Luigi Tenco (da http://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/ 1.294171.1485351916!/httpImage/image.jpg_gen/ derivatives/articolo_648/image.jpg)

“Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale e una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che chiarisca le idee a qualcuno. Ciao, Luigi.”

Luigi Tenco, Sanremo, 1967.

 

Questo il messaggio scritto da Luigi Tenco prima di uccidersi con un colpo di pistola, a 29 anni, la notte tra il 26 e il 27 gennaio 1967 a Sanremo, nel corso del XVII Festival della canzone italiana. Da poco era arrivata la notizia che la sua Ciao, amore ciao, da quel concorso, era stata esclusa.

Ciao, amore, ciao, una ballata sociale che raccontava il dramma popolare dell’emigrazione, l’altra faccia del boom, quella buia e dolente, quella della lenta sparizione di un mondo rurale e della civiltà contadina sopraffatti dall’industrializzazione, dall’urbanizzazione, dall’abbandono delle campagne per un lavoro operaio, impiegatizio. Al nord. Una canzone che denunciava le ingiustizie e le ipocrisie di una società fondata sul disequilibrio.

Tenco sperava di riuscire a dialogare con un pubblico vasto come quello del festival nazionale. Per educarlo a una canzone diversa: “Io faccio delle canzoni – diceva – e anziché farle per guadagnare dei soldi scrivendo canzoni che parlano di fiorellini eccetera, io faccio delle canzoni parlando di determinate cose alle quali io credo” [“Cronaca”, 6 febbraio 1967, resoconto del dibattito su “La canzone di protesta”, Beat 72, Roma, novembre 1966].

Un progetto nobile, il suo, che si ricollegava alle precedenti esperienze di Cantacronache (Manifesto: La canzone dei fiori e del silenzio), come del Nuovo Canzoniere Italiano e di tutti quegli artisti che come lui erano andati alla ricerca di un nuovo senso da conferire alla musica e alla canzone. Una canzone controcorrente. Che parlasse di amore, ma anche dei problemi sociali. Capace di mostrare la verità, la realtà. Di indurre a riflettere, a saper guardare, a giudicare.

Accesa la polemica, già negli anni appena precedenti: “La canzone italiana – scriveva infatti Massimo Mila – è una sudicia industria dell’illusione, che vende i piaceri solitari del sogno a una gioventù scontenta del proprio stato, e così la tiene lontana da ogni tentazione di intraprendere qualcosa di serio per modificarlo…” [Massimo Mila, La canzone scenderà in terra in “l’Espresso”, 23 marzo 1958, p. 22].

Il grande esperto di musica Massimo Mila (da http://www.rifugiomila.it/wp-content/ uploads/2013/01/mila-massimo.jpg)

Canzoni che funzionavano come mezzi per tenere lontani i problemi quotidiani, per indurre a ignorare la cronaca e la realtà, per diffondere sentimenti di tranquillità e di rassicurazione. Canzoni, il cui contenitore privilegiato era proprio l’Ariston di Sanremo, il “palcoscenico della smemoratezza italiana” [Stefano Pivato, Bella ciao, p. 206].

Invece Tenco, su quel palcoscenico, “voleva urlare addosso le sue canzoni diverse – scrive Giovanna Marini – proprio a quel pubblico di borghesia conformista che con la sua inarrestabile crescita gli aveva procurato tanta rabbia, tante frustrazioni”. [Giovanna Marini in De Angelis, Deregibus, Sacchi, Il mio posto nel mondo, p. 191]. Un pubblico abituato ad altre mode, altri ritornelli. Quell’anno vincerà la tradizionalissima Non pensare a me cantata da Claudio Villa e Iva Zanicchi:

Non pensare a me, /Continua pure la tua strada senza mai pensare a me. /Tanto, cosa vuoi, c’è stata solo una parentesi fra noi.

Tenco, invece, apparteneva a un mondo troppo distante, un mondo che si organizzerà dopo la sua morte, quello della canzone militante, politica, che aveva radici nella canzone contadina, proletaria, povera, con nessuna ambizione di successo commerciale. Il suo percorso nella musica si rivelerà dunque così tortuoso e sofferto da renderlo un artista e un uomo quasi completamente solo.

Ma se è vero che, con questa morte, Luigi Tenco e la sua canzone sono diventati simbolo di qualcosa di più grande dello stesso mondo della canzone cui appartenevano. Se è vero, come scrive Marco Santoro, che questo “trauma collettivo” è stato generatore di una svolta culturale, tale da legittimare la “nuova canzone, rispetto a quella tradizionale e/o di consumo, rappresentata in questo dramma da figure come Claudio Villa, Orietta Berti o lo stesso Gianni Pettenati, in gara con una canzone considerata da molti, Tenco incluso, falsamente di protesta come “La rivoluzione”. Se è vero che questo tragico evento è diventato un tale oggetto culturale da rendere lo stesso Tenco, non solo un simbolo della successiva contestazione giovanile, ma il “fondamentale strumento retorico e politico in un processo di costruzione sociale del cantautore come artista e soprattutto della canzone d’autore come canzone d’arte” (vedi Premio Tenco, istituito nel 1974 allo scopo di dare voce alla canzone d’autore e d’impegno) [Marco Santoro, Effetto Tenco, pag.49].

Se è vero tutto questo, allora occorre rinnovare con forza quella protesta, inscritta nelle parole e nelle musiche delle sue canzoni. Renderla sempre viva e attuale. Riaffermare la funzione sociale della canzone alla quale Tenco si richiamava. E soprattutto, occorre chiedersi se le idee sulla musica, che lui teneva si chiarissero, chiare lo siano poi diventate davvero. Oppure se, invece, non sia cambiato nulla, e quel conflitto abbia continuato a essere ben che mai risolto.

Intanto, quale protesta?

“La mia non è una protesta che nasce intellettualmente, con il fatto di dire adesso io protesto contro Tizio o contro Caio. È una protesta che nasce al di fuori della propria volontà. Nasce dal fatto che uno si sente estraneo a un dato meccanismo” [“Cronaca”, 6 febbraio 1967. Resoconto del dibattito su “La canzone di protesta”, Beat 72, Roma, 1966].

La protesta di un cantautore che riusciva a stare fuori dalle regole anche quando si sforzava di starci dentro [Giovanna Marini in Il mio posto nel mondo, p. 188]. Un cantautore diverso da tutti gli altri.

Luigi Domenico Tenco nasce in Monferrato, a Cassine, provincia di Alessandria, il 21 marzo 1938. Da sua madre, Teresa Zoccola, scoprirà, ancora bambino, che il padre, fino allora creduto morto per il calcio di una mucca, era in realtà un avvocato torinese che aveva presto abbandonato la famiglia. Teresa, con i due figli, Luigi e Valentino, si trasferirà a Nervi ed è proprio nel genovese che Tenco farà le prime esperienze musicali. Impara a suonare il pianoforte, il clarinetto, fonda band, partecipa ai primi festival del rock, comincia a scrivere canzoni e soprattutto conosce giovani musicisti.

Scuola genovese, dunque. Anticonformisti e spregiudicati, i cantautori che ne fanno parte sono torturati dall’ansia di rinnovamento, perennemente scontenti della realtà che osservano con occhio severo. Umberto Bindi, Bruno Martino, Gianni Meccia, Gino Paoli, Fabrizio De André, Bruno Lauzi, Sergio Endrigo, Piero Ciampi. Questi “cantautori del malessere” [Felice Liperi, Storia della canzone italiana, p. 225] vedono in quei primi anni Sessanta, una realtà offuscata da venature malinconiche, ombre incombenti del mal di vivere quotidiano, i fallimenti personali, gli amori perdenti e disperati che si celano dietro i bagliori del boom economico e anche dopo. Lungo questa strada prende forma una canzone introversa e dai risvolti intimistici, in taluni casi di opposizione al patinato mondo piccolo-borghese, in altri rappresentazione del mondo dei vinti, degli emarginati, dei deboli, critica sarcastica all’italietta del miracolo economico e dei suoi falsi miti. Le canzoni della scuola genovese saranno il frutto di una “rivoluzione etica e linguistica, l’aver cercato parole vere e adeguate per raccontare la vita di tutti i giorni e i sentimenti e gli incontri dell’esistenza quotidiana” con toni colloquiali e scabri [Paolo Jachia, La canzone d’autore italiana 1958-1997, p. 41]: era “la vita che irrompe, una volta tanto, sul palcoscenico” [Gianni Borgna, Simone Dessì, C’era una volta una gatta, p. 82].

Con questi autori Tenco condivide la sincerità assoluta, il voler esprimere in una canzone ciò che veramente si ha dentro, il mondo personale e privato, con verità e schiettezza, senza pudori. La verità delle cose anche nella loro più umana verità: “Mi sono innamorato di te – scriverà – perché non avevo niente da fare”. Nulla a che fare con la banalità di amori esotici e idealizzati, irreali e sublimati come quelli evocati in gran parte delle canzonette di quegli anni.

Ma Tenco non è veramente genovese, c’è una distanza che lo rende comunque diverso. Non esiste il mare nelle sue canzoni, e non compare la città moderna e scintillante, come fa notare Enrico Deregibus. Ma si sentono le colline, le valli, le pianure verdi. Perché il suo paesaggio è quello piemontese e monferrino, la campagna e la quiete. [Il mio posto nel mondo, p. 28].

E poi, manca la satira pungente della canzone francese, tanto cara ai genovesi. Di Brassens o Breil. Ma c’è il jazz, la musica americana che tanto permea la ritmica dei suoi pezzi. Una ritmica tutta sua, che nemmeno richiede sostegno di batteria e o basso. Si sostiene da sola.

Il cantautore francese George Brassens (da http://www.fumeursdepipe.net/ galperso/01/large/3.jpg)

Canzoni diverse da quelle dei cantautori della scuola genovese, dunque. Ma diverse anche da quelle della scuola milanese, anche se in forte sintonia. Milano in quegli anni è centro di ricerca sulla canzone popolare e sulla sperimentazione di nuovi linguaggi, come la riproposta di canzoni dialettali. Attorno al Piccolo Teatro si raccolgono personalità di artisti e intellettuali che, sull’esempio di Brecht, aprono il teatro alla canzone. Fondono canto, musica, cabaret, scrittura musicale. Nascono canzoni popolari che parlano di fatti reali, con tutta la loro crudezza e verità. Le “canzoni della mala” con i testi di Giorgio Strehler e Dario Fo, le musiche di Fiorenzo Carpi e la voce di Ornella Vanoni. E poi, la canzone-cabaret dei Gufi, il grande salto della canzone d’autore con la poesia di Enzo Jannacci. La sua attenzione al mondo dei disgraziati, una dolente umanità ai margini, le prostitute, gli emigrati, i barboni per le strade, raccontati attraverso il suo linguaggio stralunato. Giorgio Gaber, invece, negli stessi anni, lancia la figura enigmatica del “Signor G.”, emblema del cittadino mediocre pronto a cambiare casacca all’occorrenza, inadeguato e continuamente animato da sensi di colpa e frustrazioni. Milano è anche sede del Nuovo Canzoniere Italiano con Ivan della Mea che Tenco conosce e di cui condivide l’impegno.

E poi la scuola torinese. Prima della scuola genovese e di quella milanese a Torino nasceva Cantacronache con l’idea di una canzone che si occupasse della realtà, dei fatti della vita di tutti i giorni: l’amore alla prova dei turni di lavoro, le morti nelle miniere, le uccisioni negli scontri di piazza. Di un’Italia abbagliata dal miracolo economico, che preferiva l’illusione di poter evadere dalla realtà, intonando canzonette e melodiosi ritornelli, invece di combattere le contraddizioni, le ingiustizie sociali, le prepotenze della politica. Anche loro contestavano il festival sanremese e quella canzone troppo distante dai problemi quotidiani di un paese che voleva dimenticare subito e troppo presto un passato ancora irrisolto. La guerra appena finita, con i suoi strascichi, con i suoi morti, le macerie, le divisioni politiche, i rossi e i neri, i fascisti e i partigiani.

La loro dura polemica contro la canzone leggera, che sintetizzeranno dello slogan “evadere dall’evasione”, sarà di certo una delle spinte che condurrà Tenco sul palco del festival di Sanremo.

Già Fausto Amodei in Ratto della chitarra raccontava la storia della sua chitarra rivoluzionaria, pronta a cantare contro padroni e potenti, ma per questo rapita, ripulita, lavata e trasformata in chitarra benpensante, pronta ad affrontare i grandi palcoscenici:

Mi vorrei proprio sbagliare/ma so già che il rapitore/porterà la mia chitarra/sulla via del disonore/prostituta e svergognata/un bel dì la sentiremo/a suonar sui marciapiedi/le canzoni di Sanremo

Come Amodei anche Tenco non amava lo scenario festivaliero, inadatto alle sue canzoni: “Le giurie – diceva – non accetterebbero mai canzoni che dicano cose vere in un linguaggio crudo e immediato [Mario Luzzatto Fegiz, Morte di un cantautore, affermazione datata al 1966]. Ma forte era l’idea di tentare una contestazione che partisse dall’interno, da dentro il sistema per corroderlo e piegarlo a una nuova funzione, quella educativa, capace di far riflettere, prendere coscienza della realtà. “Anche la canzone – diceva – può servire a far pensare”. E a combattere l’ignoranza. Tanto quanto l’istruzione obbligatoria [Da “Cronaca”, 6 febbraio 1967. Resoconto del dibattito su “La canzone di protesta, Beat 72, Roma, 1966].

Intorno, in quegli anni, c’è uno scenario culturale, sociale e politico in continua evoluzione. Dagli anni del boom, delle rivolte di piazza del governo Tambroni, con i morti di Reggio Emilia nel luglio ’60, ai primi scioperi. Fino ai più radicali scontri, già a partire del ’66, che coinvolgono operai e studenti ed esploderanno nel ’68, l’anno successivo alla sua morte. Intorno c’è anche l’industria del disco e della canzone che prende piede con la nascita delle case discografiche, dei 45 giri, e dei progetti culturali a sostegno del cantautore, che scrive, canta e interpreta il suo personale modo poetico. La canzone che diventa business. Intorno ci sono le nuove mode, il folk e il rock che arrivano dall’America, gli urlatori che si scatenano in televisione e mandano in visibilio milioni di teenagers.

Ma le mode non contano. Tenco continua a pensarla a suo modo, non gli interessano le nuove tendenze, ciò che piace al pubblico. Ha una sua idea e la porta avanti. Vuole creare una canzone popolare italiana in cui la gente possa identificarsi, riconoscere le proprie radici, riaffermare il proprio mondo di tradizioni e culture, la propria originalità. Una canzone che possa anche appoggiarsi a un linguaggio colto, e che possa esprimere la migliore tipicità: “Nessuno fa niente per la nostra musica – diceva -. Eppure il patrimonio folkloristico è così vario che ogni cantante e compositore potrebbe attingervi mantenendo la propria personalità”. [Lettera di Tenco del 25 gennaio 1967 al quotidiano genovese “Il Lavoro”, pubblicata il 28 gennaio.]

Nel 1959 aveva incominciato a incidere i primi 45 giri: Mai, Giurami tu, Mi chiedi solo amore, Senza parole. Lp pubblicato con il gruppo “I Cavalieri”. Nel giugno 1960 usciva Quando che in breve tempo saliva le classifiche dei 45 giri. Nel 1962 incideva il primo 33 giri intitolato Luigi Tenco. Comprendeva: Quando, Una brava ragazza, La mia valle, Cara maestra, Il mio regno, Angela, Mi sono innamorato di te, Io sì, Il tempo passò, Come mi vedono gli altri. Solo nel 1964, anno in cui passerà alla casa discografica Saar, gli verrà proposto di partecipare al programma tv La comare sul secondo canale Rai. Interpretava, oltre alle sue canzoni, altre ballate di taglio più sociale. Perfino Io sì e Una brava ragazza, fino ad allora censurate. Aveva nel frattempo già preso contatti con esponenti del Nuovo Canzoniere Italiano con cui si esibirà, insieme a Jannacci, al Teatro Lirico di Milano.

Nel 1965 usciva il suo secondo album Luigi Tenco, che comprendeva: Ho capito che ti amo, Non sono io, Ah…l’amore, l’amore, Ragazzo mio, Io lo so già, Se potessi, amore mio, Tu non hai capito niente, La ballata dell’amore, Com’è difficile, Vedrai, vedrai, Quasi sera, No, non è vero.

Dalida con Luigi Tenco (da https://upload.wikimedia.org/ wikipedia/it/4/44/Dalida_e_luigi_tenco.jpg)

Nel 1966 passava alla Rca e si trasferiva a Roma. Usciva anche il terzo album, Tenco. Conteneva: Lontano, lontano, Io sono uno, Uno di questi giorni ti sposerò, Come tanti altri, Se sapessi come fai, Io vorrei essere là, Un giorno dopo l’altro, Ognuno è libero, Amore, amore mio, Ma dove vai?, E se ci diranno, Vedrai, vedrai. 

In quell’anno nasceva la collaborazione con Dalida e l’idea di portare al festival il suo brano Ciao, amore ciao. Nel ’66 sarà, anche, tra i firmatari di un manifesto per una “Linea gialla” della canzone in cui gli autori (tra cui Lucio Dalla, Sergio Bardotti, Gianfranco Reverberi) contestavano la “Linea verde” proposta da Mogol. Ovvero quella di una canzone di protesta moderata, votata a tematiche quali l’ecologismo, la natura da preservare. Sostenevano una battaglia di chi voleva essere “contro” ma su argomenti piuttosto condivisi: la pace, la libertà. Buoni propositi da raggiungere senza alcuna reale azione sovversiva. “I motivi della protesta dei giovani non si sono affatto esauriti – si legge nel manifesto -. Anzi, basta guardarsi intorno, sia in Italia, sia nel mondo, per rendersi conto che tutti quei presupposti che sono alla base della rivolta dei giovani sono oggi più validi che mai. Perché oggi più che mai, la libertà dei giovani in ogni parte del mondo corre un serio pericolo da parte di tutte quelle forze reazionarie che, ben lungi dall’essere state debellate, hanno invece nuove terribili armi per cercare di far tenere i cervelli nell’ovatta e le bocche chiuse […]. Perché dunque la linea verde? A cosa serve? E, soprattutto, a chi serve? Serve a chi vuole intorbidare le acque o per cause bassamente pubblicitarie o comunque speculative. Le linee verdi ci preoccupano in quel loro esplicito tentativo di fuorviare le idee dei più giovani […]. Noi nella pace e nella libertà non vogliamo sperare, ma preferiamo lottare su una trincea fatta di splendide e significative note, per conservarle o conquistarle” [Big, n. 44, 2 novembre 1966].

Per lui non aveva senso scimmiottare le proteste degli americani che in quegli anni si schieravano contro la guerra in Vietnam. Ma l’Italia? In Italia c’erano ben altre questioni su cui alzare la voce: “Noi abbiamo mille altre cose contro cui protestare. Possiamo protestare contro il clericalismo, l’affarismo, la corruzione, la mancanza di una legge sul divorzio, gli scandali a ripetizione, il qualunquismo, la burocrazia bestiale…e questa protesta non viene mai fatta. Preferiamo scimmiottare le proteste americane, cosa oltretutto facilissima qui in Italia, dato che non c’è nessuno che si senta pizzicato quando tu gli dici che è sbagliato morire, viva la pace, eccetera. Parlagli del divorzio, della mafia e di altre faccende che scottano, e allora vedrai che la gente si arrabbia e ti dà addosso…” [“Cronaca”, 6 febbraio 1967. Resoconto del dibattito su “La canzone di protesta”, Beat 72, Roma, 1966].

La necessità di affrontare tematiche sociali, di andare controcorrente, è la spinta a scrivere gran parte dei suoi testi. Ci sono quelli contro la guerra, come la Ballata del marinaio. In quell’anno distante dall’Italia, ma con una eco fortissima, arrivava la notizia della crisi di Cuba e poi dell’imminente guerra del Vietnam. È una ballata molto intimista, che guarda nell’animo di chi è costretto a combattere nella totale solitudine: gli uomini sono tutti uguali e soli in guerra. E le guerre non fanno altro che l’interesse dei potenti. Così, la canzone è la storia di un marinaio che affronta la nave nemica in battaglia. Ma il marinaio, mentre combatte, intanto sogna. Il suo nemico è proprio colui che vuole rapire i sogni di chi sa sognare. Difendere i propri sogni diventa la priorità, la vera posta in gioco, la battaglia in campo. E il sogno più grande è quello di saper amare.

Un marinaio in mezzo al mare/con una barca ed un cannone./È andato là per fare la sua guerra/ad un nemico/che non ha mai visto.

Oppure ci sono le canzoni che contestano, come già Cantacronache, i nefasti effetti del boom economico:

Togliamoci di dosso ’sta mania / che chi ci ha i soldi deve aver ragione:/ piantiamola così di darlo via /in cambio a un’auto e ad un televisore / che diventa un fatto comico /’sto miracolo economico, / se tanta gente da ben due mesi vive senza niente.

Così cantava Fausto Amodei nella Canzone della Michelin, nel 1962.

E Tenco scrive la Ballata della moda (1964) una canzone che mette in guardia sui rischi di un sistema persuasivo come quello pubblicitario, basato sul meccanismo perverso di convincere, non solo ad acquistare prodotti, ma anche a pensare o fare qualcosa attraverso meccanismi indotti. È la perdita della libertà, della capacità critica di comprendere e prendere le distanze da messaggi siano essi commerciali o slogan politici:

Era l’autunno e il cameriere Antonio/servendo ad un tavolo di grandi industriali/sentì decidere che per l’estate prossima/sarebbe andata di moda l’acqua blu/Loro dicevano che bastava fare una campagna di pubblicità/Mettere in ogni bar un po’ di bottigliette/ed il successo non poteva mancare

Morgan la reinterpreta al Premio Tenco 2016:

Altra canzone che contesta gli status symbol del boom è Giornali femminili, contro il divismo esasperato e il vuoto dei contenuti di una società frivola:

Leggendo certi giornali femminili/verrebbe da pensare che alla donna/interessino poco i problemi più grandi:/Trasformare la scuola, abolire il razzismo,/proporre nuove leggi, mantenere la pace.

La canta anche Baccini:

Mentre la Ballata della vita familiare mette in discussione l’idea stereotipata della donna costretta nel ruolo di procreatrice, allevatrice di figli forza lavoro funzionali alla conservazione di un sistema arcaico e mortificante. Il giudice, di fronte alla richiesta del marito, risponde, in ossequio alla morale corrente, che la moglie ha ben rispettato il vincolo:

Perché l’hai sposata?/Per avere dei figli che mi dessero una mano, una mano nel lavoro./E lei te li ha dati questi figli?/Beh…eh no…cioè sì…ma effettivamente…certo che me li ha dati./E allora non avrai mai il permesso di lasciare tua moglie, di andartene via

Nel 1962 Tenco scrive Cara maestra, una canzone di protesta civile, una delle prime dopo quelle di Cantacronache e che anticipa la Ballata per Ciriaco Saldutto di Ivan della Mea. Canzone rivoluzionaria che per la prima volta fotografa una realtà scolastica fatta di conformismo, di regole rigide, di gerarchie sociali che prediligono i ruoli invece del rispetto alla persona:

“Una scuola di classe – scrive Diego Giacchetti – che riproduceva le classi sociali, la divisione fa dirigenti e diretti, che tendeva a fare degli studenti operai e tecnici specializzati da inserire nella grande produzione e non degli uomini con una propria coscienza critica” [Diego Giacchetti, Anni Sessanta comincia la danza, p.41]. Una canzone tanto rivoluzionaria che verrà censurata e Tenco allontanato dalla Rai per almeno due anni.

Cara maestra, un giorno m’insegnavi /che a questo mondo noi, noi siamo tutti uguali;/ma quando entrava in classe il Direttore /tu ci facevi alzare tutti in piedi, /e quando entrava in classe il bidello /ci permettevi di restar seduti

Con la Ballata dell’arte, invece, Tenco vuole ribadire il ruolo fondamentale dell’artista nella società del suo tempo. L’artista, sembra dire, non è colui che vive distaccato dalla realtà chiuso in una torre d’avorio, ma è chi ha occhi per saper guardare le incertezze, le inquietudine del vivere quotidiano:

C’è chi dice che l’arte/non ha rapporti con la società,/per cui l’artista vero/non si occupa mai/di problemi sociali,/lui si sente isolato,/chiuso in problemi intimi,/problemi che coinvolgono/la personalità

L’artista deve essere parte della società, non esserne al di fuori, ma conservando su di essa uno sguardo critico e la consapevolezza di un impegno civile, quello della verità. Stesso concetto di Io sono uno (1966):

Io sono uno / che non nasconde le sue idee, / questo è vero, /perché non mi piacciono quelli / che vogliono andar d’accordo con tutti / e che cambiano ogni volta bandiera / per tirare a campare

Live, dalla trasmissione Incontro con Luigi Tenco (1966)

Ma la poetica tenchiana include anche l’esplorazione del mondo interiore con le sue emozioni e le sfaccettature dell’animo umano, tra noia e amori inquieti o impetuosi. Ma mai stereotipati, quanto invece intrisi della verità del quotidiano con tutte le sue contraddizioni. La noia è quel sentimento grigio che vela come un’ombra esistenze inutili, che si riempiono di vanità, di oggetti da acquistare, di domeniche spese nel solito far niente o nei cine, come le coppie di Qualcosa da aspettare, cantate da Fausto Amodei:

Ne hanno fatto miglior uso,/dentro i cine ed a ballare,/tante coppie che, anche al chiuso,/non rinunciano/ ad amare;/che poi, prima di lasciarsi,/si daranno brevemente/la promessa di trovarsi/la domenica seguente:/questa promessa che è poi la sola cosa/che importa ed ha uno scopo:/ci fa sembrare un po’ meno noiosa/la settimana dopo…

Storie di coppia, storie di matrimoni in cui il sacro rito, in tempi di esaltazione del profitto, si palesa per quello che è: niente più che un contratto d’interessi in cui l’amore, se esiste, rappresenta un fatto quasi casuale, come in Un giorno di questi ti sposerò:

Un giorno di questi / ti sposerò, stai tranquilla, /così la smetterai /di darmi il tuo amore /col contagocce

La canta Sergio Cammariere:

Così, per Tenco, anche l’amore è prodotto della noia, dell’indifferenza, dell’apatia:

Mi sono innamorato di te/ perché/ non avevo niente da fare: /il giorno /volevo qualcuno da incontrare / la notte /volevo qualcosa da sognare (Mi sono innamorato di te, 1962)

Brano tra i più noti, lo cantano in tanti: interpreti maschili, come Morgan

ma soprattutto femminili: da Mina

a Ornella Vanoni.

Con un linguaggio quotidiano e diretto Tenco rivela le verità scomode di quei sentimenti ordinari e senza slancio che sono facili diversivi alla solitudine. Promesse di improbabili cambiamenti come in Vedrai, vedrai, dichiarazione d’intenti dedicata alla madre, che contiene, insieme, malinconia e voglia di riscatto agli occhi di chi, forse, si ha deluso:

Vedrai, vedrai/Vedrai che cambierà/Forse non sarà domani/Ma un bel giorno cambierà/Vedrai, vedrai/No, non son finito sai/Non so dirti come e quando/Ma un bel giorno cambierà

Mia Martini, accompagnata al pianoforte da Ivano Fossati, la canta con tutta la disperazione possibile:

emozionante la versione di Mauro Ermanno Giovanardi:

Ma gli amori possono anche diventare malattie, legami così stretti da togliere il respiro. Possesso fisico e ossessione. Come in Angela, una canzone che parla d’amore con la lingua della realtà, della verità, del dolore, della disperazione:

Angela, Angela, angelo mio, / quando t’ho detto che voglio andarmene /volevo solo vederti piangere / perché mi piace farti soffrire

Mauro Ermanno Giovanardi (La Crus) la interpreta incredibilmente così:

E nelle sue mille sfumature l’amore, nella poetica tenchiana, è anche tormento del corpo e dell’anima, è dolore e strazio che si manifesta nel momento della perdita, dell’allontanamento della persona amata. Come in Quando, la prima sua vera grande canzone, che “consegna Luigi Tenco alla storia della canzone d’autore italiana” [De Angelis, Il mio posto nel mondo, p. 11]:

Quando/il mio amore tornerà da me/nel cielo/una stella spenderà/s’è spenta da quando/il mio sogno è svanito/da quando il mio amore/fuggì da me

Live, dalla trasmissione Incontro con Luigi Tenco (1966)

Così la canta Peppino di Capri:

Ma l’amore diventa anche vendetta e maledizione, verso la donna amata, che possa patire analoghe sofferenze:

Ti ricorderai di me/quando m’avrai/perduto/ quando riderò/dei sogni /che per te /ho sognato (Ti ricorderai)

Oppure come Tu non hai capito niente:

Tu non hai capito niente /ma forse capirai/ quando un giorno mi sarò stancato /di te che aspetti sempre/ e quel giorno ti farò aspettare/inutilmente.

Live dalla trasmissione Le nostre serate, 1965:

La canterà anche Ornella Vanoni:

Sulle stesse corde è Lontano, lontano, un amore che finisce con una condanna che è come un contrappasso: l’impossibilità di dimenticare:

E lontano lontano nel mondo/Una sera sarai con un altro/E ad un tratto/Chissà come e perché/Ti troverai a parlargli di me/Di un amore ormai troppo lontano

Canzone che è diventata patrimonio nazionale e anche di più. La canta Pino Daniele al Premio Tenco 1993.

Poi, tra i tanti: Enzo Jannacci;

Gilberto Gil;

Gino Paoli;

Francesco Guccini;

Roberto Vecchioni;

Antonello Venditti;

Claudio Baglioni;

Morgan;

Milva;

Gianna Nannini;

Federico Fiumani;

Nada;

Dalida;

Malika Ayane;

Jovanotti;

Patty Pravo.

Ma se neanche l’amore è più un antidoto contro la noia, se neanche questo può salvare da un’esistenza inutile, allora tanto vale evadere. Perdersi nell’insoddisfazione di non poter politicamente risolvere i mali del mondo e nemmeno curare le sofferenze dell’animo. Perdersi nell’incapacità di essere ciò che si vorrebbe essere, senza riuscire ad adattarsi a ciò che si è:

Vorrei/provare/a essere un’altra persona,/per vedere/me stesso/come mi vedono gli altri (Come mi vedono gli altri)

Ritrovare le proprie radici nella natura, in un mondo di cose semplici: il lavoro dei campi, il trascorrere delle stagioni, la raccolta dei frutti della terra. Oasi nel deserto degli inganni e delle false apparenze della vuota vita borghese:

Se un giorno tu verrai via con me, amore mio/ andremo insieme a vivere là, nella mia valle/ dove la gente lavora i campi/dalla mattina sino alla sera/senza problemi per il vestire/ e con la barba sempre da fare

(La mia valle dalla trasmissione Questo e quello, 1964)

Il 13 novembre 1966 la Rai trasmetteva Incontro con Luigi Tenco in cui il cantautore interpretava una lunga scaletta di sue canzoni. In quel momento stava progettando un disco sulla canzone tradizionale popolare italiana. “Finalmente si avvicina il mio momento – aveva detto –. L’ondata dei beat e delle canzoni di protesta sta piano piano portando i giovani sulle mie posizioni. Ancora qualche anno, forse solo qualche mese, e mi capiranno. Ora che i tempi sono maturi voglio tentare di sfondare col grande pubblico. Adesso potrei anche venire a patti con l’industria discografica, adesso che sono loro che vengono a cercare me.” [Dichiarazione riportata in Morte di un cantautore, Mario Luzzatto Fegiz, datata al 1966].

Il 26 gennaio del 1967 Luigi Tenco cantava Ciao, amore ciao al festival della canzone di Sanremo:

Non saper fare niente in un mondo che sa tutto/E non avere un soldo nemmeno per tornare

Ciao amore

Ciao amore, ciao amore ciao

Ciao amore

Ciao amore, ciao amore ciao

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli