Si potesse usare solo la chiave della semplicità assoluta dell’elenco, di lui si potrebbe dire che è stato una persona che molto ha studiato,
molto ha suonato, molto ha ricercato, moltissimo ha restituito alla comunità dell’arte e a chi se ne nutre.
Guido Festinese, Addio a Roberto De Simone, Giornale della Musica

Roberto De Simone

Difficile definire la complessa figura di Roberto De Simone, per il quale l’elencazione di titoli appare comunque operazione riduttiva. Scomparso il 6 aprile scorso nella sua casa di via Foria, il Maestro era nato a Napoli il 25 agosto 1933, nella città che vide dipanarsi in varie direzioni il suo formidabile talento. La sua è stata la carriera di un enfant prodige del pianoforte e del clavicembalo, di un talent scout scopritore di voci come quella di Concetta Barra e dei componenti della Nuova Compagnia di Canto Popolare da lui diretti per lungo tempo: “Grazie per averci indicato la strada e illuminato il cammino”, hanno scritto sul loro profilo social; di un pioniere nell’arte della composizione musicale dove ha esplorato le varie possibilità di contaminazione tra musica colta e musica popolare, tra musica antica e contemporanea, tra musica e rappresentazione teatrale, incarnando l’esempio unico e magistrale del genio fatto persona. Non solo musicista e compositore eclettico, ma anche didatta e intellettuale dalla immensa caratura.

Lo scalone monumentale dell’Accademia delle Belle Arti di Napoli

Dal ’72 al ’76 ha insegnato Storia della Musica all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Dal 1981 all’87 è stato Direttore artistico del Teatro San Carlo di Napoli dove “Ha segnato un’epoca con la sua visione profonda e rivoluzionaria del teatro musicale. Le sue regie sono state autentici capolavori, capaci di dare concreto impulso al recupero e alla valorizzazione del patrimonio culturale, teatrale e musicale della tradizione popolare campana, sia orale che scritta”, è pubblicato sulla pagina social del teatro napoletano nel giorno della scomparsa. Dal ’95 al ’99, è stato anche Direttore del Conservatorio San Pietro Majella di Napoli per chiara fama. Nel 1998 è stato nominato Accademico di Santa Cecilia. Le sue pubblicazioni, tra cui Canti e tradizioni popolari in Campania (Lato Side, 1979), La canzone napolitana, (Einaudi, 2017), il Presepe popolare napoletano (Einaudi, 2004), Fiabe campane (Einaudi, 1994) sono documenti di studio imprescindibili.

La sua concezione del teatro come catarsi, rito collettivo in cui una comunità si riappropria delle radici comuni e riafferma i valori su cui fonda la propria identità, affrontando le paure più arcaiche, i tabù, i riti di iniziazione, i drammi sociali, ha fatto sì che la sua Napoli, la Napoli popolare, quella degli emarginati perché diversi, perché umili, perché omosessuali, perché donne, trovasse salvezza e redenzione, protagonista indiscussa delle sue opere. Come al centro è stata la cultura popolare del gesto e dell’oralità, che De Simone ha ricercato scandagliando i luoghi più ameni della Campania alla ricerca di voci autentiche, riti sopravvissuti allo spianatoio dell’omologazione, espressioni coreutiche a testimoniare l’esistenza di un mondo “altro” che andava riscoperto. “De Simone tocca il cuore pulsante di queste forme musicali popolari perché le libera da quello che sono state storicamente, nei loro contesti sociali, politici e le esporta nel futuro. Questa è stata una grande innovazione”, afferma Cesare Basile che ci ha rilasciato una breve intervista. Nel 2013 Targa Tenco nella categoria Miglior album in dialetto è tra quanti, musicisti, compositori, hanno trovato in De Simone un ispiratore.

Cesare Basile in concerto

La sua interpretazione di folk revival è stata personale e del tutto alternativa a quella che nello stesso momento vedeva protagonisti gli intellettuali ed etnomusicologi che operavano al nord, nell’ambito del Nuovo Canzoniere Italiano o dell’Almanacco Popolare, come Roberto Leydi, Gianni Bosio, Cesare Bermani, Michele Luciano Straniero.  Nell’idea che fu anche di Giovanna Marini, nessuna restituzione filologica del reperto sonoro originale, nessun ricalco, ma libera creazione a partire dalle forme e dai modi popolari del canto, della danza rituale.

Somma Vesuviana. Sullo sfondo il monte che dà il nome alla cittadina

Nella sua Napoli De Simone incontrò la musica precocemente in famiglia dove zie e cugine cantanti liriche lo avvicinarono al teatro musicale, quando sin dall’età di sei anni cominciò lo studio del pianoforte. Fu poi nella cittadina di Somma Vesuviana, tra gli sfollati per la guerra che venne a contatto con le manifestazioni più autentiche di un mondo che affondava le radici in una cultura millenaria fino a quel momento sconosciuta e che gli si mostrava senza filtri e mistificazioni, lasciando nella sua memoria un segno indelebile. Come la data del 7 settembre ’44, il giorno che precede la tradizionale festa di Piedigrotta a Napoli: “Improvvisamente si riversò per le strade della città una folla di popolo, ansiosi di celebrare la festa in maniera antica, dando fiato alle trombe assordanti della tradizione, voce e gesti antichi affioranti dalla memoria, atti a esprimere una voglia di vivere, repressa da quattro anni di bombardamenti, di lutti e disagi (…). Da allora ho iniziato le mie ricerche musicali”. (Intervista raccolta da Anita Pesce in Dietro ogni voce c’è un personaggio, p.26).

Iscritto al Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli nel 1943 carpì della musica le molteplici espressioni, approfondendone i diversi linguaggi, dall’opera lirica alle composizioni per pianoforte, dove eccelse, esibendosi a quindici anni nel Concerto per pianoforte e orchestra K.466 di Mozart, per il quale scrisse anche le cadenze. Come allievo tra i più talentuosi venne invitato a partecipare al Premio Nazionale intitolato a Giuseppe Martucci, classificandosi tra i primi. Diplomato in pianoforte e iscritto alla Facoltà di Lettere presso l’Università Federico II di Napoli, alternò la carriera concertistica a quella di compositore e musicologo, interessato al recupero delle opere della tradizione napoletana e campana. Da studente, suo docente di storia della musica era Cesare Valabrega. “Negli anni Cinquanta – ha raccontato De Simone – il musicologo Cesare Valabrega impartiva lezioni in Biblioteca con il supporto di incisioni discografiche” (Pesce, p. 29). Negli anni in cui anche Alan Lomax con Diego Carpitella erano a caccia di suoni arcaici lungo la penisola e Cantacronache riscopriva il canto sociale e politico, il docente pioniere era all’avanguardia nell’uso del documento sonoro come strumento didattico. Esperto di oralità, di strumenti originali, lo era anche dell’uso di documenti manoscritti di epoche passate da prendere in esame. Attraverso gli insegnamenti di Valabrega, De Simone si era appassionato alla ricerca di reperti orali, quindi alla registrazione sul campo. Ma anche allo studio delle fonti scritte, dei repertori antichi, delineando così il suo ambito d’indagine, e individuando un serbatoio cui attingere per le sue composizioni.

Roberto Murolo, foto di Augusto De Luca

In quel momento a Napoli imperversano i Festival della Canzone Napoletana e di Piedigrotta che proponevano canzoni anacronistiche e piene di stereotipi, mentre Roberto Murolo tentava di riproporre con intento filologico, insieme a repertori più recenti, la tradizione di villanelle e di canzoni popolari anteriori al 900.

Con il suo bagaglio di saperi De Simone giunse all’incontro fatale con giovani musicisti della Napoli flegrea. Nel 1967 da un’intuizione di Eugenio Bennato nasceva l’idea di formare un gruppo che facesse un discorso moderno su una musica antica (non colta e non scritta) che, se non riportata, sarebbe scomparsa e dunque mai più conosciuta. Il contesto era quello della salvaguardia del patrimonio orale, il folk revival, così sentito in quegli anni. Con lui, che già aveva creato il Trio Bennato insieme ai fratelli Edoardo (voce e chitarra) e Giorgio (percussioni e banjo) erano Carlo D’Angiò e Giovanni Mauriello.

Tutti erano rimasti colpiti dallo spettacolo Ci ragiono e canto (regia di Dario Fo che andò in scena nel 1966 al Teatro Carignano di Torino) e la prima intenzione era di costruire un repertorio di canti popolari di tutta Italia, così come quello spettacolo faceva, volendo raccontare la realtà popolare del Paese in tutte le sue sfaccettature. Ciò che cambiò le sorti di questa formazione fu l’incontro con De Simone, più grande di dieci anni. Nel 1967 il musicista aveva trentaquattro anni, era già strutturato professionalmente, diplomato in pianoforte e composizione e collaborava con gli studi Rai di Napoli come autore.

Un incontro casuale si trasformò in una audizione: sei tra i giovani della neonata formazione che nel frattempo si era ampliata (Eugenio Bennato, Carlo D’Angiò, Giovanni Mauriello, Lucia Bruno, Mario Malavenda, Claudio Montella) lo incontrarono a casa sua ed eseguirono la loro versione di Lo Guarracino, canto che resterà tra i più eseguiti e richiesti di sempre.

De Simone si convinse. Nasceva un sodalizio che si completava con la definizione del nome: Nuova Compagnia di Canto Popolare,  di cui De Simone non sarà mai componente interno, ma si assumerà il ruolo di direttore musicale, operando da subito alcune scelte: i repertori ristretti alla Campania; le parti di canto e di accompagnamento strumentale affrontate con la disciplina di un’impostazione strutturata, da Conservatorio; l’utilizzo di materiali provenienti dalla cultura orale e di materiali scritti, ricercati nelle biblioteche napoletane di cui era assiduo frequentatore. “Con la NCCP – ha raccontato De Simone nell’intervista raccolta da Anita Pesce – trascrissi ed elaborai le villanelle napoletane cinquecentesche – giunte a noi dalle stampe, dalla scrittura – con una vocalità nient’affatto accademica, desunta dallo stile degli autentici cantori campani” (Pesce, p.25).

Tammuriata

Nella sua concezione di folk revival, De Simone poneva alla base del suo lavoro il confronto tra letteratura e oralità. Si avvaleva, dunque, dei materiali tratti dalla tradizione colta scritta (partiture conservate nelle biblioteche, documenti su forme passate come villanelle, laudi, tammuriate) e di quelli giunti dall’oralità da cui ricavava lo stile di canto ricalcato sulla vocalità del mondo popolare. La sua ricerca non fu dettata dalla logica del ricalco e dall’imitazione, ma da altre considerazioni: “Nella nostra realtà campana, la tradizione si esprimeva vividamente secondo i caratteri mastodontici dei rituali (…) non mi sembrava opportuno che quei ragazzi scimmiottassero a pappagallo i contadini esecutori di tammurriate o di altri canti di lavoro. Era da mettere in conto solo l’esemplarità identificativa dello stile vocale e quindi indirizzarli alla propria ricerca ed elaborazione di una vocalità parallela” (Pesce, p. 47).

Grande attenzione, inoltre, venne riposta all’aspetto del movimento corporeo, del gesto, della danza, del teatro come manifestazione della ritualità popolare.

Nel teatro risiedeva infatti l’origine della concezione creativa di De Simone. A partire dalla grande eredità della commedia dell’arte, con le maschere, l’improvvisazione, la gestualità primariamente. Nella sua formazione fondamentale fu l’incontro con il teatro, destabilizzante, di azione e di protesta del Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina che nel 1965 sconvolgeva la stagione teatrale del San Ferdinando con spettacoli politici ed eversivi, ma soprattutto di grande impatto: Mysteries and smaller pieces e The brig. Torneranno nel 1967 con Frankenstein e Antigone. Nel 1966 anche De Simone assisteva a Ci ragiono e canto di Dario Fo restandone colpito: non si trattava di un’operazione di recupero dei repertori di un’Italia in estinzione, presentati in maniera didascalica in forma di recital come era stato per il Bella Ciao. Dario Fo realizzava uno spettacolo che privilegiava gli spazi e i tempi della messa in scena. Puro teatro, a cui De Simone avrebbe aggiunto la sua personale interpretazione, attribuendo alla rappresentazione la funzione catartica di rito collettivo.

Il grande compositore Igor Stravinsky

Esprimeva con questa interpretazione l’aspetto politico del suo lavoro. Che era costantemente un parteggiare per le fasce sociali più deboli, per il mondo contadino, per il popolo di Napoli che voleva vedere riscattato. Teatro e musica, naturalmente. Come compositore De Simone fu artefice di una simbiosi tra musica popolare e musica colta, accostandosi, la sua esperienza, a quella di compositori del rango di Béla Bartòk, Carl Orff, Kurt Weill e soprattutto Igor’ Stravinskij. “Sono stato educato da un lato alla rigorosità, al contrappunto, alle regole della scuola napoletana, e dall’altro al bel canto napoletano. Nello stesso tempo, vivo il mio momento storico (…). Per cui non posso ignorare la scuola di Darmstadt o, parlando del ’900, Stravinskij, ecco, devo stare in continua iterazione con questo mondo altrimenti non sono un uomo che fa cultura, ma uno che fa campanilismo o folklore” (Roberto De Simone, Son sei sorelle: rituali e canti della tradizione in Campania, Squilibri).

Non solo. “La grandezza di Roberto De Simone deriva dalla confluenza nella sua anima artistica di due mondi musicali straordinari e distanti: il Settecento napoletano con la sua grande scuola di teatro e di armonia, e il Novecento della commistione fra lo Swing, arrivato da oltreoceano al termine della guerra mondiale, e la canzone classica. Quel ragazzo che la mattina studiava armonia e composizione al Conservatorio S. Pietro a Majella e la sera suonava nei locali del porto per la truppa americana di stanza a Napoli, diventerà ben presto il grande Roberto De Simone”, ha scritto Eugenio Bennato sul suo profilo social.

Con la Nuova Compagnia di Canto Popolare De Simone poté concretizzare le sue idee compositive, musicalmente innovative, portatrici di messaggi rivoluzionari che vedevano protagoniste le istanze degli ultimi, realizzando opere che resteranno capolavori della storia dell’arte e della cultura italiana ed europea. Non solo De Simone curò le prime incisioni discografiche della NCCP, dunque, che nel 1971 esordiva con l’album Nuova Compagnia di Canto Popolare (Ricordi), ma si apprestava ad ampliare i panorami espressivi dell’ensemble conducendolo all’esperienza della messa in scena.

Eduardo De Filippo

Tra le opere più rappresentative, il primo esperimento di concerto-spettacolo teatrale, primo tentativo di fondere la tradizione musicale napoletana con quella teatrale, fu La canzone di Zeza. Lo spettacolo debuttò al teatro Cilea di Napoli per poi approdare al Caio Melisso di Spoleto nell’ambito del Festival dei due Mondi. La Compagnia suscitò l’interesse e l’apprezzamento di Eduardo De Filippo, fu proprio lui a suggerire la loro partecipazione al direttore artistico Romolo Valli, una prima volta con una serata concerto (1973), l’anno successivo con La Canzone di Zeza. Rappresentazione teatro-rituale storica, risalente al ’600, conteneva forti legami con le tradizioni contadine, liturgiche e paraliturgiche che costituivano l’elemento di interesse per De Simone. In scena erano le voci nuove, “voci cafone” di una Napoli sotterranea e magmatica. Voci che non erano quelle perfezionate dall’impostazione lirica, e neppure quelle neomelodiche della canzone napoletana. Erano un suono diverso, anarchico, che nasceva dall’esperienza di corpi allenati al lavoro, alla fatica, al movimento, alla rappresentazione, alla danza, al gioco. Voci di vita vera, sostenute da un corredo musicale che esplorava e contaminava il repertorio della tradizione popolare con la musica colta di una Napoli barocca, antica capitale d’Europa. “Il Maestro Roberto De Simone è un Alan Lomax napoletano, alla ricerca di canti scomparsi e cicli di storie della ricca eredità dell’Italia meridionale. Con costumi favolosi, azione frenetica e musica dolce, triste e violenta, il lavoro della Compagnia è tanto distante dalla scuola interpretativa dolciastra e piagnucolosa quanto dal folk fasullo” scriveva una giornalista americana dopo la prima di La canzone di Zeza. (Nina Beckwith, Variety, New York, 1974).

Non sono reperibili documenti audio video dello spettacolo teatrale, in ascolto La canzone di Zeza, dall’album Cicerenella della NCCP (Ricordi, 1975).

Fu poi la volta della Cantata dei pastori in scena nel Natale 1974-’75 al Teatro San Ferdinando di Napoli e nel Gennaio 1975 al Teatro Augusteo di Salerno. Nella prima edizione si esibirono componenti della NCCP tra cui Nunzio Areni, Peppe Barra, Eugenio Bennato, Giovanni Mauriello, Patrizio Trampetti, Fausta Vetere, De Simone nei panni di San Giuseppe, Concetta Barra.

Molto rappresentativa della cultura popolare, essendo collegata al presepe napoletano che nel Seicento e Settecento riproponeva le Sacre Rappresentazioni, ovvero la teatralizzazione degli eventi religiosi. L’obiettivo di De Simone fu di nuovo di mettere in evidenza la tradizione pagana, i simboli rituali e la contaminazione popolare che confluivano all’interno dell’opera.

Come tipico del suo lavoro la rappresentazione natalizia settecentesca di Andrea Perrucci, (La prima edizione fu pubblicata da Andrea Perrucci nel 1698) venne proposta in un adattamento teatrale con la sua regia, che comparava e rielaborava molteplici fonti sia letterarie che di tradizione orale. L’opera, capolavoro di invenzione musicale e scenica, narrava il viaggio di Maria e Giuseppe verso Betlemme e delle insidie che i Diavoli frappongono loro per impedire la nascita di Gesù. I Diavoli saranno infine sconfitti a opera degli Angeli e, al termine, avveniva l’adorazione dei vari e classici personaggi del presepe: pastori, cacciatori e pescatori. Nell’evoluzione storica della Cantata, il tono dell’opera aveva virato sempre più verso il profano, con l’aggiunta di personaggi comici come Razzullo e Sarchiapone, tanto che nel 1889 la sua rappresentazione fu temporaneamente sospesa.

Fu dunque un evento straordinario l’aver riportato alla luce l’antico patrimonio di storie, personaggi e simboli della Cantata, snidando le radici arcaiche delle tradizioni carnevalesche, delle maschere, con personaggi en travesti, ricordo di quel tempo in cui anche i ruoli femminili erano interpretati da uomini. Nel 1977 venne anche proposta al pubblico come prodotto televisivo, la prima trasmissione a colori prodotta dalla Rai di Napoli. Una Cantata totalmente inventata, fortemente rimaneggiata al fine di mescolare storia, teatro, simbologie, personaggi e miti che rimandavano al misterioso evento della nascita. In scena Peppe Barra, Patrizio Trampetti, Virgilio Villani, Francesco Tiano, Corrado Sfogli (mandolino), Giovanni Mauriello, Fausta Vetere, Concetta Barra.

Intero album (Emi, 1977).

Nell’anno in cui Eugenio Bennato abbandonava la compagnia per divergenze artistiche, De Simone componeva una vera e propria esperienza drammaturgica che si avvaleva di un testo da lui scritto, di un’orchestra di nove elementi, di una regia, di scene, costumi, di un maestro concertatore e direttore d’orchestra (Antonio Sinagra). Se Bennato aveva preferito seguire la strada della musica, e fonderà con Carlo D’Angiò il gruppo folk Musicanova con l’esordiente Teresa De Sio, De Simone da tempo voleva traghettare la NCCP sempre più verso il teatro, in una prospettiva in cui la voce, il gesto, la narrazione, il soggetto convergessero tutti in una sorta di sacra rappresentazione, in cui far convivere simboli, miti, personaggi. In quel 1976 componeva, dunque, La gatta Cenerentola. “Opera dalla trama sfuggente, la somma di tutto il mondo fantastico ed onirico dell’immaginario meridionale e mediterraneo, con la narrazione di eventi che sono archetipi magico religiosi” (Roberto De Simone).

L’opera, che debuttò con cinque serate consecutive, dal 7 all’11 luglio 1976, al Teatro Nuovo di Spoleto, nell’ambito del Festival dei due Mondi, rappresentò un inevitabile spartiacque perché portò in scena nella maniera più amplificata possibile le innovazioni precedentemente messe in campo innalzandole a una simbiosi perfetta tra forma e contenuto in cui l’ascesa delle classi popolari significava quella rivoluzione sociale e politica che solo un’opera totalmente fuori dagli schemi poteva inscenare. “Un melodramma nuovo e antico nello stesso tempo come nuove e antiche sono le favole nel momento in cui si raccontano”, scriveva De Simone nell’introduzione al testo drammaturgico.

Una nuova associazione denominata Il Cerchio incorporava nuove voci tra gli elementi della NCCP. Ne facevano parte Peppe Barra, Patrizio Trampetti, Giovanni Mauriello, Isa Danieli, Fausta Vetere, Virgilio Villani, Antonella D’Agostino, e Concetta Barra. La favola in musica in tre atti era ispirata alla omonima contenuta in Lo Cunto de li Cunti di Giambattista Basile, una raccolta di cinquanta fiabe in lingua napoletana edite fra il 1634 e il 1636 a Napoli. De Simone mescolò questa con altre versioni della stessa favola, una delle più antiche al mondo, originatasi nell’antico Egitto, rimaneggiando vari materiali, eliminando alcuni personaggi e aggiungendone di nuovi, modificando degli avvenimenti basandosi sia su creazioni proprie che su versioni alternative della favola, scritte oppure facenti parte della tradizione orale, raccolte durante le sue ricerche nell’entroterra campano. Fu in provincia di Napoli nel 1975 a Boccia al Mauro e a Villa di Briano in provincia di Caserta nel 1974. Qui un contadino raccontò la storia di Rospacennere, una delle tante versioni di Cenerentola.

De Simone innestò sui vari materiali la sua concezione di società in cui ad emergere dovevano essere il popolo, la città di Napoli liberata e le donne. È lo stesso De Simone nell’appendice al testo drammaturgico a svelare i tratti caratteristici della sua opera, pregna di elementi simbolici, provenienti da antiche tradizioni popolari. Spiegava che in quanto favola, La gatta Cenerentola derivava da una delle tante storie antiche di trasformazione con protagonisti gli animali: nella Cenerentola la storia era quella di una gatta che diventava donna. Esisteva anche una versione in cui Cenerentola era una gallina, ma la vicenda di trasformazione non cambiava. Questi animali, gatta e gallina, erano molto presenti nei culti locali. Questi stessi animali, infatti, sono tuttora attributi della Madonna in Campania (Madonna delle galline a Pagani e Madonna della gatta nel Casertano e nel Cilento).

Altri elementi simbolici riguardavano l’identificazione tra l’animale e il personaggio protagonista: dalla natura della gatta, animale casalingo che sta vicino al fuoco e al focolare, dunque alla cenere, derivava il nome Cenerentola. Il legame poi apriva ad altri ambiti: la gatta, animale notturno è cacciatrice di topi e il topo richiamava un simbolo fallico. L’opera, infatti, è densa di simboli religiosi, politici, e anche afferenti alla sfera sessuale perché di fatto racconta un rito d’iniziazione collegato alla pubertà femminile. Di nuovo De Simone raccontava in appendice al testo come in molte culture la ragazza che si sviluppava per diventare donna veniva rinchiusa in un posto lontano fuori dalla comunità, come Cenerentola relegata al focolare vicino alla cenere. Per lo stesso motivo veniva considerata sporca, brutta, associata al mondo dei morti. Alla base c’era il tabù collettivo dell’iniziazione alla vita sessuale. La protagonista Cenerentola dunque compiva un percorso di iniziazione che la vedeva trasformarsi in donna, superando i confini tra la vita, la morte e la rinascita, l’ombra e la luce (l’opera è percorsa di segni che rimandano a questa doppia condizione) ed era anche la serva che diventava regina. “È pecché me sento estranea! – recitava Cenerentola – Comme si fosse stata na gatta pe’ ttant’anne e una sera…ppò…’mpruvvisamente addeventa femmena, e allora il principe l’invita a ballare!

Il moderno melodramma si faceva dunque portavoce di un tema chiave del pensiero desimoniano: il riscatto di un popolo che s’identificava nella protagonista Cenerentola, scelta come legittima rappresentante del potere. Cenerentola, come la pianta di dattero che si spoglia e si veste, apparteneva al mondo contadino, incarnava questa cultura che alla fine riusciva a elevarsi. Del resto, nella memoria di Napoli erano rimaste le regine Giovanna II di Napoli (regina dal 1414 al l 1435) e Isabella d’Angiò (regina consorte di Napoli dal 1435 al 1442) ricordate anche da canti della tradizione. Cenerentola era la regina autoctona, contrapposta agli emissari del re, uno francofono e l’altro ispanofono, a significare le varie dominazioni straniere succedute su Napoli nel corso dei secoli, rispetto alle quali l’ascesa al potere di una ragazza del posto rappresentava un atto di liberazione.

Ecco che la favola di Cenerentola era dunque la storia di tutto un popolo, il popolo di Napoli: le sue frustrazioni, le sue aspirazioni, il suo malessere, il suo desiderio di trasformazione, la sua religione naturale. Un popolo antico, superstite di esperienze “di paura, di amore e di odio, di violenze fatte e subite allo stesso modo da tutti”. E questa storia secolare non si poteva che raccontare con il vocabolario dei gesti: “ripetuti dalle stesse persone per mille anni così come nascere, fare l’amore, morire, nel senso di una gioia, di una paura, di una maledizione, di una fatica o di un gioco come il sole e la luna fanno, hanno fatto e faranno” (De Simone, introduzione a La gatta Cenerentola, Einaudi). Rispetto alla versione di Basile e a quelle successive, De Simone introduceva nuovi personaggi e ne sostituiva altri, aggiungendo un corredo di simboli a carattere religioso che collocavano l’opera nel cuore pulsante della terra campana con le sue leggende radicate in particolare nel culto mariano.

Un monacello, ossia una malombra di frate che appare di notte nelle case antiche, prendeva il posto della fata e gli oggetti magici che il padre donava a Cenerentola di ritorno da un viaggio in nave (dal regno dell’Oltretomba) nascondevano tutti un significato secondario: un secchiello d’oro, una zappa, un asciugatoio di seta ma soprattutto un dattero fatato, legato al mondo contadino, era il frutto di cui Maria si rifocillò nella fuga d’Egitto.

Dattero mio fatato/ con la zappetta d’oro t’ho zappato/con il secchietto d’oro t’ho innaffiato/ con l’asciugatoio di seta t’ho asciugato/spoglia te e vesti me!

Canzone del Monacello:

Elemento mitico in Campania è quello delle sei sorelle. È tradizione raccontare che le Madonne in Campania siano sei: Madonna del Carmine, Madonna delle galline, Madonna di Montevergine, Madonna dell’Arco, Madonna Annunziata, Madonna di Piedigrotta. In una antichissima leggenda, alle sei sorelle se ne sarebbe aggiunta una settima, l’ultima che le avrebbe vinte tutte: e questa potrebbe essere proprio Cenerentola.

Canzone delle sei sorelle

Coro dei soldati (son sei sorelle)

A Concetta Barra, voce di autentica cantora partenopea, riscoperta e riportata in scena dallo stesso De Simone, venne affidato il ruolo della zingara, figura estranea alla storia originale che appare in alcuni momenti chiave per chiarire la narrazione e suggerire alcune simbologie. Come il parallelo fra Cenerentola e la Madonna di Piedigrotta, che secondo una leggenda perse una scarpa in riva al mare sulla spiaggia di Mergellina. La scarpa e la perdita della scarpa erano riferimenti sessuali collegati all’atto della fecondazione e del parto.

La prima a perdere la chianella è stata la Madonna. Ogni femmina è come una Madonna (cioè è vergine) e prima o poi s’ha da fare la misura della chianella. E quando ci farai la prova se ti va bene ne avrai onore, fortuna e ricchezza”, spiegava la zingara alle lavandaie nella versione teatrale.

Canzone della zingara dall’incisione discografica (Emi nel 1977 e riedita nel 1998).

Altro personaggio del tutto scollegato della favola originale, il Femminella che, dopo aver litigato con le lavandaie riguardo al suo desiderio irrealizzabile di poter indossare la scarpetta, si uccideva gettandosi in un pozzo. Il personaggio incarnava la diversità, tutto ciò che spaventa e viene allontanato.

Suicidio del Femminella.

Nel finale, era di nuovo Concetta Barra a svelare la morale della favola chiudendo l’opera con parole di tolleranza, a favore della libertà di genere rivelando una lungimirante attualità dell’opera.

Io credo che per stare bene in questo mondo o tutti gli uomini arrivano a essere femmine o tutte le femmine arrivano a essere uomini o non ci arrivano a essere né uomini, né femmine, per fare tutta una vita quieta”.

Dalla versione teatrale di Spoleto la Scena delle ingiurie con le battute finali di Concetta Barra:

Il melodramma folk dalla struttura classica dell’opera con le arie (Jesce sole), i duetti (Duetto), i cori (quello dei soldati e quello delle lavandaie) e i recitativi (la litania della Scena del rosario e il turpiloquio per rime e assonanze della Scena delle ingiurie), ma interpretati in uno stile più vicino al canto popolare, in un linguaggio colloquiale, il napoletano parlato dal popolo, era sostenuto da una musica che, con una strumentazione classica restituiva forme musicali di tradizione popolare come villanelle, moresche, tammurriate, danze di origine araba (Moresca) o autoctona (Tarantella).

Tarantella (Oi mamma ca mò vene)

La gatta Cenerentola univa dunque due tradizioni musicali – quella operistica nazionale e quella della canzone napoletana, facendosi portavoce di un chiaro messaggio politico di rivalsa delle classi sociali storicamente subalterne dando loro voce e potere. Tutto questo in un periodo in cui a dominare era la canzone politico-sociale dei cantautori, che contestavano con altri mezzi l’arroganza dei padroni, le violenze di Stato.

L’opera verrà rappresentata in tutto il mondo riscuotendo un enorme successo: dal 1976 al 2000 si ripeterà in cinquecento repliche. A oggi è riconosciuta come uno dei tasselli fondamentali della storia del teatro italiano ed europeo. La stampa lodò la prima e le successive rappresentazioni, come si intuisce dagli articoli raccolti nell’archivio personale del produttore Bruno Fantuzzi: “Lo spettatore viene come immesso in un antico flusso di sangue” (R. de Monticelli, Corriere della Sera); “Uno spettacolo ricco, appassionante, stupendo, musicalissimo, meraviglioso ed esplosivo” (A. Mascolo, Gazzetta di Parma); “Siamo di fronte a un capolavoro” (G. Del Re, Il Messaggero); “Allegra e amara, fidente e disincantata, pagana e cristianissima, l’anima autentica di una millenaria civiltà” (G. Geron, Il Giornale); “Trascinante rapsodia di Napoli antica” (M. Rietman, Il Secolo XIX).

“Cercavo il vinile come un sacro Graal – ha raccontato Cesare Basile –. Da un primo ascolto di La gatta Cenerentola mi si aprì un mondo e compresi che quello che musicalmente stavo cercando da una vita, ovvero il blues, era lì. Fino a quel momento l’avevo cercato altrove, attraverso la musica americana, dei neri. La gatta Cenerentola invece mi spiegava che il blues potevo trovarlo da un’altra parte. Il mio blues. Ovvero quella musica che non è propriamente codificata, che non è statica, che non ha una forma fissa definita, anche se poi tutti cercano di ingabbiarla, la musica popolare chedi per sé non ha schemi riconoscibili. La gatta Cenerentola mi ha dato una chiave interpretativa per quella che era la mia ricerca, mi ha fatto capire cos’era il blues”.

Versione discografica completa:

Versione teatrale della compagnia Media Aetas diretta dal maestro Domenico Virgili, proposta nel 1999.

Altra opera straordinaria, Mistero napoletano, di cui De Simone fu autore e regista, andò in scena al Teatro Metastasio di Prato (1978) con interpreti della neonata formazione Il Cerchio, tra cui Concetta Barra (madre di Ciulla, Sibilla Cumana, la Madonna), Giuseppe Barra (Re Davide, Razzullo) Isa Danieli (Ciulla della Pignasecca). Opera molto articolata, divisa in tre atti, in cui è facile riconoscere l’idea di società che De Simone evocava, il suo parteggiare per il mondo popolare, più vero e intriso di realtà.

Il testo nasceva dall’idea di mettere in luce la netta contrapposizione tra mondo popolare e mondo controriformistico gesuitico (che rappresenta la parte di società più rigida e altolocata). Sulla scena, un emblematico confessionale-pulpito era contrapposto a una enorme bocca infernale, mentre nella zona centrale un teatrino, luogo conteso dello scontro, era anche spazio di rappresentazione della città stessa, la Napoli popolare, vera protagonista. Incarnata da Ciulla della Pignasecca (Isa Danieli), pubblica meretrice e attrice, che si presentava in abiti da Madonna, volendo ricoprire tale ruolo nella sacra rappresentazione popolare, trovando però l’opposizione dal gesuita Francesco De Geronimo, fermamente convinto della sua opera missionaria tesa a convertire Ciulla e il suo mondo di guitti. Tutto lo spettacolo si giocava in una serie di scontri tra il mondo dei commedianti (il popolo napoletano), i quali tentavano di recitare una sacra rappresentazione, e il mondo gesuitico controriformistico che ostacolava questo proposito, ritenendo il popolo indegno di tale ruolo.

Nel finale una drammatica natività sullo sfondo di Napoli infuocata vedeva i commedianti cantare tra le fiamme come anime purganti o dannati. Ma una violenta risata di Ciulla e di Concetta Barra nelle vesti della Madonna rivelava chi fosse il vero vincitore del contrasto sociale, ovvero il popolo che si divertiva dell’ipocrisia del potere e della sua falsa sacra rappresentazione.

Spettacolo completo, dalle riprese Rai effettuate al Teatro Metastasio di Prato nell’anno 1978.

L’Opera buffa del Giovedì Santo (in tre atti) una sorta Beggar’s Opera, scritta da De Simone nel 1980, autore e regista, metteva di nuovo in scena Napoli, questa volta capitale borbonica con tutte le sue dinamiche conflittuali a carattere sociale, politico, culturale. Ha scritto l’autore nell’introduzione al testo: “Napoli nel secolo XVIII: una famosa capitale europea, una promessa non mantenuta, una speranza delusa, un interminabile e immobile giovedì santo, in attesa di una domenica di risurrezione, destinata a rimanere sempre attesa” (De Simone, L’opera buffa del giovedì santo, Einaudi).

Anche qui De Simone parteggiava per gli umili: gli studenti orfani che arrivavano dalle campagne, i pezzenti, i lazzari, le canterine. Tutti personaggi di matrice popolare, rappresentati nelle loro manifestazioni di subalternità e di rivalsa.

In questa Napoli del 1700 protagonista è Titta, un giovane castrato di umili origini. Era consuetudine che nei conservatori musicali della città, in particolare il Conservatorio dei poveri di Gesù Cristo, si riversassero giovani di origine contadina che per sfuggire alle precarie condizioni delle loro terre abbandonate, cercassero in città l’opportunità di una vita migliore entrando in conservatorio.

Protagonista è anche la povera realtà dei quartieri di Via Toledo dove la stessa miseria dà spettacolo di sé e si teatralizza per essere strumento di sopravvivenza per giovani prostitute, mendicanti, finte monache. E poi il Teatro (Teatro Nuovo) rappresentazione della Napoli di corte e luogo di intrallazzi e intrighi in cui ognuno cerca di garantirsi il favore di un pubblico o di un impresario. Nel finale qui va in scena la Partenope liberata composta da Eleonora, ex marchesa che ha in antipatia l’opera buffa e ha scritto un melodramma serio, che però si inceppa nella scena della rivoluzione (il riferimento è la rivoluzione napoletana del 1799). Nel gran epilogo corale sul palco guidati da Eleonora si canta in francese, di sotto le comparse continuano le loro filastrocche da opera buffa nella lingua del popolo.

Di quest’opera non si trova incisione discografica e neppure audiovisiva.

Napoli nella sua costante condizione di terra di conquista, saccheggiata e ingannata è raccontata anche nella canzone da lui composta, rimaneggiando un canto popolare anonimo, la seicentesca Michelemmà. Nascette mmiez’o mare, che dà il titolo all’album omonimo (1974, CGD, Renato Marengo,) prima incisione da solista di Concetta Barra, di cui De Simone è stato curatore, torna sul tema. Napoli, città violata, “da un padrone all’altro, attraverso una ossessiva ed immobile cavalcata; allo stesso tempo uno spaventoso anello girevole su se stessa al di fuori della Storia”.

Altre opere hanno visto la luce in anni successivi, come Il Re Bello (2004), Eleonora, composta per il bicentenario della rivoluzione napoletana (1999) incentrata sulla figura di Eleonora De Fonseca Pimentel, personaggio simbolo della Rivoluzione, impersonata da Vanessa Redgrave.

Musicista colto, prodigioso e talentuoso anche come compositore classico, è autore di capolavori come Requiem in memoria di Pier Paolo Pasolini (1985),

Stabat Mater in scena al San Carlo con protagonista Irene Papas, [prima parte, registrazioni Rai:

Festa Teatrale composta per il 250° anniversario del Teatro San Carlo, Carmina Vivianea, Populorum Progressio, cantata drammatica su testi dell’Enciclica di Paolo VI, con la voce recitante di Michele Placido (2000),

Cantata per Masaniello.

Nell’ agosto del 1974 debuttava, a Napoli, alla Certosa di San Martino lo spettacolo Masaniello, di Elvio Porta e Armando Pugliese, con le musiche di Roberto De Simone. Successivamente, nell’89 andava in scena al Teatro Mercadante di Napoli Cantata per Masaniello (con il gruppo cileno degli Inti Illimani, protagonisti della Nueva Cancion Chilena). Estratto da una registrazione di Napoli Canale 21.

Anche da questo breve reperto audiovideo si può intuire la forza della musica di De Simone, capace di unire fraternamente popoli, culture, storie. Canna austina e Alleluja, Cantata per Masaniello.

Se Mistero e Processo di Giovanna d’Arco andò in scena con un cast stellare al Teatro di Pisa nel 1989, recentemente, nel 2024 la figura della pulzella d’Orleans è tornata a interessare De Simone che ha reinterpretato la vicenda della giovane francese realizzando il Mystère cinematografico per musica, composto a partire dalle diverse voci, da quelle più istituzionali del processo a quelle più popolari del mercato e dei cantastorie. (Roberto De Simone, Dell’Arco Giovanna D’Arco, Colonnese editore, 2024).

Nel 2010 ha composto El Diego, concerto dedicato alle manifestazioni popolari così sentite da sempre nella città campana per il campione argentino Diego Maradona, figura leggendaria, considerato patrono laico di Napoli.

Come regista di opere liriche, ricevette ingaggi lavorando in accordo con direttori musicali di grande levatura nei teatri più prestigiosi come il Teatro alla Scala. Qui ebbe contatti una prima volta nel 1972 (alla Piccola Scala), come autore delle ricerche musicali per un concerto della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Fu poi Riccardo Muti a chiamarlo per la regia di Nabucco di Giuseppe Verdi in occasione dell’Inaugurazione della Stagione 1986/87. Il consolidato rapporto con il Maestro Muti, si concretizzò nel 1989 con Orfeo ed Euridice di Gluck e Lo frate ‘nnamorato di Pergolesi, poi il 7 dicembre 1990 con Idomeneo. Il terzo, il 7 dicembre con Riccardo Muti, per l’apertura della Stagione 1995/1996, ancora mozartiano: Die Zauberflöte. (Dalla pagina social del teatro milanese).

De Simone è stato anche un grande ispiratore, che ha generato una schiera di musicisti, studiosi, operatori teatrali per i quali è stato un faro luminoso. Numerose le campagne di ricerca condotte con l’antropologa Annabella Rossi con la quale ha firmato tra i tanti lavori, Carnevale si chiamava Vincenzo: rituali di Carnevale in Campania, progetto che ha coinvolto gli studenti dell’Università di Salerno.

Dalle loro pagine social diversi hanno voluto ricordare il Maestro nel giorno della scomparsa. Di lui ha scritto il produttore Renato Marengo: “Avere avuto l’onore e il privilegio di lavorare con lui per molti anni, produrre i suoi dischi e le sue musiche per il cinema ma soprattutto i primi dischi della NCCP e di Concetta Barra e Lina Sastri nel Masaniello, non è stato un lavoro ma la più grande esperienza umana e culturale della mia vita. Conoscerlo e passare anni accanto a lui segnò una svolta per le mie scelte e per tutta la mia attività sia di scrittore e giornalista che di produttore discografico. Fu lui ad ispirarmi nel dar vita al Napule’s Power fu lui ad insegnarmi a vivere tra chi la musica la creava, contadini e pescatori. Un suo gesto ha guidato da sempre le mie scelte, un gesto politico e umano che voglio ricordare nel dolore e nell’ammirazione per questo genio, questo gigante di tutta la cultura musicale italiana e non solo. Roberto quando lo conobbi alla fine degli anni ’60 era anche un grande clavicembalista conosciuto in tutta Europa e ricordo che si rovinò le sue delicate mani scegliendo di suonare la tammorra. Quel gesto di abbandonare uno strumento da concerti classici, quasi salottieri per uno strumento usato da quei musicisti popolari che aveva riscoperto e tanto amato mi commosse e diventò anche per me un gesto guida.”

Edoardo Bennato

E poi Edoardo Bennato. “Roberto è un grande Maestro. Ci conoscemmo già da quando lui lavorava con la Compagnia di Zietta Liù a Napoli al centro televisivo a Pizzofalcone. Noi eravamo tre ragazzini di tredici, dodici, undici anni, avevamo fondato il Trio Bennato e suonavamo in televisione sotto la sua direzione. Poi insieme a mio fratello Eugenio e a Carlo D’Angiò fondò la Nuova Compagnia di Canto Popolare (lui aveva trovato delle villanelle nelle pinacoteche tedesche). Nello stesso periodo anche a me Roberto dava indicazioni sulla musica… su tutto. Quando incisi il primo album “Non farti cadere le braccia” gli chiesi “Roberto avrei bisogno di una scrittura orchestrale come quella di Elton John”. Negli album Tumbleweed Connection e Madman Across The Water l’arrangiatore orchestrale, l’inglese Paul Buckmaster, che guarda caso aveva studiato al Conservatorio di San Pietro a Majella, aveva fatto in modo che l’orchestra sinfonica non si muovesse più come nei decenni prima ‘a tappeto sonoro’, ma assecondando la ritmicità del rock. Roberto mi scrisse quindi gli arrangiamenti, i contrappunti di tensione ritmica per “Non farti cadere le braccia”, “Detto tra noi”, “Rinnegato”, “Campi Flegrei”, “Un giorno credi”, ecc., creando il movimento ritmico per l’orchestra che lui stesso diresse poi a Milano.  La presenza di Roberto è stata sempre per noi… per me, per Eugenio, fondamentale”.

Un concerto della Nuova Compagnia di Canto Popolare

“È calato il sipario su una vita che aveva fatto della melodia un racconto e della cultura popolare un ponte tra passato e futuro – ha scritto Angelo Branduardi – fondatore nel 1967 della Nuova Compagnia di Canto Popolare, De Simone era come un alchimista che trasmutava la tradizione del folclore campano in spettacoli di straordinaria profondità. La gatta Cenerentola, L’Opera Buffa del Giovedì Santo, Cholera, Il Re Bello – titoli che non sono soltanto opere, ma finestre su un mondo intriso di storia e passioni. Nel cuore del teatro San Carlo e nei corridoi del conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, la sua impronta ha danzato tra l’eleganza della tradizione e l’ardore dell’innovazione. È colui che ha cambiato il Palcoscenico, lasciandoci una partitura densa di vita e di arte. Le sue creazioni, immortali come il suono del tamburo che scandisce un rito antichissimo, continueranno a vibrare nelle corde di chi sa ascoltare il respiro del passato.”

Il teatro San Carlo di Napoli

Intellettuale di grande levatura, compositore di complesse e magniloquenti opere teatrali e strumentali nelle quali l’arte della combinazione tra colto e popolare ha trovato una simbiosi perfetta, rappresentativa della sua concezione della musica come forma d’arte totale, nata della contaminazione di esperienze plurime, dalla passione per il teatro, nella prevalenza del gesto rispetto alla parola, dunque del corpo come linguaggio eloquente, all’esplorazione della musica codificata nella Scuola musicale napoletana. Quella che a partire dal XVIII secolo apportò l’innovazione dell’opera in dialetto, vide il proliferare di spazi per lo studio e per le messe in scena degli artisti più all’avanguardia, compositori napoletani e campani che contribuirono al prestigio della scuola. Come Domenico Scarlatti, Domenico Cimarosa, Francesco Feo, Francesco Araja, in un momento storico in cui Napoli era la capitale musicale d’Europa. A Napoli si formarono compositori del calibro di Giovanni Battista Pergolesi, Alessandro Scarlatti, Andrea Perrucci, il librettista Pietro Metastasio che operò nei teatri napoletani. Al Conservatorio statale di musica di San Pietro a Majella, si formarono le più grandi menti musicali di quegli anni e di sempre, da Francesco Cilea, Ruggero Leoncavallo, Umberto Giordano, Giuseppe Martucci e Franco Alfano. Di questi stimoli si è nutrita la musica di Roberto De Simone, alla quale non è stato di minor importanza l’apporto delle esperienze di studio e ricerca dentro il ricchissimo patrimonio della cultura popolare campana, con i riti, i suoni, le danze, le leggende, le tradizioni di una terra fervida e materna, fatta di dialetto e di storia.

Ma Roberto De Simone è stato anche autore di canzoni, di parole e musiche nelle quali la sua gigantesca cultura musicale classica ha dialogato con l’invenzione di una formula nuova, che non è pop, che non è folk, che non è progressive, che non è jazz, che non è swing, che non è cantautorale, ma che è tutto questo mescolato insieme, a cui ha dato voce egli stesso incidendo nel 1977 un album originalissimo e molto intimo Io, narciso, Io (Rca). “È un disco folle – ha commentato Cesare Basile – veramente geniale, avanti soprattutto nei testi, poeticamente sperimentali. Difficile definirlo? Decisamente un disco punk.”

All’editore Squilibri si deve la più ampia collezione di materiali raccolti in Roberto De Simone, Son sei sorelle. Rituali e canti della tradizione in Campania (2010) con le memorabili registrazioni realizzate in studio dal Maestro, riunendo i più rappresentativi cantori di una cultura secolare in via di estinzione, assieme a materiali sonori del tutto inediti, raccolti sul campo nel corso di una pluridecennale ricerca estesa a tutto il territorio regionale.

Per approfondire la sua fantasmagorica personalità, un film e un documentario in cui sono raccolte numerose interviste.

All is Fake – Roberto De Simone (2001), film di Wil Boettger e René Pandis.

Roberto De Simone, a proposito di… DOC 2024, documentario omaggio a Roberto De Simone.

Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi, Edizioni Interno4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli