Teresa Viarengo (da http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/teresa-viarengo/)

Quando si affronterà, per studiarla in modo organico, l’eredità musicale di Teresa Viarengo, si dovranno fare i conti con questa sua persin sconcertante “libertà” di muoversi nel mondo della ballata, riconoscendo che, anche quelle che possono apparire sue “ricomposizioni” di storie un po’ smarrite nella memoria, sono documenti importanti per capire quale dovesse essere, in passato, quando la ballata non era soltanto memoria cristallizzata e in via di consunzione, ma creazione viva e continua ricreazione, l’arte preziosa di “raccontare” ballate. Roberto Leydi

 

Teresa Viarengo è uno dei pochi esempi di autentica cantora popolare. Di quelle che hanno sempre cantato per passione, per mantenere vive le ritualità legate a un canto, le cerimonie e le tradizioni della comunità di appartenenza. Mai per esibizione, per una rappresentazione spettacolare, preservando così l’autenticità delle intenzioni e dell’espressione vocale. Scoperta dall’etnomusicologo Roberto Leydi, quando Teresa aveva circa 73 anni, a lei si deve il recupero di un numero impressionante di canti, soprattutto ballate, tipici della sua terra, l’astigiano, e del Piemonte in generale. Registrati e catalogati da Roberto Leydi, tra il 1964 e il 1966, sono ancora oggi uno strumento eccezionale per lo studio della cultura popolare.

Teresa proveniva da famiglia contadina originaria di Scurzolengo, nell’astigiano, ma già la madre nel dopoguerra si era trasferita in città dove era diventata operaia tessitrice. Teresa, maritata in Amerio, rimane vedova presto, così conduce il resto dei suoi anni ad accudire le due figlie e a occuparsi della casa. Sempre cantando i canti imparati da bambina o di nuovi all’occorrenza. Leydi trascorre un anno circa nella modesta casa di Teresa ad Asti, in corso Alfieri, a registrare, parlare di canzoni, conversare di mille cose. “Una donna viva e intelligente – scriverà –, con un carattere forte, con una coscienza e modi al tempo stesso molto cortesi e decisi, come si dice debbano essere i piemontesi” [Roberto Leydi, Cante’ Bergera, p. 26].

Teresa gli venne presentata da Franco Coggiola, etnomusicologo astigiano che per primo aveva scoperto i tesori musicali dell’anziana donna, registrandoli con il suo Gelosino. Grande impressione aveva fatto a Leydi la lucidità della donna nel ricordare un patrimonio sterminato di storie, cronache, leggende in musica che aveva imparato dalla madre e dalla suocera, anche loro appassionate di canto. “Teresa Viarengo ha offerto alla ricerca di Franco Coggiola e mia – scrive infatti – oltre trecento fra ballate e canzoni, spaziando nell’intera storia della musica popolare piemontese, dalle ballate che riteniamo arcaiche alle canzonette dialettali e italiane dell’Ottocento e del Novecento […]. Forse si trattava di uno dei più estesi repertori individuali in Europa ed uno dei più importanti per quanto riguarda la ballata e la canzone narrativa in generale” [Leydi, p. 26-27].

Teresa ha tenuto in memoria non solo testi, ma anche musiche, melodie originali, con il loro stile di esecuzione. La raccolta Viarengo costituisce, infatti, una meravigliosa eredità culturale perché Teresa “non fu soltanto un vastissimo magazzino di canti, ma anche una straordinaria interprete” [Leydi, p.30]. Una interprete “specializzata” in grado di restituire un documento nella sua interezza, fatto di testo, melodia, interpretazione. Con tutta la ricchezza degli stilemi esecutivi: dall’articolazione del fraseggio, agli anticipi e i ritardi, all’uso del vibrato, delle acciaccature, delle note aspirate, di ogni altro accorgimento sonoro. Non certo una semplice esecutrice o ripetitrice, dunque, ma una autentica creatrice di cultura popolare, padrona dei modelli rigorosi della tradizione. Modelli che si ritrovavano in tutta l’estesa area europea della ballata, dalla Scozia all’Italia, dalla Catalogna alla Scandinavia.

“Teresa è stata una delle poche vere interpreti del canto popolare che io abbia conosciuto – scrive Leydi –. Soprattutto nelle vecchie ballate emergeva la sua cultura, la sua capacità di porgere nel più limpido stile epico le antiche storie, la sua padronanza dei processi compositivi della ballata. Teresa Viarengo possedeva cioè il sistema della ballata, che vuol dire la competenza relativa ai modi di strutturarsi, tradizionalmente, di questo genere narrativo” [Leydi, p. 30].

Giusto chiarire, allora, cosa sia la ballata.

L’etnomusicologo americano MacEdward Leach la definisce come un genere di canzone che appartiene al popolo, senza per questo considerarla una composizione primitiva e semplice: spesso, infatti, è il prodotto di veri e propri poeti, culturalmente colti. La ballata – spiega inoltre – è una commistione di folklore, leggenda e storia locale. Presenta dunque connessioni con la storia arcaica e mitica di un luogo, ma anche con la sua cronaca quotidiana. È un’espressione importante dal punto di vista sociale: la manifestazione delle persone quando esse sono strette a formare una comunità, un gruppo capace di vivere in maniera omogenea tra classi sociali, dentro un sistema inclusivo e di integrazione. Un’espressione della loro capacità di essere uniti e forse anche il collante a garanzia di questa unità [Cfr. Leydi, p.7].

Leydi la definisce come un insieme di testi cantati che presentano alcuni caratteri specifici, all’interno del più vasto gruppo di quelle canzoni popolari dette narrative. Canzoni, cioè, che raccontano una storia, che hanno un coerente sviluppo narrativo, appunto, delineato in più strofe in cui emergono personaggi, luoghi, eventi, azioni. Le canzoni narrative sono presenti in Italia come ballate, ma anche come componimenti da cantastorie o da foglio volante, senza una precisa collocazione temporale. Ne esistono, infatti, di prodotte in tempi antichi come in tempi più recenti. In Italia la ballata trova spazio insediativo soprattutto nelle regioni settentrionali con estensioni nell’area centrale e meridionale.

Tra le caratteristiche peculiari vi sono: la divisione in strofe, che possono anche modularsi in forme raggruppate, la presenza a volte del ritornello, lo sviluppo narrativo molto rapido, la narrazione centrata su un unico fatto, la forte presenza di andamento a dialogo, l’assenza di caratterizzazione psicologica dei personaggi, per lo più piatti, l’assenza di descrizioni ambientali e di commenti moralistici.

L’origine risulta ancora misteriosa: i temi, i motivi narrativi si ritrovano simili in un’area europea molto vasta che va dalla Catalogna ai Paesi di lingua tedesca, dall’Italia settentrionale alla Francia e le Isole britanniche fino ai Paesi scandinavi. Molte delle ballate scoperte in Italia appaiono importate dalla Provenza e dalla Francia, passando attraverso il Piemonte, territorio privilegiato nell’accoglimento di ballate transalpine, che diventano, infatti, franco-piemontesi. Altre, invece, di origine italiana sono state rinvenute in diverse località d’Europa.

Naturalmente la ballata, nota sia in forma monodica solistica che in forma polivocale o corale, appartiene alla cultura orale e approda alla forma scritta solo alla fine del XVIII secolo, a opera dei primi appassionati di antichità letterarie, ovvero dei primi raccoglitori di testi della tradizione.

Diversi studiosi hanno tentato di datare le ballate prendendo come riferimento i fatti in esse raccontati. Questo ha condotto alcuni di loro a riconoscere eventi e personaggi vissuti nel lontano Medioevo e a ritenere dunque la ballata come originaria di quel periodo. In realtà i fatti narrati nelle ballate sono così generici da non garantire nessuna reale e credibile collocazione spazio-temporale, malgrado a volte vi siano citazioni di nomi di persone o località. Tanto più, inoltre, che la ballata si caratterizza per la presenza di elementi magici, spesso capaci di resistere alle razionalizzazioni successive, che connotano il testo come componimento di ascendenza antica radicato nel profondo del mondo mitico, con simboli riconoscibili e interpretabili in un’area territoriale molto vasta. Questi originano le numerose varianti che nel tempo rendono il testo sempre più aderente a un’epoca.

Leydi, grazie a Teresa, raccoglie un repertorio di almeno trecento canti. La sua analisi è puntualissima e per ogni ballata ricava informazioni sulle varianti, sui contesti di esecuzione, sull’arte di Teresa nel rielaborare il materiale. Teresa, infatti, nelle sue esecuzioni assembla moduli di un suo “magazzino”, “fino ad offrire una realizzazione nuova ma credibile, anche se incompleta e (inevitabilmente) incerta, della canzone” [Leydi, p. 30].

Un elenco sterminato, dunque, dove compaiono: canzoni presenti nelle raccolte classiche di canti piemontesi, precedentemente catalogati da Costantino Nigra, Giuseppe Ferraro, Leone Sinigaglia; canzoni in dialetto, di carattere tradizionale, come canti rituali e religiosi o canzoni su musiche da ballo; canzoni di carattere tradizionale, non in piemontese; canzoni di Angelo Brofferio, poeta, politico e drammaturgo piemontese dell’Ottocento che scrisse soprattutto canzoni legate al tema della Patria e dell’indipendenza dallo straniero, ma anche parodie di canzoni di Brofferio. Molte sono le canzoni dialettali piemontesi, ma anche gli stornelli alla Toscana, gli strambotti e le strofette in italiano. Teresa canta perfino canzoni più recenti e d’autore, in italiano, scritte negli anni Venti, raccolte da foglio volante o suonate dai bersaglieri nella piazza di Asti. Poi canzoni storiche, di cronaca e su temi sociali e politici pre-fascismo: storie di emigrazione, di anticlericalismo, di lavoro in filanda, in miniera. Canzoni di carcere, sul servizio militare, sul brigantaggio. Canzoni di guerra: quella d’Africa, la guerra di Libia, la Prima guerra mondiale, la Repubblica di Salò. Fino alle canzoni di cronaca astigiana che raccontano le sommosse contro il dazio del 1910, e le polemiche sulla nuova pavimentazione del corso di Asti, prima del 1914. Un patrimonio enorme, come si diceva. Che racconta anche di un Piemonte variegato, suddiviso in zone linguistiche differenti, con dialetti liguri, provenzali, francesi, lombardi.

Molte delle ballate più note raccontano di donne uccise. Dai mariti, dai padri, dagli amanti. Condannate per infanticidio, per tradimento anche quando sono state fedeli. La donna come soggetto pericoloso: tentatrice, folle o malata. Soggetto disturbante, da sottomettere o eliminare.

Tra le ballate italiane più antiche che Teresa conosce c’è Donna lombarda, raccolta per la prima volta nel 1834 in area veneta. Costantino Nigra ne colloca l’origine in un tempo lontanissimo, il V sec. d.C.: secondo lui è la storia di Rosmunda, regina dei Longobardi che, come descritto dalla Cronaca di Paolo Diacono, avvelenò il marito Elmichi, su istigazione del prefetto bizantino Longino. In realtà è semplicemente la storia di una donna che, indotta dall’amante, tenta di uccidere il marito ma, scoperta, è costretta a bere lei la pozione velenosa. Presente l’elemento magico: un bambino di pochi giorni o mesi che si mette a parlare svelando al padre il complotto della moglie. Fatto che non ha riscontri nella vicenda reale.

Nella registrazione si può ascoltare la voce di Teresa che intona il brano, naturalmente senza accompagnamento musicale. Del resto ciò che conta della ballata è la trasmissione del racconto, mentre la musica è mero supporto, per rendere il testo più memorizzabile.

Vuoi venire, o donna Lombarda? Vuoi venire al ballo con me?/Oh, sì che ci verrei! Ma ho paura di mio marito./Va’ nel giardino del mio galante, c’è la testa del serpentello. /Prendila, pestala in polvere e poi mettila in un bicchiere di vino.

È una delle canzoni popolari più diffuse. La cantano in diverse versioni: Caterina Bueno;

Nanni Svampa;

Francesco De Gregori e Giovanna Marini;

Giovanna Daffini;

Sergio Endrigo con Mia Martini.

Cecilia, rinvenuta per la prima volta in Lombardia nel 1841, è un altro esempio di ballata nata in Italia, diffusa in ogni regione. La canzone è un dialogo tra Cecilia e vari personaggi: il Capitano, l’Oste, il Papa. Cecilia si lamenta perché suo marito è in prigione, così si rivolge al Capitano perché salvi la vita del suo uomo. Questi in cambio le chiede di passare la notte con lui. Cecilia ha paura di disonorare il marito che, invece, acconsente: Voi mi salverete la vita e l’onore ve lo salvo io, le dice. La mattina dopo, però, Cecilia trova suo marito impiccato e, furiosa, si rivolge al Capitano che l’ha tradita. La vicenda si conclude con il racconto di alcune dame che notano il cadavere di Cecilia per la strada. In altre versioni Cecilia si vendica: uccide il Capitano, poi, perdonata dal Papa, si fa suora e muore in convento.

Gli anelli è una ballata molto nota in Francia mentre in territorio italiano è rinvenuta solo in Piemonte. Racconta del principe Raimondo, sposo di una dama gentile. Dovendo andare in guerra egli chiede al fratello di vegliare sulla moglie e sul figlio. Ma il fratello vuole approfittare della donna, che lo rifiuta. Per vendicarsi racconta al Principe di aver posseduto la moglie, mostrandogli per prova anelli uguali a quelli da lui donati alla donna, ma falsi. Lui gli crede, infuriato torna da Lione, uccide il figlio e poi la moglie. Quando comprende che la donna gli è stata fedele si trafigge il petto con la sua spada dall’impugnatura dorata: Per una malalingua che ho ascoltato, siamo in tre che dobbiamo morire.

L’infanticida o L’infanticida alle tenaglie racconta la storia spaventosa di una ragazza che uccide il figlio appena nato e per questo viene punita con la morte. In alcune versioni la morte viene inferta dal padre che è un’autorità cittadina.

Anche La ragazza assassinata ripropone lo stesso tema della giovane che rischia di perdere l’onore per colpa di tre malviventi che, alla fine, la uccidono. Dopo averla seppellita vanno a rifocillarsi dall’ostessa, madre della giovane, che riconosce la cinghia della figlia e grida affinché i tre assassini vengano impiccati. La prima versione italiana della ballata è datata 1870, ma è nota in tempi ancora più antichi in area francese e occitana.

Un’eroina, raccolta la prima volta nel 1855, è la canzone del quasi riscatto. La giovane Munglesa, figlia del panettiere viene chiesta in sposa dal signor conte che in realtà ha già sposato cinquanta giovani, poi tutte ammazzate. Così, ottenuta da lui la spada, con uno stratagemma, durante il viaggio, la ragazza gli taglia la testa e libera se ne torna verso casa. Ma prima incontra i fratelli a cui racconta che i ladri hanno tagliato la testa al marito. Nel finale ambiguo i fratelli chiedono: Non sarete forse voi traditrice di vostro marito?

Dello stesso filone è Lucrezia, prima edizione italiana nel 1870, storia di una donna a cui viene tagliata la testa perché ha tradito il marito.

Più clemente il signor principe che in La fidanzata infedele, dopo aver scoperto che la sua dama l’ha tradito con il Conte delle rose, l’allontana, la manda ai suoi castelli mentre lui andrà a farsi incoronare re di Lione.

La vicenda, invece, del giovane che trova l’amante (o la sposa) morta e si intrattiene sulla sua tomba è il tema centrale della ballata di ascendenza bretone La sposa morta. La versione italiana avrebbe origine, infatti, da una canzone risalente probabilmente al XVI sec. Le beau Robert, ricca di riferimenti magico-leggendari e favolistici. La giovane Annetta è morta durante la guerra, il giovane soldato la piange e quando torna al fronte il Capitano lo promuove sergente.

Anche la quindicenne di Amore a quindici anni, è una sposa che muore. I suoi genitori vogliono maritarla con un vecchio. Per questo lei piange tutte le notti. Una di queste un giovane le chiede di uscire di casa a godersi per un po’ la rugiada. In quel momento lei cade a terra e muore: Se l’avessero data a un giovane della sua età/forse la bella non sarebbe morta.

Fior di tomba è un canto di origine francese di cui esistono diverse versioni. Nel corso del tempo ha subito così tante rielaborazioni da diventare, da malinconico canto di una giovane che preferisce morire sapendo che il suo amato, in prigione, sarà giustiziato, a canto resistenziale.

Elemento in comune dei tanti rifacimenti è il fiore sulla tomba: la ragazza dice di voler morire e dispone per una tomba nella quale vi sia posto per tre (padre, madre e l’amante in braccio a lei) e che su quella tomba siano piantate rose e fiori, così che quanti passeranno diranno che la bella è morta per amore: E tutta la gente che passa dirà che buon profumo./ Diranno che è morta la bella, che è morta per amore.

Lo stesso fiore diventerà il fiore del partigiano morto per la libertà in Bella ciao.

Ci sono poi ballate che si concludono con un happy end che lascia immaginare futuri rosei, matrimoni felici e finalmente qualche gioia. Così, la figura femminile da soggetto inerme che subisce violenze e malefatte trova, in altri testi, come La bella Leandra, una diversa rappresentazione. Leandra è colei che, prestando aiuto a un falso pellegrino, in realtà figlio del re, si ritrova alla fine regina e padrona di Lione.

Oppure in La Guerriera, la protagonista femminile è donna di comando che sostituisce, all’insaputa di tutti, il padre alla guerra nel reggimento del re. Nessuno la scopre se non il colonnello che alla fine la sposa.

Nella ballata Il galante spogliato, invece, un giovane sfida una ragazza alle carte. Perderà la sua giubba grazie all’astuzia di lei.

Una canzone che dalla Francia scende in Italia è Quand a ne sie là sü ‘n Savoia dove un giovane che va alla guerra – in alcune versioni in Italia, in altre in Piemonte a servire il Re di Sardegna – racconta alla sua bella che si farà fare un ritratto di lei. Lo bacerà tre volte al giorno, dichiarandole il suo amore: Questo è il ritratto della mia signora, che da tanto lontano io voglio amare.

Tante altre sono le ballate rinvenute grazie al grande magazzino della memoria di Teresa. E la vicenda straordinaria del recupero di questo materiale fa comprendere quanto importante sia stata la ricerca etnomusicologica portata avanti con tanta passione da Roberto Leydi e da quanti come lui, negli anni Sessanta, hanno lavorato affinché non andasse perso del materiale così volatile, così facilmente deperibile come il canto popolare. Con tutta la Storia e le storie che si porta dietro: “La prima qualità che si richiede in chi raccoglie poesie e musica delle vecchie canzoni popolari – dice Leone Sinigaglia – è l’onestà artistica spinta fino allo scrupolo […]. Bisogna affrettarsi a compiere questo lavoro. Molte delle canzoni che ho raccolto erano note ad una sola donna, che morendo ne avrebbe portato con sé il segreto” [Leydi, p. 60].

Teresa, in questa intervista, si racconta:

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica; autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli