Dopo la riunione serale, cantiamo […] Di rado c’è il vino, né si canta per far passare la nostalgia: non è fatta di questo la vita partigiana che consiste nel camminare, nel fare azioni, nell’eliminare intorno e dentro di sé ogni residuo di fascismo diventando liberi, eguali, coscienti moralmente e politicamente […]. Si canta tutti insieme nel casone seduti in due file attorno al fuoco, presso le armi, sotto le calze che asciugano, e la contentezza nasce appunto dal sentirsi così uniti: […] anche i piccoli dissensi della giornata si sciolgono in quel canto e i cuori sono pieni della stessa gioia.
Sul ritmo di vecchie canzoni antifasciste e alpine […] e su nuove cadenze sono nati i canti partigiani. Alcune delle voci che li intonavano con noi, tra le più coraggiose e oneste, si sono taciute. Quando tutti insieme, dopo la riunione serale cantiamo, ci pare che tra le nostre voci unite ci siano anche quelle: pure e serene esse sostengono il nostro canto, gli danno la certezza della prossima liberazione. Sezione stampa “Sergio”, Sesta zona operativa.
Sono gli uomini che hanno combattuto per la guerra di Liberazione dall’occupazione nazi-fascista a parlare. Sono loro, che tra un’azione e l’altra, nei momenti di tregua, si siedono attorno al fuoco, prendono un pezzo di carta e buttano giù parole, frasi, rime, che diventeranno canzoni. Non lo sanno, ma la Storia la stanno facendo anche così. Non solo partecipando alle azioni militari, ma cantando, intonando canti vecchi o nuovi, inventando testi e melodie. Perché nell’azione del cantare c’è il senso di appartenenza, c’è l’unità di intenti verso una causa comune, c’è lo sfondo collettivo di uomini e donne che combattono ma che anche sognano, desiderano, progettano, vivono. Nonostante l’orrore.
E questa è una storia che va raccontata, da mettere accanto a quella degli eventi da manuale di storia, delle rappresaglie, delle violenze, delle biografie dei personaggi che hanno animato il movimento di Liberazione in Italia.
“Nell’estate del ’44, cioè al culmine della guerra di Liberazione – scrive Roberto Battaglia in Storia della Resistenza italiana –, non vi è reparto partigiano di qualche importanza che non abbia il suo giornale e la sua canzone corale” (p.456).
I reparti partigiani sono accomunati da questo stesso proposito: ci sono la Brigata Giustizia e Libertà, legata al Partito d’Azione, la Brigata Matteotti, connessa al Partito Socialista, la Brigata Garibaldi, composta per lo più da comunisti. La storia di quest’ultima è amplificata dal canto omonimo, di cui si parlerà, che inneggia alle sue imprese.
Imprese grandiose, a partire da ciò che avvenne dopo l’armistizio.
L’Italia si trova nella condizione di cessare le ostilità contro le forze angloamericane, ma di dover reagire a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza. Di fronte alla disgregazione dell’esercito, migliaia di soldati sbandati vagano sul territorio nazionale. Compiono azioni di sabotaggio e di disturbo alle divisioni tedesche, ma molto spesso subiscono rastrellamenti e vengono coinvolti in sanguinose rappresaglie insieme ai civili.
Sono loro le prime formazioni armate.
“Si tratta di aggregazioni in qualche modo casuali – spiega Santo Peli in La Resistenza in Italia –, originate spesso dal preponderante desiderio di fare gruppo, di unirsi, nella maggior parte dei casi per difendersi dalla paura, dallo spaesamento, dall’incertezza che blocca chi, da mesi, o più sovente da anni, è abituato a obbedire, a eseguire” (p.24).
Quanti siano è difficile dirlo: sono ex-militari, ex prigionieri evasi, ma anche quadri di partito, intellettuali, civili. Chi più allo sbando e chi meno, sono tutti accomunati dalle sconfitte nei primi scontri con l’esercito tedesco. Ma chi sopravvive, alla durezza delle condizioni di vita e alle sfide, sarà temprato abbastanza per riuscire a vivere alla macchia e per tenere testa a condizioni estenuanti.
Presto subentrerà una fase diversa della lotta armata: dalle forme spontanee di condivisione di principi e di azioni si passerà a una dimensione più organica e strutturata, con una sempre maggiore connotazione nella sfera politica. “I partiti politici – scrive Peli – […] saranno decisivi nel dare senso, direzione, e soprattutto voce e visibilità al fenomeno della Resistenza armata” (p.35).
Ma le squadre vanno orientate, serve un coordinamento.
Dal 31 gennaio del ’44 sarà il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) nato a Roma nel settembre 1943 e composto dai principali partiti (il Partito Comunista Italiano – PCI, la Democrazia Cristiana – DC, il Partito d’Azione – PdA, il Partito Liberale Italiano – PLI, il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria – PSIUP e Democrazia del Lavoro – DL), a proporsi come guida rappresentativa dell’Italia democratica e ad assumere la direzione della lotta armata nell’Italia occupata.
In seguito all’istituzione del CLNAI (Comitato di liberazione nazionale alta Italia), poi, verrà fortemente impressa una direzione militare al movimento di Liberazione. L’arruolamento nelle bande si allarga notevolmente. Le azioni militari si intensificano e portano a importanti successi come la creazione delle Repubbliche partigiane amministrate secondo forme di autogoverno popolare. Ma non mancano eventi tragici come le stragi, i rastrellamenti, le sanguinose rappresaglie che avvengono nel durissimo inverno del ’44-’45. È la “stagione del dubbio”, come la chiama Santo Peli, per le incertezze, la durezze delle sfide che sembrano disfare le formazioni partigiane e portarle alla resa.
Ma chi resiste alle condizioni impervie delle montagne, alla minaccia della cattura e della morte, ai rastrellamenti, saprà guidare la riscossa partigiana: questi uomini, nella forza di saper resistere “hanno dimostrato e sviluppato capacità di adattamento, esperienza, organizzazione – scrive Santo Peli in La Resistenza in Italia –, e hanno bruciato definitivamente i ponti: saranno loro a inquadrare, nei mesi successivi, il flusso delle nuove reclute che imboccano la strada dei monti” (p. 60).
In primavera il numero dei partigiani in armi, infatti, cresce esponenzialmente: alla vigilia della grande stagione partigiana, secondo Giorgio Bocca (Storia dell’Italia partigiana) vi sono 9.000 partigiani nell’Italia del Nord e 3.600 nel Centro-sud; sono cifre che si riferiscono solo ai partigiani direttamente inquadrati in montagna. “Entro settembre – scrive Santo Peli – si giungerà a 80-100.000 uomini armati, che rappresentano la massima espansione delle forze partigiane in termini di individui effettivamente inquadrati” (p.86). Il progetto è quello di costituire un vero e proprio esercito partigiano, strutturato in divisioni, brigate, distaccamenti, squadre, con, obbligo di redigere rapporti da trasmettere al comando generale del Corpo Volontari della Libertà (CVL), organizzazione costituitasi a Milano nel 1944.
La ripresa delle operazioni mette in atto insurrezioni che coinvolgono le grandi città: Genova, Milano. Città che dopo gli scontri diventano libere. Il 10 aprile 1945 sarà proprio il Comando generale delle brigate Garibaldi a diramare la “direttiva n. 16” che allerta tutti i combattenti a prepararsi per un’insurrezione in alta Italia:
“L’ora dell’attacco finale è scoccata – dice la direttiva –. L’esercito tedesco è in rotta disordinata su tutti i fronti. Nuovi avvenimenti militari si stanno scatenando, che accelerano il crollo definitivo del nazifascismo. L’offensiva sovietica sull’Oder e l’offensiva anglo-americana in Italia saranno gli atti finali della battaglia vittoriosa. Anche noi dobbiamo scatenare l’attacco definitivo. Non si tratta più solo d’intensificare la guerriglia, ma predisporre e scatenare vere e proprie azioni insurrezionali. Le formazioni partigiane devono iniziare gli attacchi in forze ai presidi nazifascisti, obbligarli alla resa o sterminarli. Devono muovere con la più grande energia la liberazione del territorio liberando dai nazi-fascisti paesi, vallate, intere regioni e favorendo nelle zone liberate la costituzione immediata di organi popolari di amministrazione e di governo”.
[Dal minuto 20 la “direttiva n.16” è ben raccontata dallo storico Alexander Höbel con un’intervista (al minuto 24) a Luigi Longo: http://www.radio3.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-51ad3229-9c66-4388-8f21-4d5263fb6295.html#]
Con l’arrivo delle truppe Alleate, dunque, si procede a uno sforzo congiunto per la disfatta delle ultime forze nemiche. Vengono stesi piani dettagliati per entrare nelle città, per salvaguardare le fabbriche e gli impianti, per impedire la fuga dei nazifascisti. L’insurrezione avrà inizio il 24 e il 25 aprile nelle grandi città del Nord.
La lotta per la Liberazione si chiude con la vittoria, ma sul campo restano un numero altissimo di vittime: “45mila partigiani uccisi – scrive Giorgio Bocca in Storia dell’Italia partigiana, – ventimila mutilati e invalidi, 10 mila civili massacrati dalle rappresaglie nazifasciste” (p. 15).
Ai reparti garibaldini si dovrà riconoscere un ruolo centrale nelle azioni militari. Altissimo il numero di perdite in vite umane.
Perché la Brigata Garibaldi è la più numerosa. Creata a metà ottobre del ’43, è guidata militarmente da Luigi Longo e da Pietro Secchia come commissario politico. Sono, infatti, formazioni in cui l’aspetto politico risulta determinante: “Non esisteva una separazione netta tra direzione del Pci e Comando generale delle brigate Garibaldi”, dice Pietro Secchia in Il partito comunista italiano e la guerra di Liberazione 1943-1945. Ricordi, documenti inediti e testimonianze (p. 109).
Qual era la strategia di base? Un attacco continuo e sistematico, un “assalto” mirato ad accrescere l’idea che “dalla lotta e dall’esperienza sorgeranno i migliori quadri di combattenti contro i tedeschi, contro i fascisti” (Pietro Secchia, Il partito comunista italiano e la guerra di Liberazione, p. 181-200). Un esercito molto ben inquadrato che saprà difendere la propria organizzazione interna. In base a questa, infatti, a differenza di altre formazioni, verranno accolti tutti i giovani desiderosi di partecipare alla lotta, benché privi di armi. Le armi, questi giovani, se le sarebbero conquistate.
Nel novembre 1943, come riporta Roberto Battaglia in Storia della Resistenza italiana, lo stesso Secchia in un articolo sulla rivista del PCI La nostra lotta precisava il disegno politico-militare adottato dalla Brigata Garibaldi: un’azione militare immediata per “abbreviare la guerra”, ridurre i tempi dell’occupazione tedesca risparmiando le popolazioni e i villaggi. Dimostrare agli alleati la volontà del popolo italiano di lottare per la propria liberazione e per la democrazia. Contrastare la politica del terrore nazifascista e renderne insicura l’occupazione. Stimolare, mediante l’azione concreta, la crescita dell’organizzazione e della lotta partigiana (pp. 168-170). Così ben vengano nuovi giovani da arruolare e coinvolgere nella battaglia sia politica, di affermazione delle idee del partito, che militare.
Tre le direttrici fondamentali della lotta armata: la costituzione, a partire dalle cellule comuniste già attive nelle città, di una rete di staffette con il compito di collegare i nuclei di militanti nelle varie zone, di rafforzare i collegamenti ed attuare concretamente la lotta partigiana. La formazione di un nucleo di ispettori, nelle varie regioni, con il compito di controllare l’attività partigiana delle brigate e di sviluppare l’attività politico-militare dei militanti. Infine, il decentramento dei membri del comando generale, in modo che mentre il vertice rimane in clandestinità a Milano, in ogni regione viene organizzata una delegazione distaccata guidata da un membro del comando con ampi poteri decisionali [Cfr. E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, p. 431]
Alla guida delle brigate Garibaldi, che sono numerosissime in tutta Italia, si pongono personalità dotate di grandi qualità di comando, capaci di mantenere la coesione dei reparti e l’alto valore militare. Combattono nelle Garibaldi, a volte anche senza condividerne gli ideali politici, perché sono le organizzazioni più efficienti. Meglio loro, che bande di scarsa affidabilità.
Come riporta Giorgio Bocca, i raggruppamenti più famosi, combattivi ed efficienti, sono quelli di Vincenzo Moscatelli “Cino” e Eraldo Gastone “Ciro” nella zona libera della Valsesia; di Pompeo Colajanni “Barbato”, Vincenzo Modica “Petralia” e Giovanni Latilla “Nanni” nella valle Po e nelle Langhe; di Francesco Moranini “Gemisto” nel Biellese; di Mario Ricci “Armando” nel Modenese; di Arrigo Boldrini “Bulow” nella Romagna [G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana].
Si canta nelle brigate, come si diceva. Perché le canzoni sono straordinari strumenti di comunicazione. Servono a veicolare storie, eventi, momenti decisivi che vedono i partigiani protagonisti. Servono a diffondere ideali, convinzioni, ma soprattutto ad accrescere il sentimento di unità e di fratellanza tra i giovani impegnati in battaglia. Questi canti sono classificabili in varie tipologie, come rileva Gioachino Lanotte in Cantalo forte. Alcuni esaltano lo spirito patriottico e inneggiano alla fine della dominazione straniera sull’Italia. Altri raccontano la Resistenza come dolorosa guerra civile e fratricida, che mette l’un contro l’altro gli abitanti di una stessa nazione. Altri ancora, invece, interpretano la Resistenza come una guerra di classe. Le canzoni sono anche occasioni di propaganda, per accrescere proselitismo nelle fabbriche, nelle campagne, organizzando scioperi e manifestazioni. Una lotta di classe resa possibile dalla presenza di una neonata classe operaia e lavoratrice.
A questo gruppo di canti appartiene La Brigata Garibaldi, inno delle omonime formazioni partigiane.
Gioachino Lanotte, rifacendosi alle ricerche di Antonio Virgilio Savona e di Michele Luciano Straniero in Canti della Resistenza italiana, colloca l’origine di questo canto in Emilia Romagna e precisamente sui monti presso Castagneto di Ramisèto (Reggio Emilia), tra la fine di marzo e i primi di aprile 1944. Come confermano Gianfranco Ginestri e Janna Carioli in Canzoniere ribelle dell’Emilia Romagna, le parole della canzone sono opera di partigiani reggiani della divisione Aristide guidati da Mario Bisi e Rinaldo Pellicciara, ispiratisi all’aria di una marcia militare.
La partitura, infatti, prevede un andamento ritmico a “tempo di marcia”, tipico delle composizioni nate per accompagnare l’incedere di gruppi come, appunto, reparti militari. “Il ritmo baldanzoso del canto – dicono Ginestri e Carioli – lo fece ben preso diffondere tra la gioventù che si arruolò, in quei mesi, nelle formazioni militari antifasciste” (p.19).
Il canto trova da subito vasta diffusione e viene adottato, nella zona, come inno ufficiale delle brigate Garibaldi.
La ritmica molto scandita e l’impostazione musicale del pezzo lasciano pensare che alla base vi sia una canzone militare ottocentesca. È certo, inoltre, che il motivo sia stato intonato dai fascisti durante la Guerra di Spagna con altre parole: “E se la Russia spedisce i suoi cannoni/ la nostra fede li distruggerà [Cfr. Savona, Straniero, Canti della Resistenza italiana, p. 86].
Il testo, poi, diventerà:
Libertà…sì! Libertà…sì!/Noi siamo i partigian!
Fate largo cha passa /la Brigata Garibaldi/ la più bella la più forte /la più forte cha ci sia
fate largo quando passa /il nemico fugge allor /siam fieri siam forti /per scacciare l’invasor
Abbiam la giovinezza in cuor /simbolo di vittoria /andiamo sempre forte /e siamo pieni di gloria
la stella rossa in fronte /la libertà portiamo /ai popoli oppressi /la libertà noi porterem
Fate largo che passa /la Brigata Garibaldi /la più bella la più forte /la più forte che ci sia
fate largo quando passa /il nemico fugge allor /siam fieri siam forti /per scacciare l’invasor
Con la mitraglia fissa /e con le bombe a mano /ai traditor fascisti /gliela farem pagare
noi lottiam per l’Italia /pel popolo ideale /pel popolo italiano /noi sempre lotterem
Abbiam la giovinezza in cuor /simbolo di vittoria /andiamo sempre forte /e siamo pieni di gloria
la stella rossa in fronte /la libertà portiamo /ai popoli oppressi /la libertà noi porterem
Il testo presenta diversi elementi che ne rivelano il progetto politico sottostante: “La stella rossa in fronte”, cioè sui copricapi, elemento esteriore di riconoscimento e di affermazione politica, insieme al fazzoletto rosso al collo e agli emblemi con falce e martello.
Ma il canto richiama anche il tema dell’aspirazione a diffondere la libertà tra i popoli, dell’essere strumento di civilizzazione e di cambiamento per i Paesi dominati da un oppressore. Chi lo intona a piena voce manifesta la totale adesione a questi valori:
«Non si può barare con i sentimenti – dice Roberto Battaglia –: ed è anche questo un modo di rendersi conto come il popolo italiano non abbia mai accettato la dittatura fascista […], le abbia sempre negato quel consenso, quell’adesione che si ritrovano invece commosse e incondizionate nelle canzoni della “sua” guerra, la lotta di liberazione».
Le canzoni che hanno raccontato questa lotta, infatti, non sono mai state dimenticate. Tra queste vi è La Brigata Garibaldi. Ben presente nel repertorio di Giovanna Daffini.
[Per un approfondimento su Giovanna Daffini http://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/d-come-donna-come-dignita-come-daffini/]
Giovanna la interpreta accompagnata dal violino suonato dal marito Vittorio Carpi. La incidono nell’album Canti della resistenza italiana n.2, a cura di Gianni Bosio e Roberto Leydi, Modena, 6 giugno 1963, etichetta Dischi del Sole.
La sua esecuzione “costituisce un esempio interessante – precisano le note al disco – di sopravvivenza nell’uso di una funzione diversa, di un documento del repertorio resistenziale”. La Daffini, infatti, accompagnandosi con la chitarra e con il suono del violino, diffonde questo canto lungo i diversi paesi dell’Emilia, nel Reggiano, nel Modenese e proseguendo nel Mantovano, esibendosi nelle feste di piazza, nelle osterie, nei popolari luoghi di ritrovo o durante le cerimonie, aggiungendo alla melodia il tocco struggente e lirico del violino e la particolarità della sua voce folk e naturale. “Più d’una volta – precisano le note – [la coppia] ha intonato La Brigata Garibaldi sulla tomba di un ex-partigiano. In questa funzione tengono il posto di una banda”.
“La canzone partigiana che qui presentiamo in un’esecuzione singolare e di notevole valore documentario – aggiungono, poi, le note del disco della Daffini – è considerata l’inno quasi ufficiale delle brigate garibaldine della provincia di Reggio Emilia. La melodia è la stessa di una canzone fascista che fu cantata (anche) nella guerra di Spagna […], ma il colore è vivo e di carattere risorgimentale. Si potrebbe pensare, anche se non abbiamo le prove, che il tema sia di discendenza ottocentesca e garibaldina”.
Non è difficile, infatti, ravvisare una qualche associazione a canti come Inno di Garibaldi (1858, autore Luigi Mercantini e musiche di Alessio Olivieri)
o a cori verdiani, tra cui il celebre Si ridesti il Leon di Castiglia dall’opera Ernani (1844) in cui Verdi mette in scena i temi risorgimentali della lotta contro lo straniero e della libertà di un popolo oppresso.
https://www.youtube.com/watch?v=tvBdm1W_GmQ
Venendo a tempi più recenti, più folk e rock è la versione del gruppo combat folk marchigiano Gang che registra La Brigata Garibaldi in La rossa primavera, album pubblicato nel 2011 e dedicato alla Resistenza.
L’inno, poi, non manca di essere tra quelli più riproposti da voci soliste, cori partigiani e corali di ogni dove, con accompagnamenti di semplici chitarre, come quello del cantautore Pardo Fornaciari, di bande o di intere orchestre.
Ci sono versioni con voci armonizzate e coro misto
o a una sola potente voce di coro maschile.
Oppure c’è quella trascinante del Coro Partigiano Triestino TPPZ “Pinko Tomažič”
e quella delicata della cantautrice Valentina Facchini nell’album Resistenti incanti.
https://www.youtube.com/watch?v=QQc1zz6U_N4
Quella folk dei Folkin’ Po, della bassa Reggiana e quella dei bergamaschi Rataplan.
La cantautrice Gabriella Gabrielli e il musicista e compositore sloveno Vlado Kreslin ne propongono una originale e intensa versione tzigana.
Cantato, suonato, reinterpretato, il canto non smette di emozionare. Perché è testimonianza di uno spirito vitale e volitivo, di uno slancio luminoso e certo verso ideali altissimi. Quelli che hanno fatto di una brigata di giovani una generazione di eroi.
“Ad un certo punto – racconta il partigiano Carlo Domenech – noi giovani sentiamo la necessità di creare qualcosa che riguardi noi e tutti quanti i giovani della nostra generazione, esaltante la Resistenza ed aderente alla realtà della lotta che conduciamo. Sarà la nostra storia e traccerà le dure vicende della vita partigiana e gli ideali che la sostengono” (Cesare Bermani introduzione ai cd Pietà l’è morta – Canti della Resistenza in Italia).
Quella storia è scritta anche nelle canzoni partigiane.
Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato lunedì 19 Dicembre 2016
Stampato il 13/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/fate-largo-che-passa-la-brigata-garibaldi/