Da https://en.wikipedia.org/wiki/ Juliette_Gr%C3%A9co

Cantare è la mia arma, il mio modo di difendere la libertà. Juliette Gréco

 

Juliette Gréco o Jujube, come lei preferisce chiamarsi, oppure Toutoute, come la chiamavano in famiglia, il nome che in Aquitania si dà all’ultima nata, è la voce femminile del dopoguerra francese. Musa ispiratrice, poeti e chansonniers hanno fatto a gara per scriverle testi. Cui si aggiungeva un sofisticato arrangiamento musicale, l’intensità dell’interpretazione e la profondità della sua voce, scura, grave, mai sentita prima. Soprattutto piena di spontanea sensualità, sconcertante. E una gestualità che liberava il corpo, scandalosamente. Così nasceva la canzone d’autore, in quella specie di isola felice che era il quartiere di Parigi Saint Germain des Pres, cuore di una svolta culturale negli anni della guerra e dopo. Così nasceva il mito della Gréco. Donna fatale, di fascino e seduzione. Stretta in abiti attillati e neri, con il caschetto spettinato e sugli occhi una linea marcata. Leggende narrano di uomini impazziti per lei, forse suicidi, ma Juliette è stata molto di più di un’icona di bellezza. Modello di emancipazione femminile, tanto per cominciare. Per le scelte di vita, innanzitutto. Lei, la bambina rifiutata, la bambina di troppo, si è conquistata tutto da sola. Lei, che ha subito il carcere e le violenze del nazismo, non ha mai smesso di lottare contro ogni censura e discriminazione.

Una vita fuor che semplice, la sua. Fin da subito.

Padre e madre separati, il padre Gèrarld praticamente inesistente, la madre Juliette a renderla insicura, a convincerla di non averla mai voluta: “Sei il frutto di uno stupro”, le dice, oppure: “Sei una trovatella”. Così Juliette è una bambina difficile. Non comunica, le resta tutto chiuso dentro, vive di dolorosi silenzi. I suoi punti fermi sono la sorella maggiore Charlotte e i nonni materni con cui, a quattro anni, vive in una grande casa circondata dal giardino nei pressi di Bordeaux. La madre se ne è andata abbandonando le figlie. Sono dunque la forte personalità della nonna e la dolce discrezione del nonno, noto architetto, a guidare le bambine.

La grande cantante oggi (da https://www.bbc.co.uk/programmes/ p02r4byq/p02r49v4)

Juliette cresce in questa famiglia insolita e osservando le figure femminili che compongono il suo albero genealogico emerge una caratteristica evidente: sono le donne, a tenere le redini. Forti, volitive, autonome, spesso si richiamano l’un l’altra portando lo stesso nome di battesimo: Charlotte, sorella di Juliette, porta il nome della nonna materna, Juliette quello di sua madre.

Nonna Charlotte è figlia di Maria Luisa, ricca ereditiera rimasta vedova molto giovane, donna indipendente che monta a cavallo come un uomo e vive libera e felice. A quindici anni Charlotte riceve la domanda di matrimonio. Lui è un gentiluomo, un politico e grande viaggiatore. Il loro ultimo viaggio, l’anno seguente al matrimonio, sarà a Parigi dove lui morirà per un’intossicazione alimentare. Dopo un periodo di lutto, Charlotte incontra un uomo di trent’anni più grande di lei, famoso architetto, colto e gentile. Da questo secondo marito, nonna Charlotte avrà solo una figlia: Juliette, Juliette Lafeychine, madre della nostra.

Mamma Juliette cresce tra i vigneti della proprietà di famiglia, abile cavallerizza anche lei, ama la vita emancipata. Invece di restare in famiglia desidera trasferirsi a Parigi per seguire i corsi all’Ecole des Beaux-Arts, contravvenendo alle regole della buona società borghese di inizio Novecento che vietano a una giovane donna di vivere da sola nella grande capitale. Ma Juliette è così determinata che avrà la meglio. Sarà proprio a Parigi che incontrerà Gérald Gréco, poliziotto di origini corse, trent’anni più grande, che la chiederà in sposa. La coppia va a vivere insieme, ma poco dopo Gérarld viene trasferito a Ferney-Voltaire. Addio Parigi, addio studi d’arte, addio sogni.

Nonostante i dissapori qualche tempo dopo nasce la prima figlia Charlotte. A distanza di due anni, dopo un ulteriore trasferimento a Montpellier, il 7 febbraio 1927 nasce la seconda figlia, Juliette. “Associata alla rinuncia, sono la figlia minore indesiderata – scrive nella sua autobiografia – quella inutile nella discendenza, una figlia in più. Mio padre voleva un maschio” [Gréco, Io sono fatta così, p. 21].

I dissapori diventano ben presto rancori e violenze, così Juliette lascia il marito e corre incontro alla libertà portando con sé le due bambine. Torna dai genitori, ma ci resterà per poco: il richiamo dell’arte, nella capitale, è più forte di lei. Tornerà a Parigi lasciando le figlie nella grande casa di campagna con i nonni. Le bambine qui, tutto sommato, crescono serene, adorate. Fino alla morte dei nonni. Juliette la vivrà come un’ingiustizia feroce: “Compresi allora che niente sarebbe più stato come prima – scrive –. Era la fine della mia innocenza, l’inizio di una grande solitudine e di un vuoto che niente avrebbe mai più potuto colmare” [Gréco, cit., p. 26]. La madre a quel punto le porta con sé, nel suo appartamento di Saint Germain des Prés.

È il 1936 e in quell’appartamento ci sono persone che entrano ed escono, spesso di notte, persone che vengono ospitate, discorsi che vengono pronunciati a voce bassa.

Lo storico dell’arte Élie Faure (da https://www.babelio.com/ auteur/lie-Faure/6853)

Mamma Juliette milita nel Fronte popolare. Qui incontra Élie Faure, storico e intellettuale, impegnato a sinistra, sostenitore dei repubblicani spagnoli e vicino al Partito comunista. Juliette conosce anche Antoinette Soulas, per la quale lavora come giornalista. Direttrice di un periodico, anche lei vive da sola con due bambini. Nel 1938 le due donne affittano una casa nel Périgord per le vacanze estive. I bambini le vedono ridere di risate complici, di una felicità che assomiglia tanto all’amore.

La piccola Juliette, intanto cresce. A scuola i professori si lamentano: non le interessa nulla, non parla, è insolente. Una cosa, invece, le piace molto: la danza. Così la madre la iscrive al concorso per entrare all’Opéra di Parigi. Viene ammessa. Ma la gioia dura poco. La guerra la dividerà per sempre da quel sogno.

Nel settembre 1939 le truppe tedesche superano le frontiere della Polonia. La guerra è imminente. Persone giungono nella grande casa padronale “La Marcaudie”, dove le due donne si sono trasferite. Arrivano inquiete e nervose, parlano frettolosamente, a bassa voce, bisbigliano agitate. A volte restano per qualche giorno poi scappano a prendere un treno. Di sera porte e finestre vengono sbarrate.

“La signora Gréco – scrive Bertrand Dicale – lavora per la rete della Resistenza Sud e la Marcaudie è diventata luogo di incontri clandestini oltre a una tappa sulla strada per la Spagna, che rappresenta la libertà per gli ebrei o l’adesione alla Francia libera per quelli che vogliono combattere” [Dicale, Juliette Gréco, le vite di una cantante, p. 31].

Dopo l’estate, il ritorno a scuola segna una novità: l’insegnante di letteratura cattura Juliette, la appassiona alla lettura, alla recitazione, al teatro. Si chiama Hélène Duc. Diventerà un’amica di mamma Juliette e fondamentale per il futuro della figlia.

Nel 1940 la Francia è in subbuglio. Parigi è occupata. Mamma Juliette ascolta alla radio le trasmissioni inglesi e i messaggi in codice. Certe volte manda la figlia a spedire pacchi e lettere o ad accompagnare un amico alla stazione. Lei fa parte di un gruppo di resistenti. Qualche anno dopo, un giorno di settembre del 1943 le due sorelle tornano a casa e la trovano sottosopra: cassetti aperti, finestre spalancate. La casa è stata perquisita, molti oggetti spariti, si salva il cofanetto con i gioielli della nonna. Mamma Juliette è sparita, come la sua compagna. Le bambine scopriranno che le due donne sono state arrestate a causa della loro attività clandestina. Le sorelle non si danno per vinte, si dirigono al Kommandantur di Périgueux per sapere dove sia la loro madre e per portarle degli abiti. Ma una volta arrivate la Gestapo si rifiuta di fornire informazioni. Le ragazze lasciano la valigia e si avviano verso la stazione, vogliono andare a Parigi. Anche qui si accorgono quasi subito di essere seguite, cercano di sfuggire inoltrandosi tra le vie della città, ma questo serve a poco. I loro inseguitori le trovano, tappano loro la bocca, le gettano in un’auto che corre nella notte. Manette ai polsi, vengono trascinate per le scale di un palazzo e infine separate, chissà quando si rivedranno di nuovo. Juliette viene accusata di possedere documenti falsi, di collaborare forse con la Resistenza come la madre. Lei nega tutto. Chiede di andare in bagno. Ha nascoste nella borsa delle carte della madre che riesce a far sparire. Di nuovo nega tutto. Anche se riceve calci e pugni, tanti da perdere i sensi. Verrà condotta alla prigione di Fresnes dove subisce la brutalità della perquisizione, la violenza della segregazione in isolamento, la mortificazione del corpo nudo alla vista delle guardie. Quando viene liberata l’unico posto in cui le viene in mente di andare è a casa dell’insegnante di francese Hélène Duc. Della sorella, della madre e della sua compagna nulla sa.

Juliette ha sedici anni, ha subito violenze, è sola e in totale miseria. Ma non si dà per vita, ha voglia di vivere e di realizzare i suoi sogni. Hélène le trova un posto in una pensioncina nella zona di Saint-Suplice e soprattutto la inserisce nel mondo del teatro che lei frequenta. I suoi amici sono tra i primi ad accorgersi della magia di Juliette, del suo fascino indicibile, di quell’essenza misteriosa che è propria delle grandi artiste. Così le consigliano di iscriversi al concorso per entrare al Conservatorio. Viene notata ma non ammessa. Ancora troppo inesperta. Ma gli amici di Hélène non smettono di sostenerla e ogni giorno quel folto gruppo si allarga. Ne fanno parte pittori, attrici, scrittori e poeti. È il favoloso mondo di Saint Germain des Pres che comincia ad aprire le sue porte. Solange Sicard, amica di Hélène la accoglie nella sua scuola di teatro e subito la fa scritturare come comparsa nella “Scarpina di raso” di Paul Claudel sotto la direzione di Jean Louis Berrault. Non è niente, è sola una parte da comparsa, ma per Juliette è tutto. Si sente parte di quella grande comunità di giovani artisti, intellettuali che in quel momento storico stanno dando vita a qualcosa di travolgente nel quartiere di Saint Germain des Pres: una rivoluzione del pensiero, dell’arte, della cultura che contaminerà il mondo intero.

Si incontrano ogni giorno, questi giovani, nei locali come il Cafè de Flore o Les Deux Margot. Sono Jacques Prévert, Pablo Picasso, Maurice Merleau-Ponty, Albert Camus, Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir. È il 1943, ma nei locali di quella zona i tedeschi non sono arrivati. Certo, a ogni allarme di bombardamento occorre scendere all’ingresso della metropolitana, ma passato il pericolo si può tornare a scrivere, discutere, scambiarsi opinioni e pensieri in libertà. Juliette è una ragazzina sola e taciturna a cui serve potersi scaldare un po’, anche per questo frequenta quei locali dove, certo, non passa inosservata con i suoi capelli lunghi e scuri, gli abiti prestati.

Nell’estate ’44 Parigi è in grande tumulto. Si attendono gli alleati per liberare la città. Vengono erette le barricate, si susseguono scioperi. I tedeschi continuano le persecuzioni, le torture, le esecuzioni di insorti, resistenti ed ebrei. A Vincennes vengono giustiziati ventisei resistenti.

La Liberazione arriva il 25 agosto. Le strade sono piene di gente che acclama il generale Leclerc che entra a Parigi dalle porte d’Orléans. In quel periodo Juliette decide di iscriversi al movimento delle Jeunesses Communistes, vicino al Partito Comunista Francese. Sente il bisogno di dare il suo contributo, impegnarsi per la ripresa del suo Paese: “Festeggio la fine del periodo di occupazione – scrive – prendendo parte a quello slancio. Voglio dare un senso alla vittoria” [Gréco, p. 70]. Così il gruppo ristruttura un locale dell’ex biblioteca di rue Guénégaud e si dà alla vendita del giornale Avant-garde per le strade. Tra di loro c’è Marguerite Duras. Ma quando a Juliette viene chiesto di pagare la tessera, lei che lavora di giorno e di notte, lei che non ha soldi, la strappa e se ne va.

Dirà più tardi di aver fatto suoi certi valori, assorbiti in quegli anni. Dall’esperienza di lotta clandestina della madre e attraverso le frequentazioni prima e dopo la guerra con gli amici del Partito comunista, Pierre Hervé e Pierre Courtade che incontrava regolarmente. Nel suo mondo c’è il rifiuto del razzismo: “Una volta mi è capitato di discutere per strada con un uomo di estrema destra che faceva discorsi assurdi, razzisti – racconta –. Divento aggressiva se mi accorgo che non ci sono più possibilità di ragionare, quando le parole non vogliono dire più niente, quando non vengono ascoltate” [Gréco, p. 220]. E il rifiuto delle discriminazioni: “Sono quella che sfila per le strade per sostenere gli omosessuali – scrive –. Quella che si fa sputare addosso dagli intolleranti, da chi perpetua le discriminazioni” [Gréco, p. 222]. Juliette manifesterà la sua avversione verso il nazismo anche andando a cantare in Germania, per tutti coloro che la guerra non l’avevano voluta, per quei figli non responsabili delle scelte dei genitori, per quella che fu la Resistenza tedesca. E poi si batterà per la difesa della libertà, dei diritti civili, soprattutto per le donne: “Ero un modello – dice – per quante sceglievano il divorzio invece della rinuncia, l’aborto invece della sottomissione” [Gréco, p. 231]. Juliette affronta sia il divorzio (tre volte sposa: con l’attore Philippe Lemaire da cui ha avuto la figlia Laurence-Marie, con Michel Piccoli e con Gérard Jouannest), sia l’esperienza dell’aborto. Operata su un tavolo da cucina, nelle mani di macellai, lasciata in fin di vita, salvata per miracolo. Una vicenda orribile. Per questo sarà sostenitrice dell’aborto legalizzato e sottoposto a controllo medico.

I giorni dopo la Liberazione passano nell’attesa del ritorno dei prigionieri. L’Hotel Lutetia è il centro di accoglienza dove arrivano tutti: sono corpi trasparenti con indosso una camicia a righe. Sembrano fantasmi, uno uguale all’altro. Finalmente in mezzo alla folla dell’atrio centrale è sua sorella che la riconosce e le va incontro. C’è anche sua madre. Ma il suo primo pensiero è la sua compagna, non sua figlia Juliette. Nonostante la lontananza, nonostante l’esperienza terribile della guerra, nulla è cambiato. Poco importa, sua sorella Charlotte, adesso ha bisogno di lei. È stata rinchiusa nel campo di concentramento di Ravensbrück, da dove in pochissime sono uscite vive. Da lì, lei e la madre sono poi state mandate a Holleischen destinate ai lavori forzati in una fabbrica di cartucce.

Mamma Juliette, invece, tornerà a Parigi dove si arruola in Marina e poco dopo partirà per la guerra in Indocina. Juliette capirà una volta per tutta di non avere mai avuto una madre. È la fine del ’45, sono finiti cinque anni di incubo e anche Juliette non vuole più soffrire. L’unico desiderio è tornare a frequentare gli amici e gli intellettuali di Saint Germain des Pres. Nel 1948 il quartiere, quasi un villaggio dentro Parigi, è il luogo simbolo del dopoguerra. I giornalisti impazziscono per i giovani che lo frequentano. La coppia Sartre-Beauvoir è l’emblema del pensiero di quegli anni, l’esistenzialismo. Corrente che insiste sul valore specifico dell’individuo e sul suo carattere precario, sul vuoto che caratterizza la condizione dell’uomo moderno, in un mondo che è diventato completamente estraneo oppure ostile [Cfr. Treccani, Dizionario di filosofia].

Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre

“Saint Germain divenne per qualche anno il centro del mondo artistico e letterario – scrive Juliette -, un luogo di incontri privilegiati. Ma sotto un mucchio di menzogne e di speculazioni, c’era una realtà. L’inquietudine. L’inquietudine di coloro che si cercavano col desiderio folle dell’incontro, dell’amicizia e della condivisione, dello scambio. Il riso crudele della giovinezza e il tirocinio della nostra nuova libertà ancora recente. Godevamo fino in fondo della parola liberazione” [Gréco, Una voce mitica racconta gli anni eccitati di Saint Germain des Prés, p.123].

Tanti locali nuovi stanno aprendo: il Méphisto, Lorientalis, l’Arlequin, l’Ècluse, il Port du Salut, il Pont-Royal, il Bar Vert. Il Club Saint Germain diventa il raduno per chi suona jazz. Ci vanno anche musicisti americani come Charlie Parker, Duke Ellington, Miles Davis con il quale più avanti Juliette avrà una storia. E poi il Tabou, che diventa il rifugio privilegiato. Qualcuno vi porta un pianoforte, Boris Vian suona la tromba, si canta e si ride. È una gioventù gioiosa, libera e spensierata. Che ha solo voglia di dimenticare gli orrori della guerra e di ricominciare a vivere. Juliette ne è parte. La sua immagine trasgressiva, il senso di indipendenza che traspare dal suo modo di essere sono la migliore rappresentazione di quel mondo: “Con i miei pantaloni neri – racconta –, i capelli lunghi e trasandati, gli occhi truccati di nero e la bocca nuda, la gente mi rivolge sguardi stupefatti, sorpresa dalla mia stravaganza e dal mio aspetto provocatorio” [Gréco, p. 87]. Fotografata da Georges Dudognon con l’amica Annabelle vestite a letto, quell’immagine farà scalpore, ma diverrà tra le più rappresentative dell’epoca.

Intanto, il sogno del teatro si concretizza e Juliette debutta con un’opera di Roger Vitrac, Victor o i bambini al potere, che ha un buon successo di critica e le permette di vivere di quel mestiere. Ma presto sarebbe arrivata la svolta: il canto.

È Sartre a iniziarla. “Le piacerebbe cantare Gréco?”, le chiede, invitandola la mattina seguente a casa sua. Le consegna alcuni libri di poesie e le chiede di sceglierne alcune. Lei resta colpita da Si tu t’imagines di Raymond Queneau. Una piccola canzone già nell’idea dell’autore che architetta ritmi e giochi di parole rendendola musicale. In essa si avverte il senso di precarietà della vita, la paura di un futuro incerto, mentre il tempo fugge veloce e non si riesce a viverlo pienamente: Se pensi/ragazza ragazzina/se pensi/che durerà/che durerà per sempre/la stagione degli amori/quanto ti sbagli/ragazza ragazzina.

Sartre le regala anche una sua composizione La Rue des Blancs-Manteaux e la spedisce dal compositore Joseph Kosma che nel frattempo ha scritto la melodia. Racconta di un’esecuzione capitale mediante la ghigliottina che avviene nella rue des Blancs Manteaux, una strada nel quartiere Marais di Parigi. Quel giorno vengono decapitati generali, vescovi, ammiragli. Ma saltano anche teste di donne, ancora con i loro bei cappelli.

Juliette canta per la prima volta e subito capisce: “Canterò”.

La prima esibizione avviene nel 1949 al Boeuf. Indossa maglione e pantaloni neri, ai piedi semplici sandali bassi. La Parigi che conta è lì ad ascoltarla. I giornali presto la battezzano “la cantante esistenzialista” e notano la sua immagine insolita con quegli “occhi da cerbiatta”.  È un successo. Quell’estate tutta la Costa Azzurra si veste e si trucca alla Gréco. Ad Antibes Juliette canta ogni sera. Al suo repertorio si aggiunge la surreale e divertente La Fourmi di Robert Desnos.

E poi le splendide poesie di Jacques Prévert: Les enfants qui s’aiment,

La belle vie che parla di come vivere la vita in libertà, senza barriere.

À la belle ètoile, viene censurata nel 1951. Alcuni versi accennano alla violenza della polizia nei confronti di chi vive per strada: prostitute, barboni che di notte cercano cibo nella spazzatura.

E poi Je suis comme je suis, la canzone che più la rappresenta. Per il senso di libertà, la seduzione, l’irriverenza: Sono fatta per piacere/non c’è niente da fare/troppo rosse le mie labbra/troppo dritti i miei denti/troppo chiara la mia pelle/troppo scuri i miei capelli.

Canterà anche il capolavoro Les feuilles mortes, canzone struggente su un amore finito.

L’anno successivo Sartre le propone altri suoi pezzi. E di lei dirà cose importanti: “Gréco ha milioni nella voce: milioni di poesie non ancora scritte, che qualcuno scriverà. Per certi attori si scrivono spettacoli teatrali, perché non scrivere poesie per una voce? […] Chi lavora con la penna traccia sulla carta segni neri e monotoni, e finisce per dimenticare che le parole hanno una bellezza sensuale. La voce di Grèco glielo ricorda. Una luce morbida e calda, che sfiora le parole accendendone il fuoco. È grazie a lei, e per vedere le mie parole diventare pietre preziose, che ho scritto delle canzoni” [Gréco, p. 110].

Nasceva così la canzone d’autore. Una rivoluzione. Per opera dei grandi chansonniers, poeti, letterati, intellettuali, filosofi il cui motto era épater le bourgeois, “stupire il borghese”. Usavano il linguaggio dell’anticlericalismo o addirittura della blasfemia e dell’immoralità, parteggiando per i perdenti: clochard, prostitute, ladri e fustigando bigotti e fascisti, di cui si mostrava tutto il gretto conformismo. Era una canzone, la loro, che cercava lo scandalo riuscendo ad abbattere la barriera tra cultura alta e cultura bassa, grazie al seguito di un pubblico variegato composto da gente del popolo e da intellettuali in egual misura. Era una canzone spudorata e satirica che si divertiva a smascherare i vizi e le debolezze di un certo clero, dei politicanti di destra e dell’alta borghesia, mostrando tutti i colori della libertà civile e dell’orgoglio di mettere a nudo le viltà umane. Una canzone che godeva dell’appoggio di una scrittura colta e coraggiosa, di poeti, letterati, filosofi. Una canzone che parlava anche di sentimenti, ma in modo reale. Una canzone che prendeva vita anche e soprattutto grazie all’interpretazione di voci diverse capaci di dare verità alle parole. Una di queste è quella di Juliette, per la quale i grandi chansonniers inventano testi. Sono Jacques Prévert, Léo Ferré, Jacques Brel, Georges Brassens, Jean Ferrat, Guy Béart, Charles Aznavour, Serge Gainsbourg e Charles Trenet.

Non sarà sempre facile all’inizio per lei conquistare il pubblico, ha un’immagine insolente e scandalosa che in alcune occasioni è stata elemento di disturbo per un pubblico ancora impreparato a quel modo di interpretare, a quel tipo di canto: “A quell’epoca, per la maggior parte delle persone – dice Juliette –, l’immagine che rappresento non è ammissibile. La mia persona, la mia voce, la mia interpretazione e il mio corpo non sono altro che una provocazione. Nell’attillato vestito nero, con i capelli in disordine e la voce bassa incarno un’immagine violenta, uno scandalo, un tabù” [Gréco, p. 153].

Charles Aznavour scrive Je hais les dimanches per Èdith Piaf che la rifiuta. La canterà Juliette, provocando molto clamore. La canzone con tono pessimista racconta il falso perbenismo di chi vive la domenica come un giorno sacro, in cui andare in chiesa, o al cimitero a o fare l’amore perché non c’è niente da fare. Solo noia. Per questo le domeniche sono tutte da odiare.

Léo Ferré per lei scrive la divertente Jolie Môme

e le propone Paris Canaille, già cantata da Catherine Sauvage. Inizialmente censurata per aver osato accostare potenti e politici alla “feccia della società”, con Juliette diventa uno dei brani più amati.

Per Juliette, Ferré scrive anche Plus jamais

e lei ne interpreterà la malinconica Avec les temps. Nel 2007, lui morto da undici anni, in suo omaggio. Una canzone sul passare del tempo che fa dimenticare le passioni, le voci, i sogni.

Charles Trenet una sera sul tavolo di un ristorante le scrive Coin de rue, che lei canta nel 1954 alla prima esibizione all’Olympia. Con malinconia l’autore ricorda quell’angolo di strada dove ha vissuto la sua infanzia e adolescenza, in attesa di un amore che non è arrivato. Anche se ha viaggiato per il mondo, quell’angolo è il posto più bello in cui stare.

Quello stesso anno Georges Brassens le dona la Chanson pour l’Auvergnat, ovvero la canzone per un abitante dell’Alvernia, regione centrale della Francia. Canzone antimilitarista, Brassens in essa ricorda nella prima strofa il francese dell’Alvernia che lo nascose durante la guerra per evitargli il servizio militare obbligatorio. Protagonista è un povero diavolo che racconta di chi con poco ha saputo alleviare la sua sofferenza e solitudine. Un po’ di legna da ardere, qualche pezzo di pane, uno sguardo di dignità. Juliette la canterà poco dopo al Bobino.

Nel ’60 Juliette canterà un’altra canzone memorabile di Brassens: Le Temps passé, testo in cui emerge tutto il sarcasmo dell’autore: Secondo calcoli complicati/vent’anni sono un bel po’ di felicità/i miei vent’anni li ho persi in guerra/dall’altro lato del campo di battaglia/se ho conosciuto un tempo schifoso/senza dubbio è stato quello dei miei vent’anni.

Di Jacques Brel Juliette sceglie Ça va (Le diable), canzone profetica e di condanna dell’essere umano e di tutte le sue mostruosità: la guerra, il terrorismo e le bombe sui treni, la miseria degli ultimi, la disonestà.

Di lui canterà anche la struggente On n’oublie rien sulla difficoltà di non riuscire a dimenticare neanche le cose più dolorose

e una tra le canzoni d’amore più celebri, Ne me quitte pas, preghiera disperata di un amante per non essere lasciato.

Non manca in repertorio La chanson des vieux amants, impossibile immaginare un’evocazione più profonda, più travolgente di un amore invincibile nonostante il tempo, le tempeste e le mancanze. Brel dimostra il raro talento del grande scrittore nella capacità di incarnare un sentimento di cui tutto è sconosciuto.

Juliette canta anche i testi della scrittrice Françoise Segan, come Sans vous aimer, canzone in stile jazz su un amore fatto di desiderio e passione. È una relazione professionale, ma soprattutto affettiva, quella tra le due donne, che le tiene unite e vicine per molti anni.

L’album Mon fils chante, scritto da Maurice Fanon e musica di Gérard Jouannest, contiene canzoni che hanno un colore politico evidente: “Eravamo vicini alla sinistra – dice Juliette -, denunciavamo il capitalismo e il dispotismo con Mes théâtres, in cui Fanon ricorda l’esecuzione di Federico Garcìa Lorca a opera dei franchisti, nel 1936” [Gréco, p. 131].

La stessa Mon fils chante è un inno alla lotta, di generazione in generazione, per la libertà, per la speranza di un futuro migliore.

Serge Gainsbourg lo vede la prima volta nel 1958 mentre suona il piano e resta colpita dal suo fascino pazzesco. Lui le propone Accordéon, storia di un fisarmonicista che vive di elemosina suonando nei vicoli. Forse un giorno venderà quella fisarmonica per due lire e nessuno farà più caso a quel povero diavolo.

E poi La Javanaise, splendida canzone in cui Juliette esprime tutta la sensualità della sua voce.

Ètienne Roda-Gil è un altro autore caro. Scriverà un intero disco per lei. Sua è Mickey travaille, con la musica di Caetano Veloso e l’interpretazione passionale di Juliette: Tingo le mie labbra e le mie unghie di nero/perché Mickey vada fuori di testa/e cammino a caso tra due rotaie/mentre Mickey lavora.

Juliette spazia nella scelta delle canzoni, alcune hanno temi di condanna sociale o sono di argomento politico, altre sono più intime: “Talvolta – dice – si può scegliere un testo per ciò che denuncia, per ciò che difende o per un semplice istante di piacere, per la pura bellezza della cosa in sé” [Gréco, p. 139]. Probabilmente per questo incide le poesie di Aragon, di Èluard.

Gréco chante Mac Orlan, esce nel 1964 e vince il Gran Prix de l’Académie du disque. Nel 1967 nell’album La Femme Juliette incide Déshabillez moi, scritta da Robert Nyel per una spogliarellista. Una canzone provocatoria che tocca il tema della prostituzione e che per diverso tempo venne censurata.

Del resto: “Negli anni Sessanta – dice – trasmettere Juliette Gréco alla radio non era proibito, ma francamente sconsigliato” [Gréco, p. 186]. Juliette non ha timore di cantare testi rivoluzionari, provocatori, maliziosi, sessuali o trasgressivi. Anche se spesso deve subire la censura. Nel 1957 La Complainte di Raymond Queneau viene censurata perché cita per diciassette volte la parola coglione.

L’anno successivo tocca a Qu’on est bien di Guy Béart perché considerata eccessivamente erotica: Come si sta bene/tra le braccia/di una persona dell’altro sesso/come si sta bene tra quelle braccia/eppure alcuni giocano/le carte dello stesso colore/liberi di farlo, a me piacciono/i fanti sulle donne, i fiori sui cuori.

Anche Juliette scrive poesie. Tra queste, Le mal du temps.

Nel 2004 tiene un grande concerto all’Olympia

e nel 2006 incide l’album Le temps d’une chanson, un inno alle canzoni amate e mai cantate. Contiene Nel blu dipinto di blu come omaggio alla canzone italiana,

Over the rainbow che per Juliette rappresentò la libertà ritrovata dopo la guerra,

La chanson de Prévert di Serge Gainsbourg che ricorda l’autore scomparso e le sue più belle canzoni.

Nel 2009 a ottant’anni dopo una grave malattia torna in scena al Théâtre des Champs Èlyséès, acclamata come una divinità. Canta J’arrive.

Recentemente ha inciso Ca se traverse et c’est beau contenente tredici canzoni. Tredici storie, che narrano dei ponti di Parigi e del significato intrinseco del ponte nelle relazioni umane. Anche in questo nuovo lavoro Juliette ha mantenuto quell’impegno che l’ha vista sempre protagonista, ovvero mettere insieme musica e letteratura: due testi portano infatti le firme di Amelie Nothomb e di Philippe Sollers, uomo di spicco della cultura francese contemporanea.

E poi c’è il teatro, la recitazione, il mondo da cui è partita e a cui ritorna più volte. Che l’ha condotta anche al cinema: è stata Miarka la zingara in Eliana e gli uomini di Jean Renoir. La regina delle Baccanti nella trasposizione cinematografica dell’Orfeo di Jean Cocteau. Enorme il successo ottenuto nel telefilm Belfagor, del 1965, dove Juliette recita nel ruolo di protagonista e diviene personaggio molto popolare. Ecco la prima puntata:

Juliette ora novantaduenne si è esibita fino a un paio di anni fa. Musa dell’esistenzialismo francese, la regina delle Caves di Saint-Germain-de-Prés, ha sempre scelto le canzoni da interpretare con forte senso di responsabilità, proponendo anche temi irriverenti, contrari alla morale del tempo. Così ha cantato uno struggente mal di vivere, gli amori infelici, ma anche la voglia di riscatto, di libertà e rinnovamento sociale. E poi le storie degli ultimi: prostitute, clochard, poveri diavoli. Con una voce diversa e inimitabile. Che incarnerà per sempre il fermento culturale e artistico, negli anni del dopoguerra, della Parigi della Rive Gauche.

Juliette in una recente intervista:

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli