Conversando su Pier Paolo Pasolini. Matteo Marchesini è nato nel 1979 a Castelfranco Emilia e vive a Bologna. Poeta, narratore e saggista, oltre ad alcuni libri per ragazzi ha pubblicato la raccolta di versi Marcia nuziale (Scheiwiller, 2009), le satire di Bologna in corsivo. Una città fatta a pezzi (Pendragon, 2010), i ritratti letterari Soli e civili (Edizioni dell’Asino, 2012), il romanzo Atti mancati (Voland, 2013), la raccolta di saggi critici Da Pascoli a Busi (Quodlibet, 2014). Collabora con le pagine bolognesi del Corriere della Sera, con Radio Radicale, Il foglio e il Sole 24 Ore.
Si legge Pasolini oggi? Quale? Quello dei romanzi, delle poesie o degli articoli di giornale?
Di Pasolini si legge un po’ tutto, ma penso che ci siano delle parti “vive” e delle altre “morte”, come capita in qualunque autore.
La mia idea, forse, non coincide con la vulgata. Per molti, Pasolini è il poeta delle Ceneri di Gramsci o il narratore dei Ragazzi di vita (e forse è anche giusto, specialmente se si è adolescenti, scoprirlo così). Secondo me invece queste opere – non a caso coeve, di metà anni 50 – sono tra le più labili.
Pasolini esordisce negli anni 40 come un poeta decadente nel senso tecnico del termine, cioè come un autore ossessionato dai temi della regressione e della morte, di Narciso e della purezza. Invece il Pasolini tribunizio e pseudorealistico emerge soprattutto dopo il trasferimento (la fuga) dal Friuli a Roma, quando lo scrittore trentenne, con una gran voglia di affermarsi, si muove in modo parecchio tattico nell’ambiente letterario. Walter Siti ha notato, a questo proposito, che mentre Pasolini è sempre criticissimo con la società italiana, coi letterati appare invece piuttosto ecumenico e indulgente. Negli anni 50, quindi, comincia a mescolare un’ispirazione tipica da letterato decadente, costitutivamente chiusa in se stessa, con un opinionismo polemico e astuto: il che spesso non gli giova, perché si sente che è un’operazione in parte volontaristica, e che i due registri stanno insieme come l’olio e l’acqua. La vera narrativa pasoliniana, con le sue debolezze e i suoi pregi, non sarà tanto quella da filologo delle borgate di Ragazzi di vita e di Una vita violenta ma quella del cinema, di Accattone e Mamma Roma. Quanto alla poesia, così notevole alle origini, torna a liberarsi proprio quando il poeta riconosce il proprio inaridimento e scrive gli appunti slabbrati di Poesia in forma di rosa (metà anni 60), oppure quando la trasferisce negli ultimi saggi e articoli di giornale.
In ogni caso Pasolini si pubblica, e in libreria si trova quasi sempre. Quasi: perché nei mesi scorsi non sembrava purtroppo disponibile Descrizione di descrizioni, una raccolta di interventi letterari genialmente rozza, improvvisata, piena di intuizioni straordinarie.
Parlando del poeta, che cosa della poesia di Pasolini è diventato tradizione, trasmettendosi alla poesia successiva, sia dal punto di vista linguistico che dei topoi letterari?
Essendo Pasolini un autore estremamente manieristico, è chiaro che chi lo mima diventa per forza “smaccato”. Quindi quasi tutto quel che è visibilmente pasoliniano (e non è tanto) nelle generazioni successive ha un aspetto un po’ nauseante. Ci sono, sì, autori in cui questa componente ha avuto una sua forza: penso a Dario Bellezza; ma sono rari. Negli altri casi, secondo me, il risultato è francamente comico: leggere Gianni D’Elia per credere.
Ma se si vuole considerare anche l’influenza maggiore e più indiretta di Pasolini, va detto che nei suoi ultimi versi (Trasumanar e organizzar, uscito nel 1971 come la Satura montaliana) assume la condizione postmoderna della letteratura come uno scenario ormai naturale: la poesia qui non mostra più – come nella modernità – uno statuto privilegiato, non si oppone a un linguaggio massificato e giornalistico, è ormai anzi una cosa sola con la poltiglia di messaggi mediatici e gergali. In questo senso Pasolini ha contato per gli autori successivi, come ha contato Montale.
Infine va detto che al di là dei testi c’è l’ingombrante mito del poeta, che anche quando scrive cose piuttosto improbabili, abbozzi o aborti, chiede al lettore di accettare quello che Walter Siti ha chiamato una sorta di aberrante “procedimento figurale”: è come se pretendesse di redimere i difetti estetici attraverso la biografia che tutto unifica e giustifica. Molto malignamente Giovanni Raboni disse che Pasolini fu poeta in tutto eccetto che nella sua poesia. Le mie conclusioni non sono così estreme, ma è vero che molto spesso il mito esistenziale si è rivelato più resistente della pagina.
Quale Pasolini viene proposto a scuola e all’università, e come?
Anche nelle aule, ho l’impressione che conti più la figura del personaggio Pasolini che la sua opera effettiva. Si accetta così il ricatto pasoliniano, e anche quello dei suoi avversari più superficiali. Del resto, si trattava di un ricatto lungimirante: Pasolini ha visto per tempo che se l’opera “perdeva l’aura”, spesso quest’aura perduta si trasferiva all’autore-personaggio mediatizzato. Oggi viviamo in un clima in cui il fenomeno è dilagato a un livello molto più basso.
Quanto poi al grottesco ritornello giornalistico del “profeta”, bisogna opporgli che Pasolini ha semmai avuto la capacità di trasformare l’esperienza personale (visiva, erotica) che stava vivendo in una fonte di conoscenza sociologica. Nella nostra cultura sempre più irreale, accademica e/o mediatica, una cultura dove le persone, se non possono esibire specializzazioni o statistiche, o in alternativa l’alibi del puro slogan, hanno il terrore di trarre conclusioni da ciò che sperimentano ogni giorno, questa lezione resta molto preziosa. Ciò detto, l’accento va appunto sulla singolarità dello sguardo pasoliniano e della sua “semiologia dei corpi”. Perché nelle analisi non era certo da solo. La ricezione scolastica che tende a mitizzare Pasolini rischia di far dimenticare il contesto reale in cui operava, i suoi avversari e i suoi interlocutori. Sarebbe interessante e utile, ad esempio, mettere a confronto i suoi scritti con le obiezioni che gli mosse un intellettuale come Fortini: obiezioni che riguardavano soprattutto la tendenza del suo stile a sottrarsi a una responsabilità sia poetica che politica. Quando scrivi una poesia e ti dico che è brutta, lo accusava più o meno Fortini, allora tu ammetti che sì, lo è, ma ribatti che quel che conta è la sua immediatezza di manifesto, la sua valenza ideologica; ma se poi io ti dico che l’analisi politica che contiene è sbagliata, ecco che tu ti trinceri dietro la licenza estetica.
Per non farsi risucchiare da Pasolini, né sterilmente fraintenderlo come il Gruppo ’63, bisogna tenere un piede dentro e uno fuori da questo cerchio magico stilistico.
La lente della politica aiuta o no a capire meglio Pasolini?
Pasolini, come su altro versante Sartre, viene considerato l’engagé per eccellenza, eppure non nasce come intellettuale politico. Piergiorgio Bellocchio ci ha raccontato bene la sua giovinezza di tipico, squisito letterato italiano. La politica viene dopo: è legata a un trauma, e al tentativo di scalare la società culturale. Negli ultimi anni, perse le speranze e le ansie di affermazione, significativamente Pasolini torna alla “gioventù”: ma in forma funeraria, apocalittica. La politica si scioglie in un universo seriale, sadico, senza risarcimenti ideologici, quello di Petrolio e di Salò. La verità è che a un’ispirazione così narcisistica, così regressiva, i tentativi di aprirsi al mondo non fanno bene. La sua riuscita, e la sua tragedia, è tutta nello specchio. Fuori, la realtà del sottoproletariato o d’altro può essere magari sacralizzata, ma non davvero incontrata: perché Pasolini non accetta fino in fondo il dialogo, la responsabilità, la verificabilità del linguaggio su un terreno comune.
Cosa rende Pasolini un autore internazionale?
Prima di tutto il cinema, senza dubbio, ovviamente insieme con la sua biografia. Poi, in un mondo letterario sempre più interessato ai Grandi Temi e sempre meno al dato materiale dei testi, conta molto il registro della “attualità” usato da Pasolini, e reso più suggestivo dal cortocircuito con la “forza del passato” di una nazione tutta rurale, “artistica”, premoderna. In questo senso, mentre Calvino è internazionale all’origine, Pasolini lo diventa in quanto esempio “esotico” di un intellettuale tipicamente, irriducibilmente, legato alla provincia italiana, e di lì gettato in forme del tutto eccezionali nella società dei mass media tardonovecenteschi.
Pubblicato venerdì 15 Gennaio 2016
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