Perché la nostra storia? Perché non abbiamo altro da lasciare, la nostra eredità è l’eredità di donne che hanno combattuto e pianto, faticato e sofferto, riso e cantato, comunque hanno vissuto per ciò che oggi sembra così naturale e scontato.
Manifesto del Coro delle Mondine di Novi
«Avevo quattordici anni quando sono andata a fare la mondina la prima volta – dice Silva Manicardi, anno di nascita: 1926 –. Ci ero andata con la promessa di un vestito. Dicevano i miei genitori: se vai là a lavorare quando torni ti regaliamo un vestitino. Ma in dodici anni non è mai arrivato. E sa perché? Quando si arrivava a casa i soldi servivano per la famiglia. Non ho mai pianto, anche se lo stesso vestito l’ho indossato per anni. Lavoravo molto, si facevano anche dodici ore al giorno. Si partiva il 24 maggio e si stava fino a fine giugno, a volte anche luglio. Al mattino si andava in risaia con l’acqua fredda, invece il pomeriggio bolliva. Si andava nel vercellese, a Novara, a Santhià, in tanti posti».
Mondine, giovani donne, a volte bambine che per qualche lira, già dalla seconda metà dell’Ottocento fino agli anni Sessanta, vengono raccolte nelle regioni del nord Italia, soprattutto l’Emilia Romagna e il Veneto, e scaricate nelle province risicole. Qui, nella tarda primavera e agli inizi dell’estate e poi nei mesi successivi, si lavorava prima alla monda del riso, estirpando le erbacce infestanti, e poi al trapianto delle pianticine. Sempre a schiena piegata, sempre nell’acqua fino al ginocchio, sempre a piedi nudi, tra le bisce, i topi d’acqua e gli insetti, per giornate intere. Guadagnano qualche soldo per aiutare la famiglia, vivono le prime esperienze di emancipazione fuori di casa, imparano a convivere e spesso anche a cantare. E quei canti di monda come anche il modo in cui renderli, sono cose che non si dimenticano.
Ecco perché ancora oggi ascoltare un coro di mondine emoziona. Tanto più il Coro delle Mondine di Novi, provincia di Modena, forse uno dei pochi ancora composto da vere mondariso, la cui età si avvicina, e in alcuni casi supera, gli ottanta anni, e da figlie e nipoti di mondine. Amano le tradizioni popolari e si impegnano affinché questa storia di donne che cantano da una vita non scompaia. Perché il loro non è un cantare tanto per cantare, ma è un testimoniare la storia dell’emancipazione femminile, la protesta per condizioni di lavoro più dignitose, l’affermazione della donna nella storia sociale del nostro Paese. «Portiamo avanti un’icona della mondina, la storia della mondina – spiega Maria Giulia Contri, l’attuale maestra del coro –. Cerchiamo di vestirci come allora perché il cappello, il manicotto, sono simboli di un momento importante per la storia delle nostre donne. Attraverso questa esperienza, per la prima volta fuori di casa, hanno aperto la strada alle lotte del femminismo, per la consapevolezza delle donne nella società. Erano donne sottomesse che si sono emancipate».
«Mi ricordo bene quando si cantava – racconta Silva –. Noi incominciavamo con canzoni brevi, e a bassa voce poi il padron, il datore di lavoro ordinava: Cantate la canzone dei bersaglieri così andate più forte! Perché era una canzone allegra, e più la canzone era vivace più noi andavamo svelte».
«Gli piaceva che cantassimo – aggiunge Diva Lazzaretti, del ’23 – così non parlavamo. Se si chiacchierava si andava a rilento, invece a cantare si seguiva il ritmo e si stava tutte concentrate».
Ma quel canto imposto dal padrone è diventato poi strumento di liberazione.
Diva Lazzaretti, tra le fondatrici, Silva Manicardi, e poi Viliana Cavaletti sono alcune delle mondine che fanno parte del Coro di Novi. Le incontriamo proprio in paese in un giorno di pioggia. Gli edifici del centro sono ancora in costruzione dopo le scosse del terremoto del 2012.
«Io ho cominciato a lavorare come mondina nel ’53», dice Viliana, del ’38. «Io prima, anche nel ’44 – ribatte Silva –, in tempo di guerra. Quando passavano gli aerei: Giù, giù! gridava il padrone. Così ci buttavamo nell’acqua e restavamo bagnate delle ore prima di poterci andare a cambiare. Oltre al lavoro faticoso, c’era la paura tremenda». E Diva: «Io ho cominciato che avevo quattordici anni, era il ’37 e ho smesso nel ’49. Era una vita dura, al mattino mi mandavano a scuotere il riso con una canna lunga in mezzo all’acqua».
Comincia negli anni Settanta la storia di questo coro. Una sera, in pullman, di ritorno da una gita, sedute agli ultimi posti ci sono alcune amiche. Nate tutte a Novi, compagne di classe dalle scuole elementari, ancora bambine hanno imparato a darsi da fare come meglio si poteva per sopravvivere. Erano state in Piemonte, lontane dalle loro case, a fare le mondine. E intanto che mondavano il riso, cantavano. Di nuovo, su quel pullman, cantano. Torino Gilioli, maestro della banda, quel giorno le ascolta e decide di fondare un coro di paese.
«Il coro è nato per caso – dice Maria Giulia – perché queste donne sono rimaste amiche, ma non cantavano più. L’esperienza della risaia era stata dimenticata. In quella famosa gita, alcune di loro, tra cui la moglie di Gilioli che era mondina, si sono messe a cantare. Il maestro è rimasto colpito dalla bellezza di quei canti, gli stessi della risaia e dall’armonia delle voci che si intonavano naturalmente».
Voci pulite, spontanee. Di donne comuni che in risaia hanno imparato a vivere. «Erano voci allenate e popolari – continua Maria Giulia – di chi imparava da sola, ascoltando la radio o perché in casa si cantava. C’era uno stile di vita che portava al ballo e al canto. Un’occasione per cantare in famiglia o con le amiche, si trovava sempre. Perfino sotto le finestre a fare le serenate o nelle stalle mentre si lavorava. Era un’abitudine tramandata dai genitori, dai nonni. La cultura popolare che prevedeva momenti di canto e di danza».
E nei momenti di spaesamento temporale rappresentati dalle lunghe giornate in risaia il canto era ancora di più un collante di socialità: «Il canto di risaia – spiega Claudio Silingardi, direttore dell’Insmli, in occasione del recente concerto del Coro delle Mondine di Novi alla Casa della Memoria di Milano – è un canto collettivo, che corrisponde all’organizzazione del lavoro in risaia: si canta per far passare il mal di schiena, per far passare le ore, per rafforzare i legami di amicizia e solidarietà. Si canta dalla partenza dal paese d’origine al ritorno, durante le ore di lavoro, in quelle di lotta e di sciopero e in quelle dedicate al cibo, al riposo o alla festa».
Si canta spesso e un repertorio molto vario che pesca dalla tradizione popolare, dalle canzonette leggere ai canti dei soldati, da quelli antimilitaristi, partigiani, alle parodie di canzonette in voga.
Le canzoni, poi, si inventano anche. «Soprattutto gli stornelli – dice Viliana –. Quando si cominciava a sbadigliare, a sentire la fatica e la malinconia, si inventava un canto. Una cominciava, la più brillante e le altre le andavano dietro».
Aggiunge Maria Giulia: «Gli stornelli erano canti d’improvvisazione. Si sono persi quasi tutti. Una di una squadra cominciava e l’altra di un’altra rispondeva. Era un uso tipico della nostra campagna. Perché era irriverente, divertente, si prendeva in giro il padrone senza farsi scoprire e poi c’era la gara tra squadre di diversi paesi e province». Silvia sottolinea «Però ci volevamo bene, ci rispettavamo. Era per rendere il lavoro meno faticoso».
C’è solidarietà tra queste giovani donne, infatti, come ricorda Diva Lazzaretti nel raccontare un episodio a lei capitato. «Avevamo la nostra cassetta dove si conservava di tutto: il guardaroba, un po’ di cibo, due soldini. Anche io avevo da parte i miei. Una sera mi sono dimenticata la cassetta aperta e quando sono tornata dalla risaia i soldi non c’erano più. Piangevo disperata perché con quei soldi potevo anche solo comprarmi una cipolla, ma erano i miei, me li ero guadagnati. Delle 26 lire che avevo ne erano rimaste due o tre. Allora le donne anziane mi consigliarono di andare dal parroco per dire delle preghiere, i sequeris». Erano preghiere che servivano a recuperare le cose perdute e nella cultura popolare anche a far pentire i malfattori. «Così, sono andata dal prete a dire queste preghiere – continua Diva –. Prima di andare via, però, lui mi disse: “Quando torni in cascina, lascia aperta la cassetta, così se la ladra si pente ti restituisce il maltolto”. Io gli ho dato retta e la sera non aspettavo che di vedere cosa ci fosse dentro. Invece ho scoperto che mi avevano rubato anche gli ultimi soldi. Incominciai a piangere. Per fortuna le amiche mondine della mia compagnia mi aiutarono: passavano davanti alla cassetta e lasciavano una loro offerta. Come un’elemosina. Così ho racimolato qualcosina prima della partenza. Chiaramente era stata una ragazza del gruppo a rubare, io sapevo anche chi fosse, ma le altre, invece di fregarsene hanno preferito darmi una mano. Alla fine, eravamo tutte sorelle».
Solidarietà, aiuto reciproco e rispetto non potevano mancare in un ambiente di lavoro già così penalizzante. «C’erano gli insetti, le bestie. Ma quando io trovavo una biscia, la prendevo – dice Silva –, le facevo fare due o tre giri per aria e la lanciavo indietro, non avevo paura. Un giorno però una finì attorno al collo del padrone. In due cercarono di levarla: si era stretta, scivolava e serviva molta forza per staccarla. Di duecentocinquanta persone che quel giorno erano in risaia, nessuna ha mai parlato. Nessuna ha mai confessato al padrone, che chiedeva, chi fosse stato il colpevole. Se l’avesse saputo avrebbe mandato a casa quella poveretta. Che ero io. Alla fine della campagna, quando siamo andate nel suo ufficio per ritirare la paga, dopo aver preso i miei soldi, mi ci sono avvicinata e gli ho detto: mi deve scusare, ma io sono quella mondina che le ha gettato la biscia al collo, non volendo certo farlo di proposito. Be’, lui mi ha ringraziato per la sincerità e mi ha regalato cinque lire. Chi l’avrebbe mai detto?».
Sincere, lavoratrici, solidali. Dai racconti emerge l’immagine di donne che si spezzano la schiena, ma che si aiutano e insieme lottano per cambiare lo stato delle cose. «Le mondine sono combattive – ricorda Claudio Silingardi –, scioperano durante il fascismo, lottano durante la Resistenza, sono protagoniste dei grandi scioperi agrari degli anni Quaranta e Cinquanta. Simbolo di questa combattività diventa Maria Margotti, mondina ed ex partigiana ravennate uccisa dai carabinieri durante una manifestazione bracciantile nel 1947».
E agli scioperi partecipano anche le mondine di Novi. «Io, dopo la guerra, prendevo 900 lire al giorno – dice Viliana –. Poi abbiamo fatto uno sciopero e siamo arrivate a mille lire. Era il ’54. Quel giorno andammo in risaia con il nostro caposquadra che contrattò con il padrone per l’aumento della paga. Lui non firmò e decidemmo di tornate su. Non volevamo cedere, non avremmo lavorato. Lui, però, non ci volle dare il pasto. Per fortuna le mondine del paese ci avevano preparato loro da mangiare. Arrivarono in cascina con le pentole di riso e fagioli. Era una battaglia che riguardava tutte. La sera il caposquadra ci convocò: “Domani mattina scendiamo in risaia, disse. Se il padrone ci dà le mille lire andiamo a lavorare, se non ce le dà faccio un segno con la testa e torniamo su”. Quella volta, però, il padrone firmò e noi guadagnammo le nostre prime mille lire. Avevamo vinto perché eravamo diventate tante a fare questa protesta».
Certo, le mondine hanno rappresentato anche l’emblema della donna libera ed emancipata, lanciata nell’immaginario collettivo dal personaggio impersonato dalla sexy Silvana Mangano nel film Riso amaro.
Perché le mondine sono ragazze che per quaranta giorni stanno via da casa, fuori dal controllo di famiglia e istituzioni locali. Portatrici, dunque, di aspetti trasgressivi, di spregiudicatezza sessuale, di atteggiamenti provocatori verso i maschi. Ma su questo le mondine di Novi non sono così d’accoro. «Su cento che eravamo – dice Viliana – ce n’era solo qualcuna più intraprendente. C’era l’Alba, la Dorina, che alla sera andavano fuori con i calzoncini corti. Ma poi erano le stesse che l’avrebbero fatto anche qui in paese». La sera, del resto, si è così stanche che non si aspetta altro che di riposare. Solo di tanto in tanto, per beneficienza, si organizza qualcosa. «Alla sera finito il lavoro – dice Silva – facevamo le commedie, andavamo in paese per raccogliere qualche lira per le madri che dovevano pagare la retta dell’asilo dei loro bambini. Molte avevano già figli piccoli. Era un dopolavoro, eravamo stanche ma lo facevamo volentieri».
La vita della mondina non ha, in effetti, davvero niente di bello. “Sofferenza nei viaggi per il caldo, la sete, l’affollamento dei trasporti – scrive Renata Viganò –. Sofferenza sul posto di lavoro per il cibo scarso: riso a fagioli sconditi; sofferenza per il dormire sulla paglia in cameroni da deportati, da prigionieri; sofferenza delle otto ore sotto il sole con il corpo malnutrito e mal riposato. Oppressione, acqua marcia, calore d’estate senza ombra, zanzare” [Viganò, in Gualandi, Mondine tra cronaca, storia e testimonianze, p. 3]. «Le condizioni alimentari erano pessime – aggiunge Silingardi –, e questo procurava numerosi problemi di salute. In primo luogo la malaria. Ma anche gastroenteriti, reumatismi, malattie dell’apparato respiratorio, ferite e logoramento fisico».
A casa, al ritorno dal lavoro, però, non si viveva di certo meglio. Nessun rispetto per la donna nel mondo arretrato delle campagne italiane. Essere mondina, infatti, era una condizione temporanea e di fatto queste donne erano braccianti agricole, mezzadre, impiegate in altri lavori stagionali. «Ho lavorato anche come contadina dopo che mi sono sposata – dice Silva –. Tanta terra e tante mucche da mungere. Ricordo quando ero incinta della seconda figlia: mentre mungevo sentii che era ora di andare in ospedale. “Finisci prima di mungere la mucca e poi vai”, disse mio marito. Non riuscivo a salire la scale e mi si ruppero le acque proprio lì».
Racconta Diva: «Una volta, quando sono tornata dalla monda, ero distrutta. Ma la prima cosa che mi disse mio marito quando venne a prendermi era che in un’altra località altre mondine avevano guadagnato di più di me e che l’anno prossimo anche io sarei andata con loro». Solo il guadagno contava.
«Per le donne – ricorda Maria Giulia – per molto tempo quella è stata l’unica possibilità per aiutare la famiglia. Erano figlie di mezzadri: gli uomini lavoravano a giornata, le ragazzine aiutavano nella stalla. Soldi non ce n’erano, eppure c’era la legna da comprare, la spesa da fare. Quando è saltata fuori questa opportunità sono partite subito. Non tutte potevano, c’erano vere e proprie liste: solo una ragazza per famiglia. Chi non riusciva andava a servizio di famiglie benestanti oppure emigrava all’estero, in Francia, in Germania. Finita l’esperienza della risaia, diverse si sono impiegate nel settore tessile, chi in camiceria, chi in maglieria, nelle piccole fabbriche nate sul territorio».
E insieme si sono ritrovate nel coro di Novi. «Amavano cantare, avevano belle voci intonate – spiega Maria Giulia – e il ricordo di quei canti di risaia. La base del nostro repertorio, infatti, è tuttora costituita dai canti di monda, col modulo della prima voce, della seconda e del bordone. La prima voce è quella della melodia, la parte più squillante. La seconda è il controcanto che fa la terza sopra o sotto la melodia, e poi c’è il bordone, tipico della voce maschile. È il basso: tiene una nota spesso uniforme a seconda della melodia e poi si muove in relazione alla prima voce, ma sempre con voce bassa che dà l’effetto di profondità. Sono voci che a loro vengono d’istinto, non devi certo spiegargliele. Quando provano le trovano da sole. Sanno cerare gli effetti tipici del canto popolare senza che un maestro insegni loro la parte. La trovano a orecchio. Le canzoni, infatti, ancora adesso, nascono facendole. L’ultima del repertorio E più non canto e più non ballo, non la cantavano più, ma appena gliel’ho fatta sentire hanno trovato subito il controcanto, perché fa parte di quelle ballate che ricalcano proprio il popolare».
In origine nel coro erano presenti anche gli uomini, i cavallanti, che in risaia trasportavano i mazzetti di pianticine da trapiantare. Oggi è composto di 25 elementi femminili, sia mondine fondatrici che giovani nipoti, figlie di mondine, e si è arricchito con l’ingresso di Manuela Rossi che scrive testi di raccordo tra le varie cante proposte durante i concerti. Concerti che sono veri e proprio spettacoli a tema [http://www.mondinedinovi.it/new/?q=Spettacoli].
I Mundaris (2001) è uno spettacolo sulla risaia che prende spunto dal titolo di una canzone. Si racconta della migrazione per la monda iniziata nella seconda metà dell’800 e della risaia come il riscatto della donna schiava, sottopagata, malnutrita. È la storia della mondina che prende coscienza di sé e lotta. La vita di risaia viene raccontata da quattro personaggi femminili di età diverse: il contesto economico, la miseria, i debiti da pagare, la partenza per la risaia, la dura vita lontano da casa, il rapporto tra le donne, la condivisione della fatica, la libertà dalla famiglia, la prima presa di coscienza e le lotte. Il canto che allevia, la carica emotiva scaturita dal bisogno di riscattarsi, gli amori. Il ritorno dove nulla è cambiato. Tra le canzoni tipiche di monda ci sono:
I mundaris;
Saluteremo il signor padrone;
Son la mondina son la sfruttata con Cisco Bellotti;
Sciur padrun da li beli braghi bianchi;
Noi vogliamo l’uguaglianza;
O cara mama;
La Tina;
Addio torrione.
«Nello spettacolo sulla risaia – dice Maria Giulia – abbiamo raccolto storie e testimonianze per raccontare episodi della vita delle mondine o che le ritraggono nel loro carattere: una più agitata, una più quieta. In generale lavoriamo in questo modo: si mettono insieme i racconti e poi io scelgo le cante più adatte in base al tema. Il racconto insieme alle canzone è molto efficace, contestualizzare cattura l’attenzione anche dei giovani perché dà più senso al canto».
Eva sempre ribelle (2003) è la storia di una delle mondine del coro. «Si chiamava Lola Cipolli questa mondina partigiana – dice Maria Giulia – ma si faceva chiamare Rina. Era una di noi e attraverso il ricordo abbiamo ricostruito le sue vicissitudini durante la guerra». Le donne sostituiscono gli uomini nelle campagne, come capo famiglia in un clima di terrore. Si fanno riunioni segrete e la rasdora diventa il fulcro attorno al quale si vivono questi incontri, si organizzano le lotte. Il dolore è l’elemento comune di questo periodo, la consapevolezza dell’inutilità della guerra. La rabbia verso i potenti prepotenti che questa guerra hanno voluto. Le staffette partigiane, poi la liberazione e alla fine ancora la monda, sembra che nulla sia cambiato. Poi arrivano le fabbriche, il benessere economico e finisce la monda, alla metà degli anni 50. Si conclude un periodo contraddistinto da grande sorellanza e solidarietà, condivisione di ideali e di lotte e si scopre una nuova solitudine, si aprono le porte all’individualismo, arriva la televisione, ma nuove lotte aspettano le donne: divorzio, aborto, salari più equi, il partito, il sindacato. Ci sono canzoni più politicizzate: quelle legate al socialismo, ai canti di lotta come la Lega,
o come E per la strada.
Amore Dolore (2005) è il testamento di una madre, mondina, che fa il bilancio della propria vita e, al di là della miseria, scopre la grande ricchezza che può lasciare alla figlia: la passione. I ricordi della vita in paese, da quando era giovane e con l’unico pensiero di racimolare cibo, alla consapevolezza di non valere nulla in quanto donna, per arrivare alle lotte contadine, agli scioperi. La vita nelle grandi case di campagna con tante famiglie di braccianti, la stalla, crogiuolo di idee, di giovani amori, di fiabe, di comunità. I giochi dei bambini, la risaia e il rapporto difficile con le donne locali, più disperate di lei, le offese dei padroni, le crumire. L’amore alla luce della Resistenza, e le nozze come erano allora.
Amica, Nemica miseria (2006) è un invito a non dimenticare. Parla dei primi anni del ’900 quando la miseria la faceva da padrona, la fame ne era la degna compagna, la morte un sollievo, l’emigrazione una speranza.
La prima grande guerra poi il fascismo e la seconda guerra e quando tutto finisce si è annientati, e la miseria è sempre nemica e presente. Non resta che la risaia e le schiene non si piegano, anzi trovano nuovo impulso alla lotta, alla sorellanza. Sono anche gli anni della giovinezza e quindi dei primi amori e dell’allegria. Ci sono canzoni di immigrazione: Amara terra mia,
Trenta giorni di nave a vapore.
«Canzoni che parlano anche dell’emigrazione attuale – spiega Maria Giulia –, del fatto che si muoia ancora oggi per mare, di cosa significhi essere migranti, fuggire per guerra e per fame. Succedeva ieri e succede anche oggi, e la canzone insegna a reagire. Anche i nostri migranti affrontarono una vita di miseria andando all’estero a lavorare in miniera, in Belgio, in America del Sud. Ma il canto avvicina. Una volta siamo andate in Inghilterra a Glasgow, quante persone ci si avvicinarono dopo il concerto, per dirci le loro sensazioni. Anche se non avevano capito le parole si erano commossi. È la magia del canto e di come si canta. Con la convinzione, con la passione, con una storia da raccontare e da rappresentare».
Spigolando tra le zolle (2007) è una raccolta di filastrocche, ninne nanne, riti propiziatori, antica saggezza contadina.
Quel sottile filo rosso (2008) è uno spettacolo sul tema dell’incontro col mondo, la consapevolezza di altre civiltà, la condivisione delle stesse sofferenze, lo stesso desiderio di rinascita, di diritto a esistere, l’universalità del popolo cui si deve il massimo rispetto, di cui vanno accettate le tradizioni, la cultura.
Pietà l’è morta (2009) è ispirato alla tragica vicenda dei sette fratelli Cervi e alle lettere dei condannati a morte. Lo spettacolo riporta alla coscienza le sofferenze della guerra, i valori di quanti si sono ribellati al fascismo. È uno spaccato di storia fortemente emotivo, accompagnato da tradizionali canzoni popolari e partigiane. C’è Pieta l’è morta, qui cantata con Cisco;
Fischia il vento;
Figli di nessuno;
Compagni fratelli Cervi.
Non manca Bella ciao, nella versione delle mondine e del partigiano.
e
E poi Il bersagliere ha cento penne
e I morti di Reggio Emilia.
«Il nostro non è solo cantare per cantare – dice Maria Giulia –. Abbiamo sempre cercato di scegliere a seconda del luogo e della ricorrenza di affermare dei valori, di far riflettere affrontando ogni volta tematiche di grande impegno sociale e politico».
Con i piedi nell’acqua (2010) è un piccolo ritratto delle donne del coro. Loro, sempre anonime, meritano, di essere rappresentate con i loro nomi, con le loro caratteristiche, con le peculiarità del mondo femminile, tipico del mondo delle donne, là dove la sorellanza è stata elemento fondamentale di lotte e conquiste. Un modo per dire grazie alle anziane, alle fondatrici, alle matriarche di questa grande famiglia, un modo per dire grazie alle figlie, nipoti e a tutte quelle che hanno fatto proprio lo spirito della mondina e a cui spetta il non facile compito di continuare a raccontare questa storia.
Sorelle Giardiniere (2011) in occasione del 150° dell’Unità d’Italia è dedicato alle donne che ebbero un ruolo importante, fecero parte della carboneria, combatterono al fianco dei garibaldini, non risparmiarono il loro corpo nei letti dei potenti pur di strappare informazioni utili alla causa di una Italia unita.
Terre in moto Donne in canto (2012) racconta la tragedia del terremoto, con la sua devastazione, le sue perdite. Ma anche la voglia di ricominciare, il coraggio di riprendere in mano la vita e di dare energia a quanti si sono lasciati sopraffare, usando l’arma propria delle nostre donne: il canto, il sorriso, la volontà.
È la storia di una Cosa (2013) è uno spettacolo sulla violenza sulle donne il cui titolo si rifà a una canzone del 1972 del Collettivo femminista romano. Testo forte che narra vicende di stupri, pedofilia, prostituzione. Testo che evidenzia come ogni donna, ognuna con il proprio bagaglio di cultura ed esperienza, sia chiamata a essere presente nella casa, nella scuola, sul lavoro, presente e attenta, attenta e combattente, messaggera di un nuovo modo di vedere, di pensare, di denunciare e di guardare a noi donne. «La violenza sulle donne è uno spettacolo che lascia il segno – dice Maria Giulia –. Sono canzoni popolari e per scelta ne ho inserite alcune anche apparentemente leggere, per mostrare come la sofferenza delle donne, nel canto popolare, venisse superata, sublimata, attraverso canti che raccontavano di violenze, ma in un modo tale che non lo si intendesse immediatamente. Come le ninne nanne che raccontavano della fatica della vita, soprattutto dopo il matrimonio, spesso inizio di violenze domestiche. Attraverso quel canto le donne si sfogavano, superavano la fatica con l’invenzione di storie e di racconti in cui vivevano vite gioiose. Ne è un esempio La vien giù dalle montagne». Altre canzoni dello spettacolo sono: Il cacciatore nel bosco, La gallina padovana, La bella la va al fosso.
E poi c’è La vita è un lungo caradone, commedia dialettal musicale in due atti e un po’ (2015) che nasce dall’esigenza di conservare quei motti, quei detti, quei proverbi che ci si tramanda di generazione in generazione.
Il coro, che ha sede nella Casa della musica di Novi, negli anni si è esibito presso case di riposo, scuole, centri di volontariato, associazioni culturali, ma ha partecipato anche a manifestazioni di carattere nazionale e internazionale, in Italia e all’estero: in Francia, Bulgaria, Cecoslovacchia, Ungheria, Crimea e Argentina. Dal “Musicultura Festival” di Macerata, a “Terra madre 2006” di Torino, dal “Festival of Colors” di Detroit, al “Celtic Connections, Voci dal mondo” in Scozia, dalla “Notte della taranta” in Puglia, a un tour negli Stati Uniti ed in Canada, da Parigi a tournée in Lussemburgo e Slovenia.
Vanta inoltre collaborazioni prestigiose. Giornalisti, scrittori come Paolo Nori, attrici come Ivana Monti, hanno avuto il desiderio di confrontarsi con questa istituzione e con la storia che rappresenta. Ma soprattutto, musicisti, cantautori, gruppi che propongono una lettura moderna della canzone popolare. Fiamma Fumana, Modena City Ramblers, Tupamaros, Gang, Flexus.
«Con i Fiamma Fiumana abbiamo affrontato la sfida dell’elettronica – dice Maria Giulia –. Nello spettacolo da loro ideato, Di madre in figlia, ci sono brani originali e cante tradizionali, che il gruppo reinterpreta nel suo stile, mentre noi ci inseriamo con il nostro.
e
Pezzi come Angiolina bella angiolina,
Io non tremo.
Con Flexus il coro canta De André.
«Ma abbiamo anche reinventato il canto Le otto ore – prosegue Maria Giulia –. Loro l’hanno riscritta con melodia e parole nuove, mentre noi riproponiamo la strofa tradizionale. Una cosa straordinaria, è così che devono essere le collaborazioni: creare cose nuove mantenendo la propria identità».
Il coro, in generale, è un’esperienza forte di socialità. È un gruppo unito che, nell’essere una sola voce, comunica valori di condivisione, uguaglianza e tolleranza. Lo ricordava anche il maestro Roberto Goitre: “Il coro è una comunità nella quale si deve tendere al massimo controllo della personalità per la maggiore omogeneità possibile di suono e di colore: ciascuno deve dare il meglio di se stesso senza che nessuno dei suoi componenti ne possa menar vanto, mentre d’altra parte qualunque piccola distrazione, una emissione incontrollata di suono, un segno dinamico non rispettato, possono danneggiare tutto il coro e rendere inutile un lavoro di preparazione durato settimane e forse mesi interi! Non è forse questo il migliore specchio della società in cui viviamo, dove tutti dovrebbero tendere a dare il meglio di se stessi per il bene comune, mentre la mancanza di un singolo individuo può essere delitto contro l’intera comunità in cui egli vive? Il cantare in coro educa alla tolleranza verso gli altri, all’umiltà, alla perseveranza, all’amore verso la comunità: componenti tutte dell’uomo sociale”.
Oltre a questo messaggio le mondine testimoniano un tratto importante di storia del nostro Paese: «Noi raccontiamo cose che abbiamo vissuto e visto, cosa vale la pena di combattere, cosa sono la guerra, le violenze, le sopraffazioni. Anche i diritti. Perché ciò che esprime il canto popolare è la forza di ribellarsi, sono gli ideali di fratellanza, di pacifismo, di tolleranza e solidarietà».
Un messaggio che si coglie anche dalla visione del film Di madre in figlia, regia di Andrea Zambelli, prodotto da Davide Ferrario, che ha rappresentato l’Italia nei festival di tutto il mondo. «Una volta l’abbiamo presentato a Bolzano – dice Maria Giulia –. C’era Lidia Menapace, che rimase molto colpita: “Un documento storico che fa capire la vita delle mondine. Da proiettare in tutte le scuole”, disse». Qui un estratto:
Le mondine del Coro di Novi, inoltre, si possono conoscere attraverso il breve documentario Il cammino della musica
e nell’intervista a Diva Lazzaretti.
https://www.youtube.com/watch?v=0JtoWaow74s
Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli
Pubblicato giovedì 22 Novembre 2018
Stampato il 04/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/il-canto-collettivo-dellemancipazione/