Son vecchie storie che minacciano di andar perdute, che nessuno ripete più spontaneamente, eppure appartengono a un passato importante: storie di scioperi, di fame, di strozzinaggio, di abusi politici. Un patrimonio che rischia di morire con la morte di chi ancora lo conserva. Capisce, adesso, la gioia di salvarlo? E la fortuna di trovar chi artista non è mai stato, ma dell’artista ha l’animo, e ancora ci crede, ed è combattivo, e le considera un fatto di giustizia e quindi vuole siano conservate, e ti racconta perché son nate e perché le han dimenticate, cambiate, trasformate. Caterina Bueno

 

Caterina Bueno, nata il 2 aprile 1943 a San Domenico di Fiesole, nei pressi di Firenze, “cantante del popolo”, è la voce della Toscana più autentica. Colei che quella voce l’ha fatta rinascere, l’ha incarnata e divulgata durante i tanti concerti in cui ha intonato i canti di un passato antico, contadino, operaio, di lotta e di speranza. Li ha scovati, dispersi tra i monti e la campagna, dal Mugello alla Maremma, vagabondando a bordo della sua Cinquecento. Caterina, la raccattacanzoni, ha trovato da subito la sua strada e l’ha percorsa senza indugi, tenendo fede a un impegno in cui ha creduto da subito: dare voce a chi voce non aveva. Agli ultimi, a chi viveva ai margini, ai dimenticati. Lei, di famiglia alto borghese, intellettuali e artisti di primissimo piano, nei panni della ricercatrice, dell’etnomusicologa, ha affondato le mani nella terra brulla della sua Toscana e ha svelato al mondo un patrimonio immenso. Ma Caterina è anche una grande contraddizione: tanto ha fatto per il recupero delle fonti sonore su cui ha costruito il suo repertorio, studiandole, riarrangiandole, riconnettendole al loro contesto d’origine, ma poco o nulla, invece, ha lasciato a testimonianza delle sue ricerche, soprattutto agli esordi. Nessun taccuino, nessun diario di bordo attraverso cui ascoltare i pensieri che hanno guidato le varie fasi del suo lavoro. Esistono però le fonti audio, i nastri da lei registrati con le interviste e i canti recuperati, trasferiti oggi dal nastro al digitale, conservati all’Archivio della Normale di Pisa. “I miei nastri sono molto parlanti – dirà Caterina in un’intervista a L’Europeo del 1971 – perché capita spesso che la canzone diventi un pretesto per discutere di medicina popolare, di magia, di anarchia, di lotte sindacali […]. Posseggo centinaia di nastri. E su questi formo il mio repertorio. Un repertorio che propongo al pubblico delle aie, delle campagne, delle case di cultura, delle case del popolo, delle palestre, delle sale da gioco, delle scuole” [Lina Coletti, Io accuso i ladri di canzoni. Intervista con Caterina Bueno da l’Europeo, in Plastino, La musica folk, p. 633]. Ed esiste anche un archivio di persona, all’Archivio di stato di Firenze, che conserva fotografie di famiglia, lettere, riviste, recensioni. Lo ha curato la dottoressa Pamela Giorgi, ricercatrice presso Indire, esperta di archivi di persone del mondo culturale e artistico: «L’ho conosciuta inizialmente da familiare: lei era la sorella del mio compagno. Poi, occupandomi di archivi del Novecento ho messo le mani sul suo, quando è mancata. Mentre facevo il mio lavoro mi sembrava di sezionare un cadavere, guardavo alla vita privata di una persona cara morta e molto spesso trovavo cose anche su di me nei suoi appunti: chiamare Pamela. Facevamo telefonate lunghissime. Mi ha sempre attratto la sua parte melanconica che trovavo molto affascinante, una melanconia tipica di chi sta verso le cose del passato. Lei, di fatto, parlava con le voci dei morti e chi fa questi lavori è un po’ medium. Fa il medium tra passato e presente. Sempre sul territorio di confine».

Così, grazie alla dottoressa Giorgi abbiamo ricostruito anche la biografia di Caterina, partendo da quel contesto familiare così fecondo in cui lei è cresciuta e da cui ha attinto per la sua formazione di artista.

«Caterina viene da una famiglia della buona borghesia intellettuale con un taglio politico molto preciso – spiega Giorgi –. Il nonno di Caterina, Javier Bueno, originario di Lanjaron nei pressi di Granada, era un giornalista spagnolo, uno dei fondatori del Partito Socialista spagnolo, tra i maggiori collaboratori dell’ABC di Madrid, corrispondente di guerra nel ’15-’18. Lo zio di Caterina, Antonio, nasce in Germania, a Berlino, perché il padre in quel momento lavorava lì. Durante la guerra, essendo corrispondente, si spostava spesso. Tutti i suoi figli, infatti, nascono in nazioni diverse: Guy, il primogenito, in Francia, nel 1913, Xavier in Spagna, nel 1915 e Antonio in Germania».

Già il nonno di Caterina, quindi, dà l’avvio a questo tipo di famiglia intellettuale di taglio mitteleuropeo. «La nonna di Caterina, Hanna Rosianzkaja, è un’ebrea che rimarrà sempre partecipe della vita familiare di Javier e Antonio. Un’ebrea polacca, originaria di un paesino al confine con la Russia, figlia di un rabbino. I figli di Javier, dunque, sono ebrei per parte di madre. Non furono praticanti, ma erano comunque ebrei».

Una famiglia da subito molto internazionale, cosmopolita e multilingue. «I figli di Hanna e Javier hanno vissuto molto a Ginevra perché, con la vittoria di Franco, all’indomani della guerra civile, Javier dovette tagliare i rapporti con la Spagna franchista e trasferirsi in Svizzera definitivamente. Prima aveva gravitato su Parigi, lavorando sempre come corrispondente. La lingua dominante della famiglia, infatti, era il francese più che lo spagnolo. A Ginevra, poi, Javier diventerà direttore generale della sezione spagnola del Bureau International du Travail, organizzazione sindacale della Società delle Nazioni. I suoi figli crescono, dunque, in un ambiente culturale davvero ricco di stimoli».

Questo spiega i loro molteplici interessi: «Il padre era in contatto con molti intellettuali svizzeri, francesi, spagnoli, e i figli ebbero una formazione attenta alla dimensione artistica. Tant’è che tutti e tre, il papà e gli zii di Caterina, fecero studi al Conservatorio. Javier aveva destinato ogni figlio allo studio di uno strumento: il padre di Caterina, Xavier, per esempio, al violoncello. Era molto bravo, tanto che a un punto della sua adolescenza era indeciso se scegliere la carriera del pittore o quella del violoncellista. C’era molta attenzione alla cultura musicale in casa. Il padre di Caterina, col fratello Antonio, si fermerà, poi, in Italia. Un po’ per intraprendere il viaggio nelle città d’arte, un po’ per una rottura all’interno dell’equilibrio familiare. Perché Javier a un certo punto si era risposato con una donna più giovane, Eva, da cui avrà una figlia, Sonia. Il clan familiare, dunque, si allargava, ma rimaneva sempre e comunque unito. A tutt’oggi la famiglia Bueno è una grande rete internazionale di legami e relazioni. Il grosso sta qui in Toscana, ma ci sono contatti amicali in tutta Europa».

Xavier e Antonio, dunque, si trasferiscono stabilmente a Firenze dove inaugurano il loro percorso artistico, entrando nella corrente dei Pittori Moderni della Realtà. Insieme ad artisti molto affermati come Pietro Annigoni, Alfredo Serri, Gregorio Sciltian. «Giorgio De Chirico si prenderà cura di loro e sarà proprio lui a lanciarli in Italia».

La madre di Caterina, invece, è Julia Chamorel. «È una scrittrice ginevrina. Comunista, molto legata a Sartre e Simone de Beauvoir, un legame di profonda amicizia».

Caterina cresce in una famiglia anche molto numerosa: «Tutti gli zii vivono nella stessa casa a Fiesole – continua Paola Giorgi –. Prima stavano a Camerata poi, quando nasce Caterina, sono già a Villa al Pozzo, una bellissima villa a San Domenico di Fiesole, all’inizio della collina toscana. Un posto bellissimo in cui lavorare. Infine si trasferiranno nella Villa degli Angeli, dove pare avesse vissuto il Beato Angelico. Quando arrivano a Firenze sono due pittori giovanissimi, in erba – siamo in tempo di guerra – hanno la mamma a carico, perché Javier e Hanna si sono separati. Si occupano di lei e inizialmente affrontano problemi tipici di artisti bohémien, anche difficoltà economiche. Poi avranno immediatamente fortuna, intercettando subito la buona società fiorentina, tra cui lo stesso De Chirico».

E quel territorio, il luogo nel quale risiedono, non è da meno suggestivo e ricco di stimoli per la formazione artistica e culturale di Caterina. «A San Domenico, come a Fiesole, esiste da sempre un’interazione molto forte tra l’aristocrazia e la borghesia ricca che lì vive, molto spesso di taglio intellettuale, per tradizione, perché quelle erano le colline degli inglesi, e il mondo rurale che stava accanto. Il mondo rurale era molto presente, a quei tempi c’era la mezzadria, le tate che andavano a lavorare nelle case degli aristocratici venivano veramente dalla realtà contadina della zona. Non era raro vedere buoi che trainassero l’aratro: era un mondo rurale vivo. In questo contesto c’è molto interesse verso le tradizioni contadine, e molto rispetto per il luogo in cui la famiglia vive, con una dimensione di vicinanza in tutti i sensi. Caterina si trova a crescere in un ambiente fecondo, pur con dei limiti linguistici, perché la sua lingua prima non è l’italiano, ma il francese, e le tate parlano toscano».

Caterina è straniera. Straniera perché la famiglia viene da un altro Paese, straniera perché di provenienza culturale borghese, lontana da qual mondo popolare che sarà il suo oggetto di studio. Ma ne è circondata ed ha rapporti stretti: la sua tata mugellana, l’Albina, le intona arie d’opera e stornelli, i suoi compagni di scuola vengono dalla campagna. «La dimensione della tata e della balia è estremamente importante – precisa Giorgi –, perché diventa una dimensione affettiva, di linguaggio primo, che non è di sangue ma è di cura. Le tate sono sempre rimaste a vivere lì. Con loro i ragazzi giocavano, con la lingua, quel forte dialetto toscano. Penso che anche Caterina si sia trovata in una situazione simile a quella di suoi fratelli più piccoli. Perché nel frattempo i fratelli sono diventati cinque. Caterina, la prima, e poi Raffele, figli di Julia Chamorel. Poi arrivano i tre figli di Javier ed Eva Forster: Pachito, Manuel e Maria Lola Bueno. Tutti pittori. Un contesto familiare che si amplia quando Caterina comincia a essere grandicella: diciotto anni circa».

“Io stavo al ginnasio quando cominciai a interessarmi di queste cose – dice Caterina nell’intervista a L’Europeo –. Ero una folle, me ne rendo conto. Perché? Perché decisi di fare un mestiere che non esisteva immaginando possibilità di lavoro che in effetti non si sono mai presentate. Una faccenda di carattere, di temperamento, di curiosità” [Plastino, La musica folk, p. 630].

Caterina, dunque, non segue una formazione standard. «In quegli anni – ricostruisce Giorgi – frequenta il liceo classico Michelangelo, il liceo pubblico. Lei è molto brillante, ma fa solo i primi due anni e poi lascia gli studi: di fatto lei riconosce e non riconosce quel percorso di formazione. I suoi cugini sono tutti laureati, lei, invece, decide di fare il suo percorso fuori dai circuiti formativi canonici e a sedici anni comincia a esplorare la strada dell’etnomusicologia, mettendo in pratica un percorso da studiosa che utilizza fonti atipiche, all’epoca poco riconosciute. Le sistematizza e le reinterpreta».

Anche come musicista è piuttosto atipica: «Non suonava bene la chitarra, ma conosceva lo strumento abbastanza per poter fare gli arrangiamenti: le sue conoscenze musicali le permettevano comunque di potere lavorare su una fonte orale e saperla trasferire in musica. Non era una musicista valente, infatti si è appoggiata a grandi musicisti che la accompagnavano nelle sue tournée. Suonare uno strumento non era il suo vero interesse».

Non ha studi ufficiali, dunque, ma il contesto culturale familiare di fatto l’ha formata: «La sua casa era frequentata da grandi artisti e intellettuali: da Sanguineti a Umberto Eco, al Gruppo 63. Philippe Daverio diceva: Casa Bueno come il caso Bueno. Perché questa famiglia era come un’officina di produzione di arte in generale. Lei si confrontava con questi riferimenti. Non con supponenza, ma d’istinto lei è andata a cercarsi le migliori opportunità di formazione. Anche in questo ha rivelato una natura un po’ anarcoide, che ha influenzato anche la sua formazione politica».

Finito il liceo il padre le regala un registratore, così lei comincia a percorrere diverse zone della Toscana in cerca di testimonianze. «I territori più battuti sono la montagna pistoiese – specifica Giorgi – fino all’Abetone più San Marcello Pistoiese dove nel 2006 le viene conferita la cittadina onoraria. Poi la Maremma, l’Amiata e anche i dintorni di Firenze, il Mugello, forse la prima zona dove è stata, appena sopra Fiesole».

“Ero timida – dice Caterina –. E chiedere una canzone a un contadino toscano… Be’: c’era da farsi rider dietro per un’ora. Sa, nessuno mi conosceva, e il mestiere praticamente inesistente, e dover spiegare tutto dapprincipio: perché ci andavo, cosa volevo, con quali scopi […], insomma, mi vergognavo da morire” [Plastino, La musica folk, p. 631].

«Girava per questi paesi con una vecchia Cinquecento, girava, girava e si avvicinava alla gente – racconta Giorgi –. Non ha mai osato entrare dal barbiere, le donne in campagna a quell’epoca non entravano nei locali pubblici. È la Toscana degli anni Sessanta e il barbiere per le donne era tabù. Però entrava nelle osterie, lì aveva coraggio. Ma forse anche perché accompagnata da qualcuno di fiducia. E così riusciva, chiacchierando, chiacchierando a convincere le persone a cantarle qualcosa. Allora tirava fuori il suo registratore. Girava anche nei mercati, col registratore certe volte nascosto».

Caterina ricorda bene le persone che ha incontrato nel suo girovagare e che le hanno donato canzoni e memorie. Di quando da ragazze avrebbero voluto cantare in pubblico ma non era loro permesso poiché ritenuto una cosa sconcia. C’è l’Armida, ottant’anni, vestita di nero, la crocchia dietro il collo che fa uscire dalla bocca note e parole che Caterina non conosce: “Dio, l’emozione in quei momenti! – dice –. Son lì, col registratore in spalla e tanta voglia di lasciarmi andare”. Poi c’è Maria Ringressi, che le regala più di trecento motivi. E Paradisa. Novantacinque anni, ha scolpite nella mente una lista infinita di canzoni, che canta, intonatissima [Plastino, La musica folk, p. 632].

Sono tanti i canti, infatti, che Caterina in questo modo recupera. Un’impresa monumentale che è impossibile riportare per intero: tutto il repertorio della musica popolare toscana, quello che oggi è cantato, lo ha recuperato lei. Stornelli, canti in ottava rima, ballate, ninne nanne, canti di tragedie e canti di feste.

E anche canti maremmani. Come Ninna nanna di Barberino ritrovata nelle campagne tra Barberino Val d’Elsa, Colle Val d’Elsa e San Gimignano. È una canzone che racconta un fatto di guerra, parla di fame, di povertà e di distruzione: Barberino, corri corri, dettero fuoco a quelle torri.

Maremma amara, che Caterina recupera dalle montagne del pistoiese. Maremma era la terra d’immigrazione dei disgraziati di tutta Italia che qui arrivavano per lavorare, ma presto scoprivano che in questa terra malsana, ci si moriva di malaria. Una canzone terribile, di maledizioni lanciate da fidanzate, mogli, amanti, rimaste senza il loro uomo, costretto a quel destino per non far morire di fame la famiglia. Sia maledetta Maremma, Maremma/sia maledetta Maremma e chi l’ama./Sempre mi trema ’l cor quando ci vai/Perché ho paura che non torni mai.

Numerosissime le reinterpretazioni di artiste italiane come Luisa De Santis e Gabriella Ferri;

Nada;

Gianna Nannini

e internazionali come Amalia Rodrigues.

Tra i brani più popolari c’è anche la Storia del grillo e della formica, filastrocca di un amore infelice.

Numerosi sono poi i canti anarchici, come Interrogatorio di Caserio, dedicato a Sante Caserio, anarchico lombardo che nel 1894 uccise il presidente francese Marie François Sadi Carnot, per vendicare l’esecuzione dell’anarchico Auguste Vaillant. Affrontò poi il processo da solo rifiutando di svelare i nomi dei compagni, divenendo così un personaggio mitologico: “Li conoscete voi/i vostri compagni?»/«Sì, li conosco,/io son dell’anarchia:/Caserio fa i’ fornaio/e non la spia”.

Su fratelli pugnamo da forti è un altro canto dedicato alla figura di Sante Caserio recuperato a Bivigliano, frazione del comune di Vaglia (Firenze) dalla voce di un anziano contadino: Su fratelli pugnamo da forti/contro i vili tiranni borghesi/ma come fece Caserio e compagni/che la morte l’andiede a incontrà.

Tra i canti di galera il più noto è Battan l’otto, raccolto da Caterina in San Giovanni Valdarno, in provincia di Arezzo, nei primi anni 60. Il canto ha origine nei sanguinosi scioperi delle acciaierie di Terni, che ebbero luogo nel 1907 e provocarono episodi di repressione da parte delle forze dell’ordine. Di qui un’ondata di scioperi in tutta Italia.

Le quattro stagioni, conosciuto anche come Lamento del carcerato e Canto d’amore anarchico, è di autore anonimo e risale approssimativamente al periodo tra il 1888 e il 1984. Protagonista un carcerato che vede il passare del tempo e pensa alla libertà perduta.

Tra i canti di lavoro Caterina recupera il Lamento del contadino. Storia di un povero bracciante che fatica come un dannato per una vita di miseria e sfruttamento: e si sta peggio de’ maiali,/e si lavora quant’e vvoi/e i maltrattati siamo sempre noi.

Interessanti anche le canzoni sulla donna nella tradizione popolare: la donna è madre in Ninna nanna al mio ciocione

ed è futura sposa nella famosissima Cinquecento catenelle d’oro. Canzone d’amore, in origine un canto nuziale: E cinquecento catenelle d’oro/Hanno legato lo tuo cuore al mio/E l’hanno fatto un nodo tanto forte/Che non si scioglierà fino alla morte.

Eran tre falciatori è una ricostruzione di due parti raccolte tra Arezzo e Bivigliano sulle onoranze funebri e il dolore di una donna che in un campo scopre il corpo del suo uomo, ucciso.

Numerosi poi i canti di emigrazione. Il Lamento del carbonaro racconta di quando, tra 800 e 900, dalla montagna pistoiese nei mesi invernali partivano in gruppi i carbonari. Per la Maremma toscana e quella laziale, ma poi fino in Sardegna e in Corsica, ovunque vi fosse lavoro. Poi tornavano con in mano niente: Ritorno a casa stracanato e scotto/senza quattrini e con la febbre addosso.

Non mancano nel repertorio di Caterina gli Stornelli d’esilio di Pietro Gori, autore da lei molto amato.

Tra i canti resistenziali, spicca la Storia di Licio Nencetti, eroico partigiano ucciso in carcere dopo torture e vigliaccherie, diventato simbolo della lotta per la libertà: La patria nostra noi difenderemo/da tanti manigoldi profanata/e ai martiri i nostri partigiani/diranno un giorno alfin Siamo italiani.

Il lavoro di Caterina si ispira naturalmente agli studi di De Martino. Ma anche a Cantacronache e a Fausto Amodei che ebbe modo di ascoltare e ne restò impressionata. Le sue ricerche si riconnettono al folk revival e al lavoro di tante altre studiose che in quegli anni si dedicavano alla riscoperta del canto popolare: Maria Carta, Sandra Daffini, Sandra Mantovani, Giovanni Marini con le quali realizza anche spettacoli. E Rosa Balistreri. «Rosa Balistreri, che è stata la compagna di Manfredi, un pittore molto amico di Xavier – dice la Giorgi – racconta dei pomeriggi passati dai Bueno, quando Caterina era ancora piccola. Racconta di quel gruppo di intellettuali, del grande fermento che c’era in questo salotto fiesolano in cui lei si ritrova. Quanto da stimolo fu anche per la sua ricerca la frequentazione di quel luogo».

Ma Rosa Balistreri è su un altro piano, più interprete della propria cultura di provenienza. «Caterina, invece, è straniera. Non solo perché forestiera per provenienza, ma anche perché borghese rispetto alla cultura popolare. Lei racconta spesso della doppia fatica che fa a entrare nelle cultura popolare, perché da borghese deve reinterpretare un luogo che non è suo, che le è distante socialmente. C’era rispetto, e una grande attenzione verso la tradizione, ma la distanza da quel mondo per lei era tanta».

Il suo atteggiamento di riscoperta di questo mondo, dunque, è in parte politico. «La generazione di intellettuali in cui si colloca Caterina – spiega Giorgi – è caratterizzata dalla critica alla società capitalista. Lei, infatti, dà voce ai senza voce, alle masse popolari di un’Italia ancora paese rurale, ma ormai in via di trasformazione. Una trasformazione di cui, nell’inconsapevolezza, molti erano vittime. Anche Pasolini racconta di quello stravolgimento culturale, ambientale, paesaggistico, antropologico che stava rendendo il Paese irriconoscibile. La società industriale avanzava, la meccanizzazione in agricoltura avanzava, i processi di urbanizzazione erano sempre più marcati, le forme di impoverimento della campagna, anche la campagna toscana, quella più pettinata, quella di San Domenico, erano visibili. Il mondo mezzadrile spariva. Così, questi intellettuali diedero voce a chi non l’aveva».

Il suo esordio nel mondo dello spettacolo avviene prestissimo. Le prime esperienze teatrali sono quelle del Teatro di Mutuo Soccorso Andrea del Sarto di Firenze e col gruppo Nuova Resistenza di Nino Filastò. Poi, nel 1964 col Nuovo Canzoniere Italiano partecipa allo spettacolo Bella ciao (a cura di Roberto Leydi, Michele Straniero, Franco Fortini), in scena al Festival dei Due Mondi di Spoleto. In quell’occasione canta rendendolo poi popolarissimo, Tutti mi dicon Maremma, noto anche come Maremma amara. E poi anche Partire partirò, canto dell’epoca delle guerre napoleoniche quando venne istituita la leva obbligatoria anche nelle terre italiane conquistate. I soldati dovevano partire abbandonando i loro amori.

Di quest’anno è anche la sua prima incisione La brunettina. Canzoni, rispetti e stornelli toscani (I dischi del sole), in cui canta il celebre Cade l’uliva

e Tutti mi dicon ch’io canti o La brunettina, canzone sul canto come rivoluzione e atto di protesta.

“Caterina è uno dei personaggi chiave del Nuovo Canzoniere Italiano – dice Giorgi -. Vi erano tutte personalità profondamente interconnesse. Caterina restò legata a Ivan della Mea, a Roberto Leydi, con cui intercorrono carteggi”. E per lei quell’esperienza rappresenta un momento forte di militanza, cantare la protesta, risvegliare nella gente che l’ascolta la voglia di reagire a ingiustizie e soprusi.

Partecipa successivamente a Ci ragiono e canto, spettacolo di Cesare Bermani e Franco Coggiola con la regia di Dario Fo. Lo stesso Fo qui racconta di quella storica messa in scena.

Caterina canta Ninna nanna a sette e venti;

So’ stato a lavora’ a Montesicuro, canzone sullo sfruttamento del lavoro

e Italia mia mostrati gentile. Questo è un canto risalente agli ultimi anni del XIX secolo, quando anche dalla Toscana si emigrava in massa verso le Americhe. Canto di disperazione benché filtrato dall’ironia toscana. Di chi era costretto a lasciare la propria terra per andare a cercare pane e lavoro altrove.

Nel 1965 Caterina è tra i fondatori, a Firenze, del Cabaret 65 in cui si esibiscono numerosi artisti folk e verrà rappresentato, con scene di Xavier Bueno, Il Capitale di Julia Chamorel. L’anno successivo è in tournée in Canada, e esportare il suo repertorio folk con vari artisti, tra cui Gabriella Ferri.

È talmente curioso il suo lavoro che nel 1967 lei diviene il soggetto di un documentario intitolato Caterina raccattacanzoni, in cui racconta del suo vagabondare in Cinquecento per le colline toscane alla ricerca di canzoni. Prima parte:

e seconda parte:

Appare poi in diverse puntate di Canti popolari italiani, trasmissione Rai di Giancarlo Guardabassi, nel 1976 e Italia bella mostrati gentile, su Rai 2 dove canta la sigla La leggera. Così era chiamato il treno che agli inizi del secolo portava i lavoratori stagionali fino in Maremma. “Leggera” era un termine dispregiativo e aveva a che fare i disoccupati, gli stagionali, gli emigranti che, poverissimi, viaggiavano “leggeri” con poche cose per campare: un bagaglio fatto di niente. Su quel treno, però, nonostante la miseria, si cantava tutti.

Parteciperà anche a un altro documentario, nel 1980, Il tempo e la memoria di Frédéric Rossif in cui canta Maremma amara.

«Lei è un personaggio che viene intercettato subito dai media, la Rai si interessa subito di lei, Dario Fo subito la coinvolge – dice la Giorgi –. Era molto brava, un’interprete raffinatissima, ma certo veniva da un contesto privilegiato e si è trovata a intercettare degli ambienti prima di altri».

Ma a un certo punto Caterina incappa nella censura. «Durante un’intervista radiofonica sulla Maremma trasmessa dalla Rai, sostenne la causa contro il progetto di una centrale termonucleare a Montalto di Castro. Una presa di posizione politica che non fu gradita. Era il 1977».

A partire dagli anni Ottanta subisce anche una marginalizzazione che riguarda però il folk in generale. Ritornerà in auge negli anni Novanta, quando avverrà un recupero di questa tradizione.

Nel 1997 la Ema Records, infatti, pubblica il cd Canti di Maremma e d’anarchia, riproposto successivamente nel 2001 col titolo Caterina Bueno dal vivo. Seguiranno spettacoli e concerti alla Festa Nazionale dell’Unità di Genova, nel 2004

e a Roma dove si esibisce con i compagni di viaggio protagonisti della canzone folk e di protesta, da Giovanna Marini, a Ivan della Mea ai Modena City Ramblers.

Nel 2006 anche la Warner pubblica un doppio cd contenente le incisioni dei primi dischi di Caterina. Poco dopo la trasmissione Notturno italiano, curata da Rai International, trasmetterà una lunga intervista a Caterina.

Nel 2007 esce il cd Dal vivo/live – Firenze 1975, registrazione di un suo concerto.

Caterina è un’innovatrice, ha avuto delle intuizioni dal punto di vista della ricerca. Per lei la ricerca era una collaborazione con le persone che incontrava per un obiettivo comune: salvare i canti, le loro storie e renderle immortali. E soprattutto ha sempre difeso quel patrimonio recuperato con metodicità, studio, rigore. Con l’idea di preservarlo dalla minaccia della commercializzazione e della perdita di identità che ne sarebbe seguita. Detestava l’idea che questi canti fossero cannibalizzati dall’industria, da interpreti per nulla preparati ad affrontarli, ma interessati solo a farne prodotti: “Ma vogliamo renderci conto – contestava – che si tratta di motivi che han bisogno di essere presentati, spiegati e messi in una struttura di spettacolo ben precisa? Altrimenti finisci per svuotarli, falsarli e quindi distruggerli” [Plastino, cit., 627].

Per Caterina, infatti, la canzone popolare era una grande eredità da salvaguardare: “Io giro la campagna toscana da dieci anni – diceva –. E da dieci anni registro vecchi motivi ascoltandoli dalla viva voce di chi a sua volta li ha magari imparati da quanti presiedevano ai matrimoni, alle nascite, alle feste, alle morti, e davano quindi la cronaca di una società in pieno fermento. Sono contadini, operai, braccianti. Questo è l’unico modo per non falsare nulla” [Plastino, cit., p. 627].

Un lavoro difficile, in cui è stata pioniera e di cui ha affrontato difficoltà e rischi. “Certo non ci guadagni, con questo mestiere –puntualizzava –: a parte l’autoseverità che ti impedisce di accettare occasioni più proficue ma non valide, e i soldi che ti servono per i viaggi, i soggiorni, il magnetofono, i nastri. Non per nulla molti, troppi di noi son stati costretti a cercarsi un lavoro vero e proprio. Non per nulla siam rimasti così in pochi!” [Plastino, cit., p. 633].

I Bueno, famiglia molto unita, hanno però sempre appoggiato il lavoro di Caterina. «Una famiglia borghese che le ha permesso di vivere di quel lavoro in maniera decorosa – dice Giorgi –. Non lussuosa, perché lei ha sempre scelto di vivere a Firenze in piccole case, aveva una sua sobrietà. Penso che avesse due vestiti, entrambi neri. Un cappello e in cima a questo un piccolo dinosauro d’oro. Non le interessavano i gioielli, portava sempre un anello antico della mamma, ma non aveva desiderio di orpelli femminili. Era vanitosa, certo, era una donna di spettacolo, ma a suo modo».

Colpisce di Caterina, oltre quest’aspetto anticonformista, l’immagine di donna emancipata. Una donna che non ha nascosto la sua resistenza a una vita familiare standard. Relazioni importanti, convivenze, ma mai niente di troppo ufficializzato. Nella vita privata è sempre stata molto riservata. Come colpisce la sua voce. Scura, quasi maschile, con la quale ha imposto una personalità libera, fuori dagli schemi.

«La sua voce nel tempo è cambiata – spiega Giorgi –. Fumava moltissimo, beveva tanto, faceva parte del suo stile di vita. La voce col tempo era un po’ provata dallo stile di vita e dall’usura. Non saprei definirla, ma sicuramente c’era un tratto melanconico complessivo in lei, quindi forse anche vocale. Era un’interprete molto raffinata della nostra musica popolare, mai patetica, anche vigorosa a suo modo. Da ragazza aveva delle piccole forme di affettazione, forse anche legate un po’ alla sua avvenenza».

Caterina antifascista? «Lo era come lo erano tutti i progressisti di quegli anni nel dopoguerra. Il padre e gli zii erano ebrei a Firenze, con mamma ebrea al seguito, viaggiavano con documenti falsi. I nonni erano stati mandati via dalla Spagna di Franco. Si unirono a tutti gli intellettuali antifascisti di quel momento storico, anche se non hanno mai fatto antifascismo militante. I suoi non si sono mai esposti politicamente durante il regime, però all’inizio facevano gli illustratori per un fumetto che aveva connotazione fascista, ma abbandonarono questo lavoro perché contrari ideologicamente. Anche Caterina aveva una posizione antifascista».

Antifascista e integralista. «Tutto quello che voleva fare l’ha fatto, poteva scegliere. Non ha mai scritto canzoni, ha continuamente rielaborato quelle del passato, sempre rispettosissima della fonte, molto filologicamente corretta. Poi negli arrangiamenti è emersa la parte interpretativa personale e artistica. Credo non le interessasse scrivere cose sue».

Tanti artisti sono stati influenzati dal suo lavoro, e lei è stata per molti una talent scout. Durante uno spettacolo al Folkstudio di Roma, nel 1971, aveva conosciuto un giovanissimo Francesco De Gregori che scritturerà per la tournée del 1971. Giovanna Marini e lo stesso De Gregori ricordano, in questo breve documento video, quel suo esordio come chitarrista di Caterina.

Successivamente De Gregori farà di lei un ritratto meraviglioso nella canzone Caterina, inserita nel disco Titanic (1982). Ricorderà come non sapesse suonare la chitarra, ma quando cantava era una festa. Arrivata come un angelo, le spalle di uccellino dentro un vestito troppo piccolo. Gli occhi ancora blu. E una vita ingarbugliata.

Nel 2010 esce Sopra i tetti di Firenze. Omaggio a Caterina Bueno, un disco promosso dai suoi musicisti Riccardo Tesi e Maurizio Geri, a cui collaborano diversi artisti.

Ci sono Lucilla Galeazzi, Davide Riondino, Nada che canta le Cinquecento catenelle d’oro

e Piero Pelù che interpreta Maggio.

Gianna Nannini tributa ufficialmente un riconoscimento a Caterina. Con lei ha un sodalizio artistico importante. «Il suo lavoro su Pia de Tolomei parte certamente da quel tipo di ricerca – dice Giorgi. Per diversi anni, del resto, sono state molto legate. Quando nel 2006 il Comune di Firenze le conferisce il Fiorino d’oro, massima onorificenza attribuita a chi ha rappresentato la cultura fiorentina nel mondo, Gianna Nannini è presente».

Nel concept album Pia come la canto io di Gianna Nanni, infatti, all’interno del brano Contrasto è inserito un frammento tratto da una registrazione dal vivo di Caterina che canta Lasciali fare gli rompi le zampine.

Nel 2018 Marco Rovelli pubblica il cd-book Bella una serpe con le spoglie d’oro. Omaggio a Caterina Bueno (Squilibri editore) di cui ne reinterpreta diversi brani.

Attualmente è in fase di produzione il documentario Caterina che ripercorre tutta la carriera di questa straordinaria astista a cura di Francesco Corsi per Kiné. Tante le voci di artisti, conoscenti, studiosi, famigliari che la raccontano. Tra questi Fausto Amodei. Ecco da Facebook:

Caterina è mancata a Firenze il 16 luglio 2007. «È morta in sei mesi di malattia per un tumore – dice Giorgi –. Era giovane, aveva 64 anni. Era il periodo in cui ricominciava ad avere dei riconoscimenti, le stavano ripubblicando le opere, era ripartito il revival del folk. Ma se ne è andata in fretta. Aveva quel suo modo molto solitario di vivere la vita. Amava andare a trovare i suoi fratelli in campagna, aveva tanti amici, le piaceva organizzare la cena degli avanzi del dopo Natale, ma alla fine era una solitaria. Non so some sarebbe stata per lei la vecchiaia. Alla sua morte volle essere avvolta dalla bandiera anarchica, la dice lunga sulla sua scelta di vita».

Caterina Bueno è artista complessa. In lei coesistono tante dimensioni: quella musicale, antropologica, etnologica, letterario-poetica: «Una studiosa molto colta – conclude Giorgi –. Quando faceva le panoramiche storiche per introdurre un brano si sentiva tutta la cultura famigliare da cui proveniva, e una chiave di analisi che non aveva nessun tratto della pedanteria erudita dello storico. Aveva una capacità eccezionale di inquadrare gli eventi». Non a caso grazie alle sue ricerche è stato possibile ricostruire un atlante sonoro inedito della Toscana, fatto di voci fino a quel momento poco ascoltate: i braccanti, le tate, gli emigranti, i carbonari, gli anarchici, i carcerati, i proletari, gli emarginati, gli ultimi. Ricomporre un’eredità da trasmettere alle nuove generazioni.

Molto di lei, la cultura, la storia personale, la passione per il suo lavoro, l’impegno, il carattere, il mondo poetico, emerge in questa intervista, realizzata a Firenze nel 2004, in occasione delle riprese per il film documentario su I dischi del Sole di Luca Pastore. Tutta la stravagante bellezza di Caterina Bueno.

Parte I:

Parte II:

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli