Sinéad O’Connor. La grande artista è morta a 56 anni il 26 luglio 2023

Iconica, nella sua gonna tutù di taffetà nero, le Dr. Martens ai piedi, la testa rasata, un contrasto tra il maschile e il femminile mai così riuscito, Sinéad O’Connor ha cantato se stessa, le tragedie personali, le sue emozioni, la sua vita. Con onestà e verità spesso brutali. Ma si è spesa anche per tante cause collettive, di solidarietà al Cile, al Nicaragua, Paesi che subirono dittature. A favore di soggetti fragili: bambini, donne, disabili, malati di Aids. Contro la guerra in Iraq, contro ogni prevaricazione. “Mi adopero per tutti i bambini abusati e tutte le donne e tutte le persone che sono state duramente oppresse”, riporta le parole della O’Connor, Allison McCabe nel recente volume Why Sinéad O’Connor matters. Perennemente in conflitto con se stessa, con il passato turbolento, con lo showbiz e la stampa sempre più interessata al pettegolezzo che alla sua musica, Sinéad O’Connor, mancata a cinquantasei anni il 26 luglio 2023, è però anche interprete incomparabile della canzone tradizionale del suo Paese. Ne ha incarnato i miti, le leggende, facendone conoscere ai giovani di tutto il mondo, i canti di lotta e di protesta. Le dominazioni, le ribellioni, le battaglie per l’indipendenza che si sono impresse indiscutibilmente nella sua voce, la voce femminile dell’Irlanda.

Irlanda

Irlanda, terra amata e al contempo odiata, di cui ha contrastato le posizioni più conservatrici e reazionarie, parteggiando per la libertà e il riconoscimento dei diritti civili. “Troverei difficile andare in scena dopo l’inno nazionale dell’Irlanda – ha affermato in un’intervista al Late Show nel 1990, raccolta nella biografia di Dermott Hayes – dato che come donna irlandese non ho il diritto di abortire e non mi è consentito divorziare, né mi è permesso di gestire il mio corpo per quanto riguarda la contraccezione. Si tratta di una violazione dei miei diritti di essere umano” (Dermott Hayes, Sinéad O’Connor. Così diversa). Il padre della O’Connor, avvocato, sarà tra i richiedenti una proposta di legge a favore del divorzio che diverrà legale nel novembre del 1995, a seguito di un referendum e una campagna per il sì che vedrà protagonista proprio la O’Connor insieme ad artisti come Bono Vox.

Sinéad Marie Bernadette O’Connor, figura enigmatica e anticonvenzionale, che ha fatto dell’arte e della vita una simbiosi, era nata in una famiglia profondamente cattolica, l’8 dicembre, giorno della celebrazione dell’Immacolata Concezione. Non si possono tacere le relazioni familiari che hanno pesantemente influito sulla sua vita. Come anche l’educazione scolastica ricevuta, con le oppressioni del sistema di istruzione cattolica. Nel bene e nel male, materiale per le sue canzoni.

Una veduta di Dublino

La madre Marie O’Connor e il padre, John O’Connor, si sposano nel 1960 e si stabiliscono a Crumlin, Dublino, dove erano cresciuti. Dopo tre anni nasce Joe e la famiglia si sposta nel quartiere middle class di Glenageary. Nel 1965 viene al mondo Èimear. Dopo quattordici mesi, nel 1966, è la volta di Sinéad e per ultimo, nel 1968, il fratello John. Nel 1975 i due coniugi si separano e i fratelli più grandi vanno a vivere con il padre e la sua nuova compagna Viola. Sinéad, che ha nove anni, e il fratello più piccolo, John, restano con la madre. Sinéad fino all’età di tredici anni, per poi trasferirsi dal padre acquisendo tre sorelle, figlie di Viola, e il fratello Eoin, nato dalla coppia. Rimarrà molto poco in questa famiglia allargata.

Il divorzio è un primo spartiacque. Prima di questo trauma c’è un’infanzia abitata dalla musica, già àncora di salvezza. Nella casa dei nonni materni esiste un pianoforte con i tasti bianchi sbiaditi. Sembra stregato, sussurra qualcosa quando la bambina si avvicina, le dice di mettere l’orecchio contro la sua pancia di legno. Poi di abbassare qualche tasto. Allora ecco una miriade di suoni uscire tutti insieme, un coro di voci. Le dicono di continuare ad abbassare i tasti, e svegliare, così, i fantasmi che dormono nel pianoforte. I fantasmi sono tutto ciò che le persone non vogliono ricordare – scrive la O’Connor nell’autobiografia Rememberings – ma è con la musica che escono fuori. Anche i ricordi più terribili.

Il nonno paterno ha una gabbia per piccioni domestici. Forse uno di loro potrebbe portare un messaggio per lei: Ciao Dio, sono Scamp. Scamp significa monella, perché lei è la più squinternata dei nipoti. Dio è ciò che le hanno insegnato di pregare.

Il cantante Elvis Presley

Il 16 agosto 1977 muore Elvis Presley. Elvis è un padre che se ne è andato improvvisamente e ora ne servirà un altro. Una nuova voce, la sconvolge. La sente per la prima volta dal disco che suo fratello Joe sta facendo suonare. È quella di Bob Dylan. Lo ha soprannominato Lebanon Man. È come se Dio, soffiandogli addosso il vento caldo del Libano, avesse infuso la vita in questo uomo dalla voce suadente. Bob è perfino meglio di Elvis. La sua voce le risuona in testa per tutto il tempo in cui sua madre la massacra di ginocchiate nello stomaco.

Di sua madre sappiamo che era sarta prima di sposarsi, ma in Irlanda – racconta la O’Connor – non si lavora più se si è una donna sposata. Aveva una grande collezione di dischi che faceva suonare in casa: John Lennon, Johnny Cash, il Porgy and Bess di Ella Fitzgerald e Louis Armstrong, Bridge over troubled water di Simon and Garfunkel. E poi Lou Reed, Van Morrison, Velvet Underground, Frank Sinatra, Donovan e Otis Redding. Ma a volte, spariva la musica e con lei anche Marie O’Connor.

La ragazzina è in viaggio a Lourdes dove, con la nonna, accompagna la madre per tentare il miracolo della guarigione. Lei, che porta il nome della santa alla quale proprio lì apparve la Madonna, sente il peso di questa missione. Ma non c’è nulla che si possa fare per la donna. Un prete le consiglia di andarsene di casa il prima possibile.

Alla scuola primaria gestita dalle suore, Sinéad è una bambina problematica, ha il vizio di rubare soldi, cibo, ogni cosa. Spesso si presenta con gli occhi neri e i lividi sul corpo. Sorella Clothilde la conduce regolarmente in cappella perché preghi e chieda perdono.

Lo stato di salute mentale della madre peggiora di giorno in giorno, dopo il fallimento del matrimonio. Quando le scuole finiscono la ragazzina deve nascondere il suo bastone da hockey perché, se lo portasse a casa, sua madre la colpirebbe con quello per l’intera estate. Ma lei usa il battitappeto. “Mi fa togliere tutti i vestiti e stendere sul pavimento – racconta la O’Connor – con le gambe e le braccia aperte e mi colpisce alle parti intime. Mi fa ripetere di continuo: Io sono niente. Se non lo dico, non smette di calpestarmi, gridandomi che brucerà il mio grembo.”

Dirà la O’Connor, in successive interviste, che sua madre avrebbe voluto un figlio maschio e si accaniva su di lei nelle parti intime, per l’odio che aveva verso il suo sesso.

Diversi sono i momenti di angoscia che l’artista rivive nella sua autobiografia: “Quando sono spaventata – racconta – cerco della carta e scrivo perché non mi è permesso dire a mia madre che sono arrabbiata. Allora scrivo e poi faccio la carta a pezzettini e li ingoio così lei non li troverà mai. Una volta scrissi a Dio: Per favore, aiutami”. Chiede aiuto a Dio, ma è il padre che arriva in soccorso. Una notte deve buttare giù la porta della stanza dove sua madre l’ha segregata. Sconvolto da tutto il sangue che ricopre il volto di sua figlia.

L’adolescenza è un periodo turbolento, ribelle e solitario, in cui nessuno sembra realmente prendersi cura di lei. A tredici anni, fingendo di averne sedici, trova lavoro in un nightclub. A quattordici, fingendosi maggiorenne perde la verginità con un ragazzo americano appena conosciuto in un locale.

Ruba nei negozi, scappa da scuola, così suo padre la spedisce a An Grianán, un riformatorio gestito da suore. Ci sono tante ragazze che hanno problemi mentali, caratteriali, familiari. Una di queste partorisce un bambino. Sinéad adora prenderlo in braccio e coccolarlo. Ma un giorno il neonato viene strappato dalle braccia della madre e portato via. Qualcuno le dice che in Irlanda non si può tenere un bambino se si ha meno di diciotto anni e non si è sposata.

Detesta la condizione di restrizioni e di rigidità che le viene imposta. Di buono c’è che le ragazze sono invitate a esprimersi cantando o imparando a suonare la chitarra. Come psicologa ci lavora Jeannette Byrne che usa la musica per coinvolgere le giovani del centro.

“Sinéad era speciale – racconta la Byrne nel libro di Dermott Hayes – aveva subito parecchi eventi traumatici dai quali aveva imparato a rimanere a galla e traeva profitto da ogni esperienza dolorosa (…). Lei riusciva a far fronte ai problemi, sapeva il fatto suo”. Descritta come studentessa brillante benché pigra, una sostenitrice degli oppressi con opinioni nette sulle questioni sociali, in poco tempo impara a suonare la chitarra e a comporre canzoni.

Quando la psicologa si sposa chiede alle suore che le ragazze possano uscire dall’istituto e cantare durante la cerimonia. E a Sinéad di esibirsi in un assolo, intonando Evergreen.

La sente il fratello Paul, batterista della rock band irlandese In Tua Nua che ben presto le propone di collaborare. Così, con il permesso delle suore, Sinéad può uscire per registrare un pezzo suo, Take my hand, parte di un demo da presentare ai discografici. La band si decide a fare sul serio. È agli esordi, ma Dublino in quegli anni è una città musicalmente in fermento. Bono Vox, che li conosce, incoraggia i loro tentativi. Sinéad vuole fare parte del gruppo, ma le dicono che ha solo quindici anni e deve tornare a scuola. Gli In Tua Nua pubblicano con la Mother Records, proprietà degli U2. Il pezzo di Sinéad finirà cantato da Leslie Downdall. Era la traccia migliore. La sua versione demo:

Tempo di scuola. Nel 1983 suo padre la iscrive alla Newtown School, un collegio esclusivo, nella città di Wasterline, per evitarle di commettere furti o reati anche più gravi, e soprattutto affinché completi la sua formazione fuori dalla rigida educazione cattolica dei conventi irlandesi diretti dalle suore. Un’educazione basata su un sistema repressivo intriso della nozione di peccato e di senso di colpa, instillati soprattutto nelle ragazze. La Newton, invece, è una scuola interconfessionale, aperta a cattolici, metodisti, presbiteriani, battisti. È gestita dagli insegnanti e l’atmosfera è tutt’altro che coercitiva. Qui è fondamentale l’incontro con il professore di gaelico Joe Falvey che riconosce il talento di Sinéad, dopo aver letto alcuni suoi testi. Tramite una serie di vecchie amicizie e il fratello Noel, tastierista, riesce a organizzare una sessione di registrazioni per un demo di quattro canzoni, tra cui Drink before the war, da inviare al Tipperary Peace Festival, poi l’originale Just like it would B (che finiranno nel primo album The lion and the cobra), e due cover, Simply twist of fate di Bob Dylan e il brano folk Black is the colour, diventato con Nina Simone inno per i diritti civili, che la O’Connor riproporrà in diversi live.

Le viene proposto di esibirsi in un club, il T&H Dolan’s, con una band di supporto. Appena inizia a cantare il pubblico si ammutolisce. La giovane si convince a fare della musica la propria ragione di vita. Da un annuncio su Hot Press trova un bassista, Columb Farrelly con cui, insieme a Eammon Galvin e Kevin O’Byrne, forma i Ton Ton Macoute. Sulle riviste musicali si parla di una stella nascente. La band si delinea musicalmente con l’ingresso di Ashley Dweiss, suonatore di cetra. Il complesso si sposta a Wasterline per essere vicino a Sinéad che deve concludere la scuola, sostenere l’esame finale. Nonostante le pressioni del padre con cui resterà sempre in conflitto, abbandonerà il proposito di diplomarsi, per accogliere definitivamente la musica.

L’incontro importante è con Kieran Owens, manager e promoter. La sente cantare alla Trinity Junior Common Room: riconosce una voce incredibile e un’immagine accattivante che si staglia netta: “Pareva assolutamente indifesa, con i capelli tagliati corti, ma non come li avrebbe adottati in seguito. Continuavo a chiedermi come fosse possibile che una voce così potente e sconvolgente scaturisse da un esserino dall’aspetto tanto fragile. Era letteralmente pelle e ossa, e tuttavia attraente da stordire. Aveva una voce potentissima”. È anche grazie a lui che il destino della O’Connor fa una virata decisa: Nigel Grainge e Chris Hill della londinese Ensign Records sono interessati a promuovere la migliore musica irlandese e le offrono un contratto. “La sua voce era rara – dicono –; a volte era una sorta di purissima vocina folk, altre si trasformava in un lamento banshee scaturito da profondità remote”. (Dermott Hayes).

Ma il destino, come in un flashback, la catapulta nel suo passato di dolore e impotenza.

Il 10 febbraio 1985, mentre si sta recando in chiesa per la messa domenicale, sua madre perde la vita in un incidente stradale. Sinéad non parlava con lei da almeno due anni. Gli anni dei vorticosi cambiamenti. Ci aveva provato a riconciliarsi poco prima: era arrivata, non vista, fino al soggiorno della sua abitazione per trovarla intenta a guardare la televisione con il suo fratellino, senza accorgersi di lei. Se ne era andata, sentendosi un’estranea.

In macchina quella mattina c’è anche il fratello minore John che viene trasportato in ospedale dove gli viene comunicato della morte della madre. L’eredità della donna, destinata proprio al sedicenne, provoca uno scontro feroce tra lui e il padre. Marie O’Connor era morta, ma la guerra in famiglia continuava. Generava rancori, astio, sofferenza. Ai quattro figli il padre impartisce istruzioni per il funerale, come acquistare il vestito che la madre avrebbe indossato per la cremazione. A casa – racconta la O’Connor – trovano scatole di biscotti imbevuti di Valium, ne abusava di continuo, montagne di bottiglie dello psicofarmaco stavano lì a testimonianza.

La morte della madre è il secondo trauma. Al funerale in tanti si presentano a stringerle la mano, fare le condoglianze. Persone che non sono mai state presenti quando sua madre era viva. O’Connor ricorda quanto fosse devastante la rabbia che aveva in corpo. Niente sarebbe stato più lo stesso, avrebbe distrutto la sua vita, avrebbe fumato montagne di sigarette fino a morirci. Ma poi reagisce diversamente. Meglio andare via da Dublino, lasciarsi alle spalle quel dolore e tentare di ricostruire una nuova vita a Londra. Da sola, con le sue canzoni. Finiranno nel primo album, The lion and the cobra, inciso per la Ensign Records.

“Il giorno che ho lasciato l’Irlanda per alcune settimane precedenti alla firma del contratto, Pete Townshend era sul mio aereo – racconta la O’Connor –. Era seduto davanti a me. Ho interpretato la presenza di Townshend come il segno che avevo scelto il giusto sentiero. Odiavo l’Irlanda. Ogni cosa mi ricordava mia madre”.

L’album a cui lavora a Londra contiene canzoni molto potenti con rimandi al vissuto familiare. Ci sono Drink before the war,

Just like U said it would B, versione live del 1987

Jerusalem

dal vivo dal dvd The year of the horse

https://www.youtube.com/watch?v=VCm47Vo2vrg

mentre Never get old, preghiera tratta dal Salmo 91, il cui testo in gaelico è recitato dalla voce di Enya, è anche un canto di riscatto e di ritorno alla vita: Perché agli angeli suoi ha dato ordini per te/che ti custodiscano in tutte le tue vie. /Sulle mani ti porteranno/che tu non abbia a urtare nel sasso col tuo piede./Sull’aspide e il basilisco camminerai/ e calpesterai il leone e il drago!

Come la cruda e primordiale Troy, canzone autobiografica sulla fine di relazioni affettive e sulla rinascita che si materializza nelle due immagini epiche del fuoco che, da una parte brucia la città di Troia, dall’altra è la materia da cui si può risorgere, come la fenice.

Versione live del 1988.

Ma c’è anche il forte legame con la sua terra, nell’interpretazione di She moved through the fair, ballata irlandese resa popolare da Van Morrison. Live del 1997.

Nigel Grainge, direttore dell’etichetta discografica e il manager Fachtna O’Ceallaigh, seguono da vicino la giovane che presto si rivelerà straordinaria esordiente. Con loro il discografico Chris Hill, che fa pressioni affinché l’artista si presenti con un’immagine più femminile, che indossi pantaloncini corti, orecchini, collane. Tutto l’armamentario dello stereotipo femminile confezionato per attrarre e affascinare torve di maschi.

Dovresti rasarti a zero, le suggerisce, invece, O’Ceallaigh. Il giorno dopo la O’Connor è dal barbiere. “Voglio sembrare un ragazzo”, ordina. “Ero un alieno”, commenterà poi. Mentre Hill le chiede cosa diavolo avesse combinato, lei gli risponde semplicemente di voler essere se stessa. E dunque di non aver bisogno dei capelli e di nessun altro orpello.

Ma un altro fatto sconvolge l’uscita del disco. Durante le registrazioni la O’Connor rimane incinta del batterista John Reynolds. È felicissima. Il ginecologo a cui viene mandata per essere seguita, però, la informa che il suo discografico ha speso centinaia di pounds per il suo album. Sarebbe meglio che lei non avesse quel bambino. Se lei, per esempio, prendesse un aereo il bambino avrebbe un danno. Se lei, poi, volesse diventare una musicista di professione dovrebbe abbandonare il suo bambino per andare in tour. Il bambino nasce al John Radcliffe Hospital a Oxford. Viene chiamato Jake. La O’Connor ha vent’anni, e un disco d’esordio da promuovere, praticamente autoprodotto. Un grande aiuto le arriva da O’Ceallaigh. Interviste, viaggi, conferenze stampa, tutto è orchestrato da lui. “Io non so chi siano tutte queste persone che sto incontrando – racconta la O’Connor –. Non so in quale città siamo. Faccio tutto quello che Fachtna mi dice di fare”.

Il disco, nato con ardore e sofferenza, arriva ai primi posti delle classifiche britanniche, pur essendo totalmente estraneo, per il crudo realismo, al mondo musicale del momento. Colpisce anche per l’aggressiva immagine di copertina: un ritratto dell’artista a mezzo busto presa in un movimento serpentino. Più pacifica l’immagine scelta dalla Chrysalis che ha appena assorbito la Ensign negli Stati Uniti dove il disco gira nelle radio universitarie. Non è tanto l’immagine, però, a iscriverla immediatamente nel registro dei sovversivi, a Londra, quanto alcune affermazioni provocatorie, poi smentite, di sostegno all’Ira. L’Ira era la formazione terroristica nata nel 1919 come Esercito Repubblicano Irlandese che combatté contro le forze britanniche come esercito della Repubblica Irlandese nella Guerra d’indipendenza. Fachtna O’Caellaigh, suo impresario, sostenitore della causa irlandese, aveva certamente influito sulle affermazioni della O’Connor. Ma come negare che la storia di questo Paese non sia stata attraversata da violenza e aggressioni, e scandita da battaglie eroiche, cruente e necessarie combattute in nome di libertà e indipendenza.

Per la prima volta la O’Connor comprende il potere che possiede: avere di fronte una platea a cui comunicare la sua avversione verso qualsiasi forma di ingiustizia. L’album esce nel 1988 e l’anno dopo riceve la nomination per i Grammy Award negli Stati Uniti. Non vince, ma la sua partecipazione alla serata rimane memorabile. Canta Mandinka in playback con in vista il logo dei Public Enemy sui capelli rasati. Canzone contro la schiavitù delle popolazioni africane, diventa anche una protesta contro la censura della stampa e le radio americane nei confronti di band musicali che affrontavano temi spinosi. Allyson McCabe, in Why Sinéad O’Connor matters, racconta quanto l’artista irlandese apprezzasse i Public Enemy proprio per il coraggio di portare in primo piano temi forti come il razzismo negli Stati Uniti, la lotta di classe, le discriminazioni verso le categorie più fragili.

La O’Connor si sposa con John Reynolds, mentre il manager Fachtna O’ Ceallaigh è costretto a interrompere la collaborazione, non prima di darle un ultimo suggerimento. Quello di interpretare una oscura e apparentemente modesta composizione di Prince intitolata Nothing compares 2U. Canzone che finirà nel secondo album I do not want what I haven’t got (1990). Prince l’aveva scritta qualche anno prima senza troppo impegno per il gruppo Family che l’avevano pubblicata nel loro unico disco.

Grazie all’arrangiamento di Nellee Hopper e dei Soul II Soul e con la voce della O’Connor, il brano è completamente trasfigurato, fino a spingersi nell’espressione più profonda del dolore e della malinconia più struggente. È un trionfo forse inaspettato che lancia l’interprete nell’Olimpo della fama mondiale, prima in classifica in diciassette Paesi. Al successo del pezzo contribuisce il video girato da John Maybury che risulterà vincitore di tre MTV Award. Impressiona la capacità di O’Connor di sostenere lo sguardo della telecamera. Quello sguardo, il viso e una lacrima, unici soggetti in scena, mentre le parole di perdono I’m willing to give it another try sono forse rivolte alla madre. “La prima grande canzone d’amore degli anni Novanta”, oppure “La prima grande superstar del nuovo decennio” titolano i giornali.

Versione dal vivo

L’album è un resoconto di vita che mette ordine tra i tanti eventi degli ultimi tumultuosi anni. The last day of our aquaintance affronta il tema di una separazione dolorosa, forse da O’ Ceallaigh, forse dalla famiglia; (dal vivo a Rotterdam nel 1990)

una ricerca di se stessa e della propria diversità si fissa in Feel so different (Forest Nation, Brussels, 1990).

Straordinario il traditional I am streatched on your grave, traduzione in inglese di un poema gaelico del XII secolo, musicato dal leader del gruppo folk irlandese, Scullion. Ha per tema l’amore oltre la morte: la donna che si distende sulla tomba dell’amante e continua a sentirne la presenza, come fosse ancora vivo. La O’Connor la interpreta rispettando lo stile di canto irlandese a cappella, detto shan nose, ovvero “vecchio stile o modo” (Dermott Hayes). Che mescola con l’hip hop, creando un mix di antico e moderno, una musica totalmente inedita.

In questo album anche Three babies, ode alla maternità, all’orgoglio di concepire la vita, l’amore per i suoi figli. O’Connor sarà madre di quattro bambini.

Il disco le apre la strada a una tournée mondiale che ha tra le tappe, il Glastonbury Festival e il Royal Albert Hall di Londra. Nel 1991 ottiene quattro nominations ai Grammy. Nel luglio dello stesso anno O’Connor partecipa all’allestimento berlinese per la versione live di The wall in cui interpreta, con Roger Waters, Mother di John Lennon.

Il 24 agosto al Garden State Parkway di Holmdel, in New Jersey la O’Connor contesta agli organizzatori l’esecuzione dell’inno nazionale americano in apertura del concerto. Di nuovo ritiene il Paese, che impone la censura agli artisti, ipocrita e razzista. Con questo gesto verrà bandita da una serie di sale da concerti, i suoi pezzi cancellati da numerose radio, le sue dichiarazioni anticensura tramutate in affermazioni di odio contro gli Stati Uniti. Si chiarirà che fu un complotto. La giovane irlandese appariva sempre più disturbante.

Si trasferisce in California e partecipa al progetto Red, hot and blue, album di canzoni di Cole Porter, finalizzato alla raccolta fondi per la ricerca sull’Aids. La sua versione di You do something to me è tra i risultati migliori della raccolta.

Le azioni di impegno a favore di cause collettive la vedono coinvolta su vari fronti: dalla critica all’intervento armato occidentale contro l’Iraq, alla eccessiva commercialità dell’arte (tanto da rinunciare a partecipare alla cerimonia dei Grammy Award nel 1991) fino al sostegno ai profughi curdi, per cui incide My special child.

Il singolo Irish ways and irish laws, per il Natale di quell’anno, la riporta alle sue radici, e la fa portavoce delle sofferenze patite per secoli dagli irlandesi per opera dei diversi invasori, dai sassoni, ai vichinghi agli inglesi. In quel momento, benché dipinta ormai come anti americana, problematica, aggressiva, nessuno poteva negare la grazia e la forza della sua voce nell’esibizione del traditional irlandese. Versione live al Forest National, Brussels.

Partecipa a un concerto organizzato da Amnesty International in Cile nello stadio nazionale di Santiago, per celebrare il ritorno alla democrazia. Insieme a Peter Gabriel canta Don’t give up.

Le sue proteste si spingono fino a condannare la Chiesa cattolica e con essa Papa Giovanni Paolo II, suo rappresentante. Nell’ottobre del 1992, invitata al Saturday Night Live mentre canta War di Bob Marley compie l’atto sacrilego di strappare davanti alle telecamere la fotografia del pontefice pronunciando la frase: “Combatti il vero nemico”, non prima di aver aggiunto una strofa sugli abusi sessuali subiti dai bambini. War, di Bob Marley, non una canzone a caso. Le parole derivano dal discorso dell’imperatore etiope Hailé Selassié all’Onu nel 1963. Una preghiera per la pace e il riconoscimento dell’uguaglianza tra tutte le razze, classi, nazioni. Non certo della violenza, come quella perpetrata da esponenti della Chiesa cattolica a danno di bambini, come recenti indagini avevano fatto emergere. Ci sarà sempre guerra fino a quando non si arriverà a una società egualitaria, a un mondo senza sopraffazioni. Nell’impresa in cui la O’Connor si erge contro razzismo, colonialismo, discriminazione, guerra, abusi infantili, non trova comprensione.

Il grande sconquasso che ne segue la condanna a essere bandita dalla trasmissione e travolta da pesanti critiche che condizioneranno per sempre la sua carriera. Poco dopo, ospite al Madison Square Garden di New York per la celebrazione dei trent’anni di carriera di Bob Dylan, quando sale sul palco per intonare I believe in you è costretta ad abbandonare il palcoscenico sopraffatta dai fischi (ma anche da molti applausi, per la verità), non prima di aver urlato di nuovo qualche frase di War.

Dirà, la O’Connor, di aver voluto colpire quel mondo cattolico depravato. Un ricordo delle pressioni di cui lei stessa fu vittima.

Il gesto, però, non le viene perdonato. Duramente stigmatizzato, in modo più radicale rispetto ad azioni similmente irriverenti condotte dall’artista pop Madonna. Entrambe cresciute in famiglie profondamente cattoliche, dove la madre era mancata presto e il padre aveva imposto una rigida disciplina. Entrambe ricorse alla provocazione e all’immaginario religioso quale ispirazione per le loro canzoni. L’una molto teatrale, l’altra diretta e priva di filtri, forse per questo più sovversiva e irricevibile.

O’Connor torna a Dublino e riprende la sua attività solo nel 1993 partecipando al Dublin Paece Rally evento per raccogliere fondi per i bambini e i rifugiati della guerra in Jugoslavia in cui canta la preghiera di San Francesco d’Assisi, Make me a channel of your peace. Al Late Show del 1993, irriconoscibile, la interpreta a cappella indossando una parrucca con lunghi capelli neri.

Con il pezzo Be still collabora a Peace together, album collettivo a sostegno di un fondo per i giovani dell’Ulster.

Si esibisce, poi ai concerti di Womad, festival di World Music e nuove tendenze fondato da Peter Gabriel. È ospite del compositore britannico nell’ album Us del 1992, con il pezzo Blood of even.

Ma il passato non fa sconti. Le vessazioni, le oppressioni subite hanno lasciato segni indelebili. Nel dicembre di quell’anno tenta di togliersi la vita ingurgitando vodka e sonniferi. La salva Peter Gabriel.

Nel 1994 scrive l’incalzante You made me the thief of your heart che finisce nella colonna sonora del film In the name of the father di Jim Sheridan, dedicato alla vicenda di Gerry Conlon, membro dei cosiddetti Guildford Four, quattro ragazzi che dal 1974 al 1989 trascorsero quindici anni in prigione con la falsa accusa di essere terroristi appartenenti all’Ira. Live a Top of the Pops nel 1994.

Ai Westland Studios di Dublino registra in quell’anno il nuovo album, Universal mother, in un clima di pesante afflizione. Contestata dalla stampa, sempre attenta alle sue vicende personali più che ai suoi progetti musicali, separata dal marito, bandita dalla famiglia, dal padre in particolare che mal sopporta i continui riferimenti alla relazione conflittuale rivangata dalla figlia in canzoni e interviste. È però sostenuta da due produttori di valore, come l’irlandese Phil Coulter e Tim Simenon, molto in voga nella scena britannica.

Tra i temi centrali, quello della fratellanza, espresso dalla voce della scrittrice femminista australiana Germaine Greer che in apertura del disco espone la sua proposta di superamento del conflitto tra i sessi: il contrario del patriarcato non è il matriarcato ma la fratellanza. Compito delle donne è ricercare una possibilità di cooperazione. La tromba di Miles Davis introduce Fire on Babylon, canzone che presenta una situazione opposta a quella auspicata, quella vissuta dalla O’Connor nella tremenda infanzia. Rivive, infatti, la relazione conflittuale con la madre che appare artefice del dramma familiare: “Si è presa mio padre, l’ha tolto dalla mia vita / Si è presa mia sorella e i miei fratelli”. Il fuoco sembra essere l’unica soluzione per liberarsi da ricordi che ancora straziano.

Il video originale

e dal vivo a Top of the Pops nel 1994.

La O’Connor affronta anche attraverso terapia psicologica il vissuto traumatico e la relazione col padre come si coglie dal brano Red football: No, non sono un pallone rosso/ Da prendere a calci in giardino /Sono la pallina rossa di un albero di Natale /Sono fragile (…) / La mia pelle non è il tuo pallone /La mia testa non è il tuo pallone.

Si apprezzano anche la versione per voce e chitarra acustica di All apologies dei Nirvana

e A perfect indian, uno dei testi più riusciti della O’Connor sorretto da una melodia celtica. I due personaggi, l’indiano e la bambina con il vestito giallo, nella ricerca di sé giungono alle acque di un “oceano terribile” dove forse la solitudine e la musica sono l’unico modo per essere liberi.

Scorn not his semplicity affronta il tema della disabilità mentale, un figlio diverso da quello tanto atteso dalla madre.

All babies racconta di bambini che nascono nel nome di Dio e poi vengono catapultati in un mondo in cui quel Dio è dimenticato. Qui la grande madre universale, maschile e femminile insieme, è entità protettrice che conforta e cura.

Famine fa suo il ritornello di Eleanor Rigby, riportando la O’Connor alla sua terra. Il testo prende spunto dalla carestia che si abbatté in Irlanda nel 1847, causando morti e una forte emigrazione verso gli Stati Uniti. Ma la O’Connor reinterpreta il fatto storico: non vi fu alcuna carestia, i prodotti della terra furono sequestrati e inviati in Gran Bretagna secondo una strategia dei dominatori volta a sterminare la popolazione irlandese. Questi fatti avrebbero determinato il carattere arrendevole degli irlandesi, così facili a cadere nell’alcolismo e nella violenza verso i bambini. Il dato storico si fonda con l’esperienza personale: l’Irlanda è un bambino che ha subito violenza e che a sua volta diventa soggetto abusante. La canzone è un grido di protesta, la voce dei popoli dominati, asserviti da dittature, da regimi prevaricanti e violenti che soffocano ogni libertà.

L’album si chiude con Thank you for hearing me, rivolto a qualcuno che le ha dato amore, ascoltandola. L’ascolto, fondamentale conforto.

Ne esce un album molto personale, in cui la O’Connor affronta i traumi e i fantasmi della sua infanzia e adolescenza.

Del 1995 è la collaborazione con i Chieftains, storico gruppo folk irlandese, nell’album The long black veil, dove la O’Connor esprime a pieno la sua specificità vocale attraverso cui incarna l’identità sonora della sua terra. Qui ritroviamo He moved through the fair e soprattutto la leggendaria The foggy dew, scritta dal parroco irlandese Canon Charles O’Neill, sulla “sollevazione di Pasqua” del 1916 con lo scopo di incoraggiare i giovani irlandesi a combattere per la causa del loro Paese, piuttosto che per gli inglesi, come molti giovani stavano facendo durante la prima guerra mondiale. Questo momento di riscatto è considerato uno degli eventi che portarono all’indipendenza dell’Irlanda. La voce della O’Connor fa di questo canto un inno di lotta come nessun’altra avrebbe potuto.

Nel 2002 realizzerà un intero album di traditionals irlandesi, Sean-Nòs Nua assurgendo a simbolo di una terra perennemente in conflitto, abusata e maltrattata, ma combattiva e ribelle. Come lei.

Tra le tracce, il canto in lingua celtica, Óró Sé Do Bheatha ’Bhaile, canto politico in cui l’Irlanda viene accostata a una donna fiera e indomabile che saprà liberarsi dal giogo dei dominatori inglesi.

Molly Malone è un’ode alla fanciulla di Howth, villaggio a nord di Dublino, che secondo un’antica leggenda nascondeva una doppia vita: di giorno venditrice di cozze e vongole lungo le strade della città, di notte prostituta. Morì in giovane età a causa di una non specificata febbre e divenne una figura mitologica. Il canto a lei dedicato è oggi l’inno non ufficiale della città di Dublino. Dal vivo nel 2002.

Paddy’s lament, canto anonimo del 1870, racconta la storia di un irlandese immigrato negli Stati Uniti nel XIX secolo che si trovò coscritto nella guerra civile americana sotto il Generale Lincoln, perdendo la vita. “È la più forte canzone antimilitarista che sia mai stata composta – ha scritto la O’Connor -. Il fantasma dell’uomo che parla attraverso la canzone è così presente che quasi riesco a raggiungerlo e toccarlo” (Dermott Hayes).

The Moorlough Shore, tradizionale canto d’amore sulla cui melodia sono state scritte successivamente le parole di The Foggy Dew.

The parting glass, l’ultimo bicchiere offerto come gesto di ospitalità verso chi è in partenza, è un canto scozzese entrato poi nel repertorio dei traditionals irlandesi.

L’album comprende canti per bambini come I’ll Tell Me Ma, ballate d’amore come Peggy Gordon,

storie di personaggi simbolo dell’Irlanda. Se ne suggerisce l’ascolto per intero.

Ancora nel 1995, sempre attratta dalle cause a sostegno dei minori, in questo caso i bambini bosniaci, partecipa all’album collettivo Help presentano la sua versione di Ode to Billie Joe, canzone su un infanticidio.

This is a rebel song esce come singolo nel 1997. Canzone ribelle perché usa il linguaggio pacifico della comprensione e dell’amore per chiedere ragione agli inglesi delle loro barbarie, le stragi, le uccisioni dei tanti figli d’Irlanda.

Esce insieme a Redemption Song di Bob Marley, preghiera di pace e di libertà.

Nel 2000 esce Faith and courage, una raccolta di canzoni su perdono e redenzione. No man’s woman auspica l’indipendenza delle donne.

Album successivi sono accompagnati da crisi depressive, relazioni sentimentali molto precarie, cambi di nome in Magda Davitt e, dopo la conversione all’Islam nel 2018, in Shuhada’ Sadaqat. Del 2007 è Theology, composto di canzoni spirituali. Intero album:

Lo stesso anno la O’Connor appare allo show di Oprah Winfrey dove confessa la diagnosi di disturbo bipolare che la costringe a debilitanti cure mediche. Teorizza che la violenza subita da bambina a cui si è aggiunta la pressione dei media dopo il suo clamoroso successo, tutto abbia contribuito a deteriorare la sua salute mentale. Tra gli ultimi eventi traumatici della sua vita vi è il suicidio, nel 2022, del figlio diciassettenne Shane.

Cantautrice, interprete, voce di protesta, consapevole che esprimere autenticamente se stessa sarebbe stato dannoso, ma le avrebbe garantito di essere libera, Sinéad O’Connor non è mai stata una intrattenitrice. Le canzoni per lei hanno sempre avuto la funzione di raccontare il suo vissuto, la sua terra, amata e odiata, e di essere antidoto contro le falsità, la depravazione spirituale, la caduta di valori che osservava intorno a sé. Tanto potente nell’immagine e nella vocalità, quanto labile interiormente, incompresa e abbandonata, la sua recente perdita ci richiama all’importanza della comprensione, all’accettazione della fragilità, fedele amica di chi, attraverso l’arte, viaggia in direzione ostinata e contraria.

Un live del 2014.

Il documentario Sinead O’Connor: The Song of Heart’s Desire, la racconta come straordinaria interprete della canzone folk irlandese.

Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi, Edizioni Interno 4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli