Da http://www.blogfoolk.com/2016/10/sandra-mantovani-ricercatrice-cantante.html

Sandra era la prima.

Era un po’ la nostra Grande Madre.

Giovanna Marini

 

«I miei cercavano una casa sull’acqua, dalla fine degli anni Cinquanta e sono arrivati qua. In affitto per diversi anni. Poi nel ’64 è andato in vendita tutto il complesso, una parte è stata acquistata dai miei genitori, ed è diventata la casa delle vacanze, ma non solo». Così racconta Silvio Leydi, storico del Rinascimento, figlio di Sandra Mantovani, ricercatrice e cantante di musica popolare e Roberto Leydi, il padre dell’etnomusicologia italiana, che ci accoglie con la moglie Rossana, nella casa di famiglia sul Lago d’Orta.

Qui c’era il grande studio di Roberto Leydi dove era conservato un patrimonio immenso di nastri, dischi, strumenti musicali. Chitarre, dulcimer, pifferi, tamburelli, fischietti dalle forme più strane, zampogne. «Mio padre aveva la più grande raccolta italiana di zampogne, se le faceva fabbricare o ne comprava di vecchie. Mia madre si arrabbiava quando arrivavano i conti, ma lui acquistava dallo stesso costruttore il medesimo modello di strumento e se lo faceva fare di tutte le misure». Nella seconda stanza, invece, c’erano documenti, carte, appunti. I libri di argomenti vari in parte sono stati distribuiti nel resto della casa. La casa di Orta è un dedalo di corridoi, di stanze e pareti ricoperte di libri.

Ora gran parte di quel materiale si trova in Svizzera nel Fondo Leydi, al Centro di dialettologia e di etnografia che è parte della biblioteca centrale del Ticino a Bellinzona. «Mio padre ha lavorato vent’anni con la Radio Svizzera Italiana quindi ha scelto quel centro come interlocutore scientificamente valido». L’archivio cartaceo, invece, è alla Statale di Milano, ed è curato da Nicola Scaldaferri.

Una sola stanza della casa è rimasta dedicata al museo etnografico. «Si va dai vasi, alle culle di legno, agli ex voto di cera che mio padre aveva comprato in Calabria». E poi oggetti di cucina, collezioni di gusci di lumache. Presepi: genovesi, valsesiani, alpini. Conocchie intagliate, gabbie dei grilli.

Ma nella casa è conservata anche una delle grandi passioni di Sandra: la collezione di marionette e burattini, su cui ha lavorato tantissimo: «Li studiava: il repertorio, i marionettisti, la funzione del teatro popolare rispetto alla cultura popolare – dice Rossana –. Aveva raccolto una bibliografia sterminata su questo argomento. Conosceva personalmente Eugenio Monti Colla, grande marionettista».

Una casa museo, uno scrigno di oggetti preziosi circondato da un giardino silenzioso e raccolto affacciato sul lago. «Qui Sandra è stata felice, amava cucinare per gli amici e per la famiglia, osservare sua nipote Enrica fare il bagno, godersi questa quiete», aggiunge Rossana. E si comprende, da questo luogo, tutta la pienezza di una vita dedicata allo studio, alla ricerca, alla musica. Di entrambi, perché non si può parlare di Sandra Mantovani tralasciando Roberto Leydi. Etnomusicologo, di fatto iniziatore dell’etnomusicologia in Italia, antropologo, grande giornalista e critico musicale, all’Avanti, all’Europeo. Conduttore di programmi televisivi e radiofonici, instancabile organizzatore di eventi musicali, saggista, autore di uno sterminato elenco di libri, direttore della Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi, ricercatore sul campo, collezionista, primo docente di etnomusicologia al Dams di Bologna. Divoratore onnivoro di cultura. «Nella famiglia di mia madre non avevano interesse per la musica – dice Silvio –. Questo è nato da mio padre. Si sono conosciuti al liceo e poi sono stati insieme sempre, una storia lunghissima». Si sposano nel 1953, viaggio di nozze a Bayreuth, festival wagneriano.

“Sandra è stata costantemente il sostegno in ombra di Roberto – dirà Bruno Pianta, musicista e collaboratore – insieme musa ispiratrice e spin doctor, ha tenuto in ordine la sua vita, lo ha consigliato e lo ha spinto anche severamente a dare il meglio di sé, lo ha incoraggiato soprattutto nei momenti di crisi e spesso guidato con la sua intelligenza e la sua grande tempra morale, mettendo inoltre le sue doti musicali e la sua splendida voce al servizio delle intuizioni del marito” [Mercurio, Etnomusicologia, etnorganologia, p. 41].

Insieme raccolgono canti della tradizione lombarda e dell’Italia settentrionale. Insieme compiono viaggi alla scoperta di quel mondo contadino che stava sparendo, portandosi via le sue tradizioni, le sue feste, le sue liturgie sacre e profane. Sono in Sicilia a Bagheria ad ascoltare Cicciu Busacca, sono nelle valli bergamasche a registrare i canti di osteria. A Saintes Maries de la Mer sono testimoni, nel 1968, del festival degli zingari che lì arrivano da tutta Europa. E poi in Jugoslavia, a Samarcanda, a Santiago de Compostela. Girano l’Europa alla ricerca dei vecchi clown. A Sampeyre raccolgono testimonianze sul formidabile carnevale delle Alpi. Ma raccontano anche il carnevale di Ivrea e quello di Bagolino. Sono a Marrakech al festival di cultura popolare maghrebina. E ovunque vanno c’è sempre qualcosa che portano con loro.

Su cosa abbia fatto nascere l’interesse per il mondo popolare esiste un aneddoto. «Loro raccontavano di essere partiti dai rumori del mercato che stava vicino a casa – dice Rossana –. Il racconto famigliare che viene tramandato è che sotto casa loro, che abitavano in via Morosini, ci fosse il mercato di Porta Venezia. Mia suocera ci andava da giovane sposa, e quando tornava raccontava al marito ciò che aveva sentito: richiami particolari, canti, suoni che le sembravano incredibili». Da lì la voglia di saperne di più e l’avvio delle ricerche e degli studi.

Di Sandra (Milano, 1928 – Milano, 1º ottobre 2016) si conoscono le origini famigliari in un contesto culturale piuttosto elevato: «Mia madre era borghese – dice Silvio –. Sua madre Lina era una casalinga, il padre Giuseppe dirigeva una filiale di banca e poi è diventato vicedirettore del Banco Ambrosiano a Milano».

Conferma Anna, la sorella di Sandra che incontriamo successivamente nella sua casa bolognese: «Una famiglia benestante. Mio padre è stato ragazzo nel 1899, mandato in guerra, in prima linea, a 18 anni dove è riuscito a salvarsi solo lui. Sua madre faceva la guardarobiera della principessa Visconti, madre del registra Luchino. La accompagnava in giro per l’Europa, le stirava gli abiti di pizzo e seta. Una famiglia modesta: mamma guardarobiera, papà chef, ma mio padre era molto diligente, ha studiato e ha fatto carriera».

Continua Silvio: «Mia madre ha poi frequentato il liceo scientifico a Milano, il Vittorio Veneto, e ha studiato lingue all’università Bocconi. È arrivata fino alla tesi di laurea in letteratura francese sul rapporto tra Cézanne e Zola, ma le è morto il professore e non si è più laureata».

Sandra è cresciuta e si è formata in quel crogiolo ricco di fermenti culturali che era la Milano del dopoguerra. Casa Leydi, in quegli anni, è da subito un luogo di incontro importante per studiosi, intellettuali, musicisti.

«Milano anni Cinquanta era una Milano molto più piccola – spiega Silvio –, chi faceva un certo lavoro o si interessava a certi argomenti erano poche persone e si conoscevano tutti. Si trovavano spesso a casa nostra. Il motore era mio padre. Mia madre era molto amica di Caty Berberian, la chiamava La Caty».

Maddalena Novati dello Studio di Fonologia di Milano del quale Leydi fu fondatore, ricorda: “Mi raccontavano che Caty Barberian, moglie all’epoca di Luciano Berio, quando tornava dall’America, e Berio stesso quando tornava dai corsi che teneva alla Juilliard School o da Tanglewood, portavano pacchi di musica jazz che allora in Italia era difficile da trovare. Si trovavano a casa di qualcuno, o di Roberto Leydi piuttosto che di Maderna o Berio e suonavano a quattro mani e cantavano, leggendo tutto questo repertorio, assimilato e cantato assieme, con Sandra Mantovani, con Caty Barberian, Fiorenzo Carpi, Paolo Grassi, Giorgio Strehler, Umberto Eco, la Milano degli anni Cinquanta che era strepitosa”. [Mercurio, p.41].

«Hanno vissuto in più appartamenti spaziosi e molto signorili, da via Morosini al centro storico zona Sant’Ambrogio – racconta Silvio –. Con mobili antichi, nessun mobile moderno se non il tavolo di design nello studio di mio padre. Negli anni Cinquanta molti designer, artisti e pittori erano amici. Per esempio Max Huber, designer interazionale, fu anche testimone di nozze».

“Sandra cantava con una bella voce forte senza incrinature – dice Giovanna Marini –, studiando attentamente i portatori, le mondine, gli stili di questi cantori contadini e operai che ci hanno nutrito e interessato per una vita” [Mercurio, p.38]. Una voce importante, immediatamente riconoscibile.

Anna racconta che Sandra cominciò a cantare quando Roberto prese a registrare i canti popolari. «Voleva farli ascoltare, ma non poteva portare in giro i contadini che dovevano lavorare la terra, così pensò di cercare qualcuno con una voce non impostata, una voce naturale, una voce senza studio che potesse non imitare, ma riproporre queste canzoni». Ci provò Sandra.

“Ho cominciato a cantare nel ’62 – raccontava Sandra in un’intervista – in genere nei festival o in sezioni, l’estate, all’aperto, prima con materiale politico, poi con repertorio più ampio. Il concerto aveva sempre un ampio spazio per le spiegazioni dei canti, la loro collocazione nella realtà da cui provenivano, le funzioni per cui erano usati in modo che dal concerto uscisse un ritratto di una realtà diversa dalla nostra ma viva e presente in mezzo a noi” [Plastino, La musica folk, p. 789].

Ma l’esordio vero avviene nello spettacolo Milanin Milanon tenuto nel 1962 nello storico Teatro Girolamo di piazza Beccaria a Milano. Un recital in cui venivano riproposte le canzoni milanesi tradizionali scelte da Roberto Leydi, insieme a poesie dei maggiori poeti cittadini. Regia di Filippo Crivelli, oltre a Sandra si esibiscono Milly, Tino Carraro, Enzo Jannacci e Anna Nogara. «Milanin Milanon – racconta Anna, che vi ha assistito – è stato il primo spettacolo in palcoscenico.

Sandra non era disinvolta. L’unica persona che riusciva a farla uscire dal suo guscio di riservatezza era Jannacci perché gliene faceva di tutti i colori: le nascondeva le cose in camerino, scherzava con lei. Perché lei sul palcoscenico era rigida, mentre quando cantava era meravigliosa, le bastava far sentire la sua voce».

In questo spettacolo Sandra canta Il povero Napoleone, canzone storica della prima metà dell’Ottocento,

Stamattina mi sono alzata, canzone degli inizi dell’Ottocento,

El Luisin, canzone popolare del 1859,

Addio padre, canzone popolaresca della prima guerra mondiale,

Proprio oggi,

Sulla sponda argentina, parodia antifascista popolare sul motivo del fox-trot della Nostalgia.

Nel 1963 incide il suo primo disco di canti popolari per la Ricordi ha intitolato Il testamento dell’avvelenato. Antiche ballate e canzoni dell’Italia settentrionale, che include parte di quei brani. Come Povero Napoleone, canzone raccolta nel 1962 a Cologno al Serio (Bergamo), cantata da un gruppo di ex-operaie di filanda, un canto di poco posteriore alla morte di Napoleone I. Stamattina mi sono alzata, raccolta a Seregno e Donna lombarda, la canzone più famosa e studiata del repertorio popolare settentrionale, versione raccolta a Ceriana, sull’Appennino Ligure. Sono canti narrativi ancora ricordati nelle campagne ai tempi della ricerca.

Dal 1963 è tra i primi collaboratori del Nuovo Canzoniere Italiano, fondato a Milano da Roberto Leydi e Gianni Bosio. Una straordinaria avventura cultural-musicale che si proponeva di studiare la canzone popolare italiana, con lo scopo di recuperare una narrazione delle vicende storiche del Paese attraverso la voce del popolo.

Vi prendono parte persone che, pur non essendo appartenenti al mondo popolare, si impegnano a riproporre la canzone popolare. Non nelle forme del consumo o del cabaret, ma rispettandone il modo di esecuzione, l’atteggiamento psicologico, ideologico, politico. Conservandone, dunque, la massima fedeltà. Scopo: “rimettere in movimento la libera espressione del mondo popolare e del mondo proletario” dirà Leydi. Aiutare, cioè, a far prendere coscienza il proletariato del valore della sua cultura, che era nella sua storia, nel suo passato [Plastino, p. 619].

Condividendo questo sfondo teorico, Sandra è molto rigorosa nel suo lavoro di ricercatrice e di interprete. Comprende l’importanza di affrontare il repertorio popolare con un’ottica diversa, dall’interno piuttosto che dall’esterno. Partendo da una conoscenza più vera della tradizione orale.

Approfondisce il lavoro dei folk singers americani, allora ancora sconosciuti al grande pubblico, grazie a un incontro, insieme al marito, con Alan Lomax, in Italia per svolgere analoghe ricerche. Studia con accuratezza i canti del passato, ascolta le registrazioni, osserva i cantanti popolari dal vivo, le tensioni muscolari dei loro corpi, che rivelano la disposizione interna di tutte la parti coinvolte in una determinata emissione sonora: petto, collo, volto, capo. Di ogni brano analizza l’aspetto formale e quello storico-culturale. Dove il brano è stato cantato, da chi, quando, cosa vuole comunicare, quale stato d’animo esprime, qual è la struttura testuale. E a quale tipologia appartiene.

“All’origine si trattava di ricerche di canto sociale politico e di canti partigiani […]. Insieme a questo materiale – dice Sandra – ne abbiamo trovato altro […]. Allora a questo punto la ricerca si è fatta più seria; è diventata globale delle varie espressioni di canto popolare” [Plastino, p. 674]. Sono emersi, infatti, canti d’amore, ninne nanne, danze.

Fondamentale, poi, è la sua capacità di Sandra di mediare, di sapersi relazionare con quel mondo che non le appartiene. Lei, istruita, che viene dalla città, fianco a fianco con cantori contadini. «C’è una bellissima intervista in cui Sandra – dice la sorella Anna – parla di Giovanna Daffini, mondina che cantava nei matrimoni, nelle feste. Non le aveva mai chiesto cosa lei pensasse di loro che venivano dalla città, diversi per cultura, provenienza sociale. Sandra aveva un’ammirazione incredibile per Giovanna. Quando in occasione di una commemorazione dopo la sua morte le avevano chiesto di cantare qualcosa di suo, lei si era rifiutata: non mi permetterei mai, aveva risposto. Per quel grande rispetto reciproco».

Giovanna Daffini (http://gazzettadireggio.gelocal.it/tempo-libero/2016/06/04/news/giovanna-daffini-la-mondina-che-cantava-la-voglia-di-liberta-1.13605945)

Nel 1964 il Nuovo Canzoniere Italiano organizza diversi spettacoli con esecuzione dal vivo di canzoni popolari e la voce di Sandra non manca. Il primo si intitola L’altra Italia. Sono otto serate, alla Casa della Cultura di Milano, la prima rassegna italiana della canzone popolare e di protesta vecchia e nuova. Vi partecipano etnomusicologi e storici come Gianni Bosio, Roberto Leydi, Diego Carpitella, Cesare Bermani, il regista Filippo Crivelli, i cantanti Caterina Bueno, Giovanna Daffini, Sandra Mantovani, Ivan Della Mea, Enzo Jannacci, Milly, Fausto Amodei e musicisti come Fiorenzo Carpi, Luciano Berio.

Segue Pietà l’è morta. La Resistenza nelle canzoni 1919-1964, spettacolo sempre organizzato da Crivelli e Leydi, che debutta nella Sala dei Giganti dell’Università di Padova. Girerà in diverse città per terminare al Piccolo Teatro di Milano. Ma lo spettacolo più famoso del Nuovo Canzoniere Italiano, rimane Bella ciao, autentico caposaldo del folk revival italiano, rimasto nella storia, con grande successo di pubblico e critica, anche per il clamore dello scandalo suscitato in occasione di una replica. Il recital era stato organizzato su invito di Nanni Ricordi al Festival dei Due Mondi di Spoleto del 1964. In quella serata, a causa di un’indisposizione di Sandra che solitamente eseguiva Gorizia tu sei maledetta, canzone di trincea della Grande Guerra, è Michele Straniero a cantarla, intonando anche una strofa, vietata secondo gli accordi, che scatenerà un vero e proprio putiferio. Quei versi erano un’accusa per niente velata al mondo militare: Traditori signori ufficiali/che la guerra l’avete voluta/scannatori di carne venduta/e rovina della gioventù.

Spoleto era da sempre una platea di gente per bene, «quelli che aspettavano di ascoltare l’operetta o la cantante di successo», dice Anna. Quella sera, poi, diversi ufficiali e militari riempivano la sala e mal sopportarono quell’affronto. Successe, infatti, “l’ira di Dio”, come da racconto di Giovanna Marini: “Una voce si leva dalla platea: «Evviva gli ufficiali» seguita da cori di «Evviva l’Italia». Dal loggione arriva una risposta immediata e viene lanciata in platea una sedia, mentre si intona Bandiera Rossa. Dal basso rispondono con Faccetta Nera […]. Spintoni a destra e a sinistra […]. Giorgio Bocca, da sotto il palco, urla a Michele: «Andate via, andate via prima che arrivi la polizia!» […] Allora vigeva ancora il reato d’opinione: se ci coglievano sul fatto, cosa che stava per accadere […] saremmo finiti direttamente in prigione, in attesa del processo, così era la legge dell’epoca” [Marini, Una mattina mi son svegliata, pp. 170-171].

Il clamore fu tale che due giorni dopo Straniero venne raggiunto, insieme ai responsabili della manifestazione, da una denuncia per vilipendio alle forze armate italiane. Fu a partire da questo spettacolo, però, che in Italia cominciò la stagione del folk–revival. Ne verrà poi tratto il disco Le canzoni di Bella ciao del 1965, in cui è proprio Sandra a cantare Gorizia tu sei maledetta.

Intensa la versione di Lucilla Galeazzi dal Nuovo Bella Ciao con il racconto del gran putiferio.

Nel periodo di collaborazione con il Nuovo Canzoniere Italiano, Sandra partecipa all’incisione di vari dischi per l’etichetta Dischi del Sole, insieme al NCI o in coppia con singoli artisti del gruppo, come Giovanna Daffini e Ivan Della Mea, di cui interpreta Con la lettera del prete.

Con Fausto Amodei canta Partire partirò, partir bisogna nel disco Il povero soldato.

Ma sono tre i brani su cui il lavoro di Sandra è davvero fondamentale: La boje, E per la strada e La lega.

La boje la impara da un’esecuzione di un’anziana di San Benedetto Po, Teodolinda Rebuzzi. La boje era il richiamo che aveva accompagnato i moti contadini mantovani del 1884, una sorta di grido minaccioso indirizzato dalla povera gente verso i possidenti terrieri e le autorità locali. Un grido di vendetta, un incitamento alla battaglia. Successivamente verrà aggiunto il coro per accentuare la natura collettiva di canto di lotta: L’Italia l’è malada/Sartori l’è il dutur/Per far guarì l’Italia/Tajem la testa ai sciur.

Qui interpretata da Giovanna Marini e il Quartetto urbano.

E per la strada è un altro canto che Sandra conosce da Teodolinda Rebuzzi. Racconta di uno sciopero agrario avvenuto nel Parmigiano nel 1908. Canzone più di cronaca che di lotta, Sandra la ripropone come la Rebuzzi la ricorda, avendone memorizzate solo alcune strofe, quelle di maggiore incitamento alla lotta.

Della Lega, invece, Sandra racconta di aver trovato versioni provenienti da tutta l’area padana, dal Vercellese alla zona di Padova. Registrazioni di mondine ed ex mondine, abituate a cantare in coro durante il lavoro di monda e di raccolta del riso. Straordinaria la versione con Giovanna Daffini

e l’uso che ne fa Bernardo Bertolucci nel film Novecento.

Durante lo spettacolo Bella ciao la Lega che fino a quel momento Sandra cantava da solista diventa un canto corale, con l’aggiunta spontanea di una voce in falsetto di Giovanna Daffini. Lei, un tempo mondina, rinnovava quel canto secondo un’interpretazione che le era familiare.

È attraverso questo percorso che Sandra matura una serie di convinzioni: “Mi fu chiaro che lo scopo di un cantante di revival che si ponesse un obiettivo culturale e politico nella prospettiva di una nuova cultura proletaria, non poteva essere quello di ricalcare più o meno fedelmente una serie di brani desunti da cantanti popolari.” Questo tipo di lavoro poteva certo avere una sua utilità divulgativa, di portare a conoscenza del pubblico borghese di un repertorio di cultura orale tradizionale. Ma questo non bastava a far evolvere la ricerca verso svolte davvero creative. “Capii – continua – che si doveva puntare all’acquisizione integrale di uno stile comunicativo popolare da usare poi liberamente, creativamente, come del resto avviene in concreto nella tradizione” [Plastino, p. 242]. Non imitazione, ma manifestazione reale di tradizione nel contesto del mondo contemporaneo.

Il progetto di Sandra, sul quale lavora instancabilmente, non è però per niente facile: “Molto grande è, infatti, la difficoltà di acquistare la consapevolezza culturale di una civiltà, quella popolare, cui non appartengo e della quale non conosciamo a fondo la dinamica interna” [Plastino, p. 242].

La solida cultura di Sandra, in realtà, le permette di affrontare da ricercatrice e da critica questo mondo. «A lei non bastava semplicemente cantare – dice Anna –, lei ha svolto lavoro di riflessione, di indagine su come erano cambiate certe canzoni, nelle strofe, nei versi, da zona a zona. Un lavoro molto importante, da lei scelto e condotto. Nella coppia è stato fondamentale il suo apporto, perché lei ha aggiunto la parte più critica, più analitica».

Nel 1967 Sandra incide un disco da solista: E per la strada – Sandra Mantovani canta storie dell’Italia settentrionale dove interpreta brani della tradizione popolare di lotta come Sante Caserio;

E per la strada;

Il garibaldino con il Gruppo Padano di Piadena

e Cecilia. 

Tra i tanti canti della tradizione di protesta incide anche Il feroce monarchico Bava,

il canto di emigrazione Mamma mia dammi cento lire

e il canto di protesta risalente al primo conflitto mondiale, Fuoco e mitragliatrici, raccolto da Leydi ad Alfonsine.

Dopo aver lasciato il NCI, Sandra dà vita insieme a Bruno Pianta (chitarra e voce) al gruppo dell’Almanacco Popolare, cui collaborano fra gli altri Moni Ovadia (voce e strumenti) e successivamente la violinista Cristina Pederiva. Attivo tra il 1967-68, nasce con l’idea di contribuire al movimento del folk revival specializzando la sua attività nell’esecuzione di materiale tradizionale. “La nostra proposta formale – dirà Sandra – non è una pedissequa imitazione di esecutori popolari […], ma un’interpretazione collettiva, di gruppo, di alcuni momenti di vita – e quindi di cultura – del popolo, espressi dal popolo, con le forme culturali dal popolo elaborate” [Plastino, p. 244].

Con l’Almanacco Popolare Sandra fa ricerca soprattutto in Lombardia. Gira per i paesi, nelle biblioteche a cui si propongono spettacoli, serate dedicate ai repertori della zona. “All’inizio – dice – il nostro lavoro era preso o per una stravaganza o per uno snobismo o, nei migliori dei casi, visto come propaganda politica contingente […]. La qualità deve essere messa al servizio di uno scopo più grande, per far sì che nei paesi e nei circoli, nelle biblioteche, nelle scuole, nelle fabbriche – cioè in tutti quei posti dove la classe operaia si organizza – si riprenda a fare cultura: questo è il fine del nostro lavoro” [Plastino, p. 686].

Nel 1969 esce il primo lp dell’Almanacco Popolare dal titolo Canti popolari italiani. Un progetto discografico innovativo: “Noi caratterizzammo le canzoni – dice Pianta – cercando per ognuno l’organico più valido. Inserendo strumenti di varia tipologia, senza limitarsi al mero accompagnamento della chitarra” [Plastino, p. 676].

L’anno successivo esce il secondo lp interpretato solo da Pianta e Sandra, intitolato Servi, baroni e uomini: solo dieci brani, alcuni molto lunghi e privi di accompagnamento musicale. “È stato il tentativo di recupero delle musicalità più arcaiche dell’Italia settentrionale, di ballate modali. Abbiamo cercato delle strumentazioni adatte ed essenziali, quando non le trovammo abbiamo preferito cantare solamente” [Plastino, p. 676].

Sandra canta E l’an taglià i suoi biondi capei,

El fiol del re sa l’à dait un bal

e Il testamento dell’avvelenato.

E poi Moran dell’Inghilterra,

Donna lombarda,

I giuvu d’antraime,

Papà demi la bela,

Prinsi Raimund,

Nel bosco di leandro,

sono invece interpretati da Pianta.

Le ricerche etnomusicali condotte da Sandra sul campo, soprattutto nell’Italia settentrionale, troveranno pubblicazione nell’Oscar Mondadori I canti popolari italiani. 120 testi e musiche, curato con Leydi e Cristina Pederiva, del 1973, testo che ha significativamente contribuito a diffondere presso il pubblico il folk revival. Si occuperà anche di circo, indagando le principali famiglie circensi in Italia.

«C’è stato un grosso lavoro di ricerca sul territorio che li ha impegnati per anni, nelle province lombarde – dice Rossana –. Sandra ha svolto una ricerca importante sugli artigiani milanesi, per esempio. Con lo stesso criterio usato quando lavorava sulla musica, è andata a intervistare il bronzista, il corniciaio, lo stagnino». E poi il canto popolare in ogni sua ritualità: «Della processione degli emigrati di Nola alla periferia di Milano, alle vittorie del Napoli e ogni altra manifestazione espressiva. Cosa che gli aveva procurato l’opposizione della Lega, molto in disaccordo con questa estensione degli interessi sia di Sandra che di Roberto per la cultura meridionale e per cultura degli immigrati meridionali a Milano. Erano stati contestati e osteggiati. Anche perché questi progetti nascevano con la Regione Lombardia. Bruno Pianta è stato per anni il direttore dell’Archivio di etnografia e storia sociale della Regione Lombardia».

La gran parte di questo lavoro diventerà materiale per le lezioni che negli anni Ottanta Sandra terrà alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi, docente del corso di Tecniche di Comunicazione Orale. Smetterà di cantare per dedicarsi all’insegnamento e alla ricerca.

Fino a che, nel 2003, alla morte del marito, interromperà anche questa attività. «Resta davvero misterioso – dice Rossana –, come abbia chiuso tutto con la morte di lui».

“Quello che ho sempre trovato straordinario di Sandra – racconta Giovanna Marini – era il suo senso del dovere e della coerenza nel lavoro, con una intelligenza aperta e, quello che è più importante, una grande generosità [Mercurio, p. 38]. Indubbiamente se poco conosciamo del pensiero di Sandra, poche sono le interviste rilasciate, certo emerge da queste parole, ma anche dalle scelte e dall’intensa interpretazione dei canti, una vocazione determinata nel dare voce al mondo delle minoranze, degli emarginati, dei lavoratori della terra o delle fabbriche, delle mondine, degli immigrati, degli ultimi artigiani che presto la grande metropoli avrebbe spazzato. «Una volta – racconta Anna – a un concerto di Sandra c’era Pietro Nenni ad ascoltarla. Quando lei ha finito di cantare lui è salito sul palco, le si è avvicinato e le ha detto: ti devo ringraziare perché tu canti le cose che io non riesco più a dire».

Una vita dedicata alla salvaguardia della cultura popolare in tutte le sue sfaccettature. Un lavoro instancabile. Con una sentita vocazione antifascista.

«Un giorno il nostro edicolante di Milano, un attivista dell’Anpi, – dice Rossana – chiese a Silvio se voleva iscriversi all’Associazione. Lui rispose che avrebbe certamente mandato qualcuno interessato. Così andò Sandra che si iscrisse subito. Il suo era un antifascismo assolutamente profondo e radicato in tutta la famiglia».

Sandra Mantovani è mancata nell’ottobre 2016, capostipite di una genìa di donne e artiste straordinarie, le voci più autentiche della storia musicale del nostro Paese.

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli