ha contraddistinta in tutto questo ambiente artistico. Anche se non sempre è stata accolta come avrebbe dovuto. Veniva dal mondo colto, ma non ha mai fatto nessun distinguo. Nel mondo della musica popolare lei era comunque vista come parte di un’altra realtà e soprattutto libera di una indipendenza totale. Spesso i nostri spettacoli vennero anche contestati da una certa sinistra che li considerava troppo complessi per le masse. E poi c’erano i custodi del tempio del canto popolare a cui il nostro lavoro probabilmente non appariva coerente con la loro visione. Lei era una musicista completa, come Giovanna Marini. Ma non ha seguito tutto l’apprendistato di immersione nella ricerca sul campo. Le interessava di più ricercare i materiali nelle biblioteche, studiare gli spartiti, reinterpretare i testi antichi».

Cosa ha rappresentato il lavoro sul canto popolare?

«Lavorare su questi canti e creare un contatto col mondo contadino, significava dare dignità a una cultura fondamentale. Avevamo scelto di parlare di una cultura alternativa che una borghesia ormai trionfante stava soffocando. Esisteva questa cultura contadina che si è cercato di negare. Noi ci siamo messi a disposizione perché potesse riemergere. Che non era solo cultura contadina, c’era anche quella operaia che è stata determinante. E quella delle mondine che hanno avuto un’importanza enorme nella storia della civiltà italiana. Volevamo mettere in luce una cultura soffocata da secoli di cultura ufficiale. Il lavoro di tutte queste ricercatrici negli anni Sessanta è stato di andare a disseppellire ciò che esisteva, ma che era rimasto nascosto. È questo il loro grande merito. Siccome ce n’erano già tanti che facevano questo in Italia io ho voluto lavorare anche sulle tradizioni europee, partendo dai capolavori francesi del Medioevo».

Cosa ne pensava Daisy? «Per lei è stato un passaggio intellettualmente importante, è stato cambiare completamente cultura, entrare in un’altra realtà con tutta l’energia possibile e la voglia di impegnarsi. Lei era di una sincerità estrema, non ha mai pensato che potessimo guadagnare niente. Ha scelto con gioia di dedicarsi a questa musica. Voleva farlo e lo ha fatto fino in fondo. Quello che abbiamo realizzato esiste ancora e resterà per sempre. Questo Daisy se lo merita».

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica; autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli