Da http://viviisraele.it/2018/02/14/dallantropologia-alleugenetica-lescalation-di-follia-del-nazismo-contro-il-popolo-ebraico/

Sembra mostrare tutte le fragilità l’intesa sulla distribuzione dei migranti siglata dai Paesi europei a Malta lo scorso settembre. Si conferma un’unica certezza: i profughi sono presenze scomode, indesiderati da tutelare solo verbalmente, ma nella realtà, se si riesce, è preferibile evitare di accoglierli. Ed è una storia già vista: nel 1938 un’altra conferenza, oggi dimenticata e taciuta dai libri scolastici, ha fatto imboccare al treno degli ebrei europei il tunnel della Shoah.

Nell’anno che vedrà la Conferenza di Monaco e l’annessione dell’Austria tra l’indifferenza delle varie nazioni europee, Hitler sta organizzando la cacciata in massa degli ebrei dal territorio tedesco. Il 26 marzo un decreto ha stabilito “l’arianizzazione” di tutti i loro beni immobili e mobili, escludendo solo quelli il cui valore è al di sotto dei 5.000 reichsmark. A spiegare il sistema è l’SS-Obersturmbannführer Adolf Eichmann: «Basta condurre un ebreo dinanzi a un palazzo, lo si fa entrare dal portone principale carico di merci, di proprietà immobiliari, di un conto bancario e dei diritti civili. Man mano che attraversa l’edificio e giunge all’uscita secondaria viene privato e spogliato di ogni cosa, a eccezione del passaporto. Inoltre gli viene consegnato l’ordine di abbandonare, entro quindici giorni, il Paese, se non vuole essere condotto in un campo di concentramento».

Adolf Eichmann (da https://upload.wikimedia.org/ wikipedia/commons/e/e4/ Adolf_Eichmann%2C_1942.jpg)

Ma dove può recarsi un ebreo? Eichmann sa bene, infatti, che dal 1933 tutte le nazioni europee e gli Usa hanno deciso di chiudere le frontiere, per la crisi che ha colpito l’economia mondiale nessuno vuole quei profughi. In questa situazione senza via di scampo, gli ebrei non tedeschi presenti su territorio teutonico credono di essere fatti salvi, ma Hitler li lascia sbalorditi dichiarando: «Il problema ebraico è una questione di razza, indipendente alla nazionalità, ne consegue che gli ebrei stranieri devono essere trattati come ebrei e non come cittadini di nazioni straniere».

La comunità ebraica mondiale alza la voce, convinta di essere supportata dalle rispettive nazioni di appartenenza e invece si rende conto che le proteste sono molto flebili, per non dire quasi nulle. Addirittura la Francia, per prima, dichiara di voler rimpatriare in Germania circa 10.000 ebrei accolti nel 1933. Georges Bonnet, ministro degli Affari esteri, lo comunica, durante una visita ufficiale, al collega tedesco Von Ribbentrop, che gli risponde: «Vorremmo tutti sbarazzarci dei nostri ebrei ma le difficoltà risiede nel fatto che nessun Paese è disposto ad accoglierli».

Di conseguenza nasce la caccia al visto, migliaia di ebrei tedeschi e di altre nazionalità presenti sul territorio germanico e austriaco si precipitano presso le ambasciate nella speranza di poter ottenere il prezioso lasciapassare.

I vari enti ebraici si adoperano per fornire le “dichiarazioni giurate” necessarie per poter emigrare [1]. Nel frattempo la Gestapo crea delle trappole per costringere gli ebrei a diventare dei profughi erranti: l’escamotage preferito è quello di privarli del passaporto mentre stanno per uscire dal Paese, con la promessa, mendace, di consegnarlo alle autorità della nazione in cui sono diretti. Risultato: quelle persone si ritrovavano senza documenti per l’espatrio, pertanto espulsi e costretti a cercare salvezza altrove. Ben presto la situazione diviene talmente insostenibile che molti ebrei, soprattutto in Austria, si suicidano.

Ed ecco il commento del ministro della propaganda del Terzo Reich, Paul Joseph Goebbels: «Si dice che gli ebrei di Vienna si suicidino in massa, non è assolutamente vero. Il numero totale di suicidi a Vienna non è cambiato, esiste solo una differenza: invece dei tedeschi, adesso, sono gli ebrei a suicidarsi».

In precedenza, nel 1933, la questione dei rifugiati ebrei era stata sottoposta alla Società delle Nazioni [2] su iniziativa dei Paesi Bassi. Ma quando la sessione dedicata si era riunita, Hitler aveva dichiarato di voler lasciare l’organizzazione internazionale creata dopo il Primo conflitto mondiale e concluso: «Gli emigranti con passaporto tedesco hanno lasciato la Germania da soli [3]. Ciò aveva comportato il blocco dei lavori della Prima commissione, ma era intervenuta la Seconda, promossa proprio dal governo olandese con la richiesta di creare di un “Alto commissariato per i rifugiati provenienti dalla Germania”.

La Wilhelmstrasse [4] aveva accettato l’istituzione, a condizione però che non avesse agito in nome della Società delle Nazioni e neppure avesse ricevuto alcuna direttiva dall’organizzazione internazionale né tantomeno sovvenzioni economiche: avrebbe dovuto rispondere a un Consiglio di quindici governi.

L’11 ottobre 1933, tre giorni prima del ritiro della Germania dalla Società delle Nazioni, il progetto era stato adottato, nonostante il rappresentante del Reich si fosse astenuto dal voto. Il giorno successivo, i Quindici avevano nominato Presidente dell’Alto commissariato lo statunitense, professore e giornalista, James MacDonald che, per evitare la suscettibilità dei tedeschi e dimostrare l’autonomia dalla Società delle Nazioni, aveva scelto di collocare il suo ufficio non a Ginevra (dove aveva sede la SdN) bensì a Losanna [5].

Per due anni McDonald si era battuto strenuamente contro le restrizioni all’immigrazione varate in tutto il mondo e per organizzare il reinsediamento dei rifugiati ebrei. Malgrado il grandissimo l’impegno, l’azione di MacDonald era, purtroppo, destinata al fallimento. Nel settembre 1935, i nazisti avevano introdotto le leggi di Norimberga, privando gli ebrei di cittadinanza e diritto di voto, nel silenzio dei governi dei Quindici. McDonald si era dimesso il 27 dicembre 1935.

La Conferenza di Evian-les-Bains

Dinanzi all’insuccesso di MacDonald e all’inefficienza della Società delle Nazioni, le associazioni ebraiche e protestanti statunitensi avevano esercitato forti pressioni direttamente sulla Casa Bianca. Così il 22 marzo 1938, il presidente Franklin Delano Roosevelt lancia il progetto di una Conferenza internazionale per i rifugiati ed estende l’invito a trentatré Paesi. L’obiettivo è salvare seicentocinquantamila persone in fuga dalla furia nazista o almeno così lascia intendere. In realtà, il vero scopo della proposta è rassicurare il Congresso: senatori e deputati temono che l’insistenza delle lobby ebraiche e protestanti possa permettere una revisione del Quota Act del 1921 e dell’Immigration Act del 1924, con cui si limitava agli immigrati l’ingresso negli Stati Uniti, a favore di un’apertura a ebrei e profughi [6]. Roosevelt incarica Cordell Hull, Segretario di Stato, di comunicare agli ambasciatori statunitensi che le quote di immigrazione non saranno aumentate e di rassicurare i leader degli Stati partecipanti alla Conferenza che non avranno, in alcun modo, l’obbligo di accogliere rifugiati e di dover rivedere la loro legislazione sull’immigrazione.

Franklin Delano Roosevelt (da https://www.biography.com/us-president/franklin-d-roosevelt)

I Paesi dell’Europa orientale [7], ignari delle reali intenzioni Usa, sono soddisfatti dell’idea della Conferenza, come anche l’intera opinione pubblica internazionale, nonostante il 31 marzo 1938 un articolo del New York Times sembri avanzare seri dubbi sulla concreta riuscita: “Mi si spezza il cuore – scrive il giornalista – a pensare alle code di esseri umani disperati di fronte ai consolati di Vienna e di altre città che attendono con angoscia cosa accadrà a Evian. Ma il problema che pongono non è solo umano. Non si tratta di quante persone sono disoccupate, ma anche di stabilire se il nostro Paese può tranquillamente aggiungere altri disoccupati a quelli esistenti. Il nostro stesso grado di civiltà è messo alla prova. L’America sarà in grado di riuscire a guardare al futuro qualora consenta alla Germania di condurre i suoi propositi politici fino alla fine, se permetterà al fanatismo di un uomo di trionfare, se rifiuterà di affrontare la sfida contro la barbarie e di conseguenza aprire le porte alle sue vittime?”.

Per nulla preoccupato, è Hitler a dichiarare: «Posso solo sperare che il resto del mondo abbia abbastanza simpatia per questi criminali ebrei da riuscire a concretizzarla in un aiuto efficace. Noi siamo disponibili a inviarli a questi Paesi anche a bordo di barche di lusso [8]. Poco c’interessa».

Il Segretario di Stato americano propone come sede dell’incontro la Svizzera, ma la Confederazione elvetica si oppone. Subentra la Francia: il Presidente del Consiglio Camille Chautemps individua la città termale di Evian-les-Bains, situata dall’altra parte del Lago Lemano, proprio di fronte alla Città di Ginevra.

Le sessioni verranno tenute a porte chiuse e alla stampa verrà fornito, quotidianamente, un breve comunicato. Il periodo scelto è dal 6 al 15 luglio presso l’Hotel Royal [9] e il costo è a carico dei singoli Paesi, 28 franchi svizzeri per ciascun partecipante della delegazione [10].

Roosevelt nomina capo rappresentante della delegazione americana l’amico Myron Charles Taylor [11], diplomatico e filantropo stimato da tutti; tuttavia non gli affida alcuna proposta o progetto da perseguire, lo saluta dicendogli semplicemente: «Vai e riunisci tutte queste persone!», quasi a voler dire “fai, ma non ti sforzare più di tanto”. Taylor si reca in viaggio esplorativo prima a Parigi e poi a Londra. Nella capitale britannica apprende che Chaim Weizmann, presidente del Congresso ebraico, chiede di poter intervenire alla Conferenza per esporre senza intermediari la criticità della situazione e perorare l’aiuto delle nazioni. Il diplomatico statunitense sarebbe favorevole alla richiesta, ma il Regno Unito si oppone. Grazie alla mediazione di sir Michael Palairet, delegato britanno a Evian, si giunge a un compromesso: i rappresentanti delle comunità ebraiche potranno intervenire, ma Tylor non potrà incontrarli. L’Italia dichiara che non parteciperà ai lavori, ma invierà un osservatore come il Sud-Africa e la Polonia. La Germania non ha delegati, ma autorizza la partecipazione a ventuno associazioni ebraiche tedesche e austriache. La Svizzera, nonostante la contrarietà alla Conferenza (il 30 aprile aveva lanciato un appello al Consiglio della Società delle Nazioni affinché riconoscesse la sua neutralità e esentasse la Confederazione dal varare sanzioni economiche), invia due delegati: uno è Heinrich Rothmund, capo della divisione di polizia del dipartimento della Corte di giustizia, responsabile della divisione per la sovrappopolazione straniera (Überfremdung) e combatte la “giudaizzazione” (Verjüdung) della Svizzera; l’altro è Henri Werner, avvocato presso la divisione del polizia del Dipartimento federale di giustizia.

Il calendario dei lavori prevede la chiusura della Conferenza per il 15 luglio con lettura pubblica delle risoluzioni approvate.

Henry Bérenger inaugura la Conferenza internazionale sull’emergenza rifugiati

Il pomeriggio del 6 luglio 1938 si apre la Conferenza. I delegati indossano l’abito ufficiale dei diplomatici: pantaloni a righe, soprabito o giacca corta incrociata, decorazioni militari appese al petto. Alcuni portano pure il cappello a cilindro. Ad accogliere i rappresentanti e pronunciare il discorso introduttivo è il senatore Henry Bérenger. L’esponente francese per prima cosa esalta la sua patria, «terra di accoglienza e terra di discussione libera», quindi rivolge a nome della sua nazione i ringraziamenti al presidente Roosevelt per aver promosso l’iniziativa.

La parola passa poi a ogni singolo delegato per portare il messaggio delle nazioni di appartenenza e delinearne l’orientamento. Infine Bérenger si rivolge ai rappresentanti delle associazioni ebraiche e cristiane presenti: «Vorrei dire alle associazioni dei rifugiati, venute liberamente dal momento che nessuno li ha convocati, che sono benvenuti all’interno di questo contesto». La scelta del termine “rifugiati”, senza specificazioni, non è casuale: nella fase preparatoria, gli inglesi avevano chiesto espressamente all’ambasciatore americano Joseph Kennedy, padre del futuro presidente, che durante le sessioni della riunione non fossero mai pronunciate le parole “ebreo” e “Palestina”.

È previsto nella Conferenza l’ascolto delle associazioni di volontariato e di quarantaquattro Ong, di cui venti sono ebraiche (possono riferirsi agli ebrei solo ed esclusivamente per indicare l’esistenza della comunità), ma le dichiarazioni rilasciate verranno ritenute confidenziali.

Problemi economici

Arriva il momento in cui i singoli delegati esprimono le posizioni riguardo alla disponibilità ad accogliere i profughi in rapporto alla situazione economica.

Henry Bérenger sostiene la volontà della Francia di aiutare i profughi, ma al contempo fa presente «l’esaurimento delle risorse, che purtroppo non sono così illimitate come l’ardore di servire la comunità degli uomini». Lord Winterton per il Regno Unito ricorda la storica disponibilità del popolo anglosassone nell’offrire asilo a tutti coloro che per ragioni «politiche, razziali o religiose, hanno dovuto abbandonare il proprio Paese. Il Regno Unito non ha mai avuto motivo di rimpiangere questa politica, e i rifugiati hanno spesso arricchito la vita e contribuito alla prosperità di popolo britannico». Tuttavia «il Regno Unito non è un Paese di immigrazione. È altamente industrializzato, completamente popolato ed è ancora in difficoltà per il problema della disoccupazione». Dunque «per motivi economici e sociali, la politica tradizionale di concessione dell’asilo può essere applicata soltanto entro limiti ristretti». Un modo o gentile per dire che non c’è spazio per aprire le porte a tutti. Robert De Foy, delegato del Belgio, sottolinea che c’è una «saturazione dell’immigrazione» per cui «con grande rammarico, il suo Stato ha urgenza a riconsiderare il problema dei rifugiati, prima di assumere nuovi impegni internazionali». S’accoda a quest’affermazione il delegato dei Paesi Bassi W.C. Beucker Andreae.

Stesso registro dai delegati extraeuropei. Il messicano Primo Villa Michel evidenzia che «una grande riforma economica si sta effettuando nel mio Paese per sostenere la popolazione rurale. Seguendo questo programma – aggiunge – il mio governo si propone di elevare il tenore di vita dei nostri lavoratori a un livello che merita di essere chiamato civilizzato». Ma «la realizzazione di questa riforma ha obbligato il mio governo a dover regolare l’afflusso degli immigrati […]. Nonostante tutto porto un messaggio di buona volontà: il Messico entro i limiti delle sue possibilità legali ed economiche, è disposto a collaborare, in modo positivo, con gli Stati qui presenti, nella soluzione di questo problema». Il tenente colonnello Thomas W. White, rappresentante dell’Australia, è più diretto: «limitiamo la migrazione principalmente a quanti intraprenderanno occupazioni commerciali o di altro tipo senza che ciò vada a scapito del guadagno della nostra popolazione». Il canadese Hume Wrong si preoccupa di ribadire che l’immigrazione è stata limitata «tranne che per alcune categorie di agricoltori e parenti stretti delle persone presenti in Canada». L’argentino Tomas A. Le Breton è ancora più drastico: «Gli agricoltori, pur esperti, non potrebbero trovare sul nostro territorio ampie strutture capaci di accoglierli. L’economia è basata soprattutto sull’allevamento di bestiame all’aperto che non richiedere l’uso di numerose opere. L’immigrazione in Argentina deve quindi essere diretta verso forme di attività specializzate».

Idee riaffermate da J. M. Yepes per la Colombia e da A. Gastelu per l’Ecuador. Alfredo Carbonell-Debali, delegato dell’Uruguay, fa un’affermazione sconcertante, seppur funzionale all’accoglienza di potenziali lavoratori: «gli immigrati mai e poi mai devono presentare dei difetti fisici, mentali o morali». Un’apertura arriva solo dal Brasile: Hélio Lobo rimarca che «il suo Paese, sin dalla nascita, ha praticato una politica di porte aperte, ha sempre incoraggiato l’ammissione dei lavoratori necessari allo sfruttamento della sua ricchezza, in particolare agricola. Tra il 1820 e il 1930 ha ricevuto circa quattro milioni e mezzo di immigrati, quasi tutti europei, equivalente a circa un decimo della sua popolazione totale». Quindi rimane spazio soltanto per immigrati disposti a compiere lavori agricoli per almeno quattro anni. E la Svizzera? Il delegato elvetico Rothmund interviene nella sessione plenaria dell’11 luglio: «A causa del gran numero di stranieri residenti in Svizzera, il governo è stato obbligato a introdurre al termine della Grande guerra un controllo sulla loro ammissione. Il censimento del 1930 ha messo inoltre in evidenza che gli stranieri ascendono al 9% della popolazione, cioè su 4 milioni di abitanti sono ben trecentocinquantacinquemila. Di questi, trecentomila sono in possesso di un permesso di soggiorno, mentre il resto no. Purtroppo dato il territorio e la situazione economica non possiamo accogliere altre persone» [12].

Insomma, tutte le nazioni proclamano la loro disponibilità ma, a eccezione del Brasile, nessuno è disposto ad accogliere i migranti ebrei.

La conferenza di Evian

Le decisioni della Conferenza

Il 15 luglio a Evian si chiudono i lavori con un nulla di fatto, ci si limita a richiamare le dichiarazioni dei singoli Paesi. Unico risultato è la creazione del Comitato intergovernativo per i rifugiati che s’insedia il 3 agosto 1938 a Londra; Lord Winterton è nominato presidente, nonostante la sua avversione per gli ebrei, mentre lo statunitense George Rublee assume il ruolo di direttore.

La stampa nazista esulta: “Ebrei in saldo, nessuno li vuole!” e Hitler, libero di poter attuare la politica razziale nei confronti degli ebrei e verso coloro che intende eliminare, al Reichstag afferma: «Queste democrazie gridano alla sconfinata crudeltà adottata della Germania nel tentare di sbarazzarsi degli ebrei. Sono Paesi enormi, con pochi abitanti per chilometro quadrato, contro i centoquaranta della Germania. Nonostante ciò, in passato la Germania non s’è fermata, ha accolto migliaia di ebrei, ma oggi il malcontento popolare sta crescendo e la Germania è riluttante a lasciarsi sfruttare ulteriormente da questi parassiti. Tutti questi Paesi sono preoccupati e dispiaciuti della situazione, ma ciò non vuol dire, assolutamente, che intendono risolvere il problema in maniera efficace e proficua, ma solo ricorrendo all’ipocrisia. Al contrario, dicono che non hanno spazio…. In poche parole, non offrono nessun aiuto, invece forniscono tante lezioni!» [13].

Un’offerta allettante

Il 12 agosto 1938 sulla scrivania del Comitato per i Rifugiati giunge un messaggio del presidente della Repubblica Dominicana, Rafael Leonidas Trujillo Molina: “Siamo disposti a ricevere immediatamente da cinquanta a centomila emigranti”. Immediatamente il direttore del Comitato chiede conferma alla delegazione degli Stati Uniti di stanza nella capitale domenicana; alcuni giorni dopo una rappresentanza del governo di Santo Domingo arriva a Londra, confermando quanto anticipato per telescrivente. Le ragioni della disponibilità ad accogliere i profughi ebrei vanno cercate nella politica tenuta l’anno precedente, il 1937, da Trujillo: ha massacrato duecentomila esuli haitiani e così gli Usa hanno deciso di non appoggiarlo più. Il presidente domenicano si propone di recuperare la fiducia del governo statunitense e, nello stesso tempo, di assicurarsi entrate economiche sicure. Infatti, non appena la sua proposta di aprire i porti è stata divulgata, la comunità ebraica di New York s’è offerta di pagargli 5.000 dollari a persona. Washington però, dopo alcuni mesi di ambiguità, pone il veto e il responsabile della comunità ebraica di New York, non riuscendo a ottenere le garanzie richieste, lascia decadere il progetto.

Nel frattempo, Hitler porta avanti imperturbabile l’idea già dichiarata anni prima, il 16 gennaio 1936, al ministro degli Esteri ungherese: «Il problema ebraico non è una questione solo ed esclusivamente della Germania. La Germania si dichiara disposta ad assistere qualsiasi nazione che s’impegnerà a combattere e debellare questo male».

L’unico favorevole a sostenere la creazione di uno Stato dove far confluire gli ebrei è Benito Mussolini. L’idea del dittatore italiano è condivisa dalle autorità polacche, rumene, ungheresi, ben felici di potersi sbarazzare di “quegli esseri indesiderati”. In un primo momento, su proposta di Paul de Lagarde, antisemita e membro del movimento Völkisch per restituire l’identità tedesca, viene individuata l’isola del Madagascar, nell’Oceano indiano. Subito le comunità ebraiche si mettono al lavoro, mandano delegazioni a ispezionare l’isola e verificare le reali possibilità di un trasferimento di massa. Quindi si recano a Parigi per conferire con il ministro francese delle colonie, Marius Moutet, e ottenere l’autorizzazione. Tuttavia la Francia non accetta né rifiuta: pur non volendo innescare una crisi internazionale, teme che la creazione di una comunità di tedeschi sul suo territorio possa alimentare pretese di annessione da parte germanica. Quest’atteggiamento infastidisce Berlino e Varsavia, mentre il governo rumeno, italiano e ungherese cercano di vagliare autonomamente la reale possibilità di attuare il progetto.

Il ministero degli Esteri francese Quai d’Orsay (da https://it.wikipedia.org/wiki/ Ministero_dell%27Europa_e_degli_affari_esteri# /media/File:Entrance_of_H%C3%B4 tel_du_ministre_des_Affaires_%C3%A9trang% C3%A8res_PA00088723_(7).jpg)

Il 7 dicembre 1938 durante una visita a Parigi del ministro degli Esteri del Reich, Von Ribbentrop, il Quai d’Orsay dichiara: «La Francia potrebbe inviare 10.000 ebrei in Madagascar». Sia Berlino sia Londra interpretano l’affermazione come volontà reale di creare una colonia ebraica sull’isola malgascia. Nello stesso periodo arriva la notizia che pure Haiti sta valutando la possibilità di accogliere cinquantamila ebrei, ma la possibilità di ospitare tedeschi nell’area del continente americano non piace affatto alla Casa Bianca. Dal canto suo, la Wilhelmstrasse specifica che sarà necessario trovare un secondo territorio oltre al Madagascar, perché non si tratta di popolare l’isola solo con ebrei tedeschi e austriaci, piuttosto di farvi confluire tutti gli ebrei presenti nei territori dell’Europa orientale.

Il solo a rimanere convinto di dover fare qualcosa per gli ebrei, anche se al di fuori del territorio americano, è Roosevelt, che valuta la creazione di una comunità di esuli ebrei in Angola. L’idea era stata ipotizzata, fin dal 1910, dall’Organizzazione territoriale ebraica, che aveva acquistato allo scopo una concessione in Angola con il beneplacito della Camera dei deputati portoghese, ma lo scoppio della Prima guerra mondiale aveva fatto fallire il proposito.

Roosevelt scrive a Myron Taylor, rappresentante degli Stati Uniti in Gran Bretagna, per chiedere il sostegno del Primo ministro Chamberlain e compiere un’azione comune sul presidente del Portogallo, Salazar, con il chiaro intento di realizzare la comunità ebraica in Angola. [14] La creazione di una casa ebraica in Angola sarebbe fonte di prosperità sia per gli ebrei sia per gli autoctoni ma soprattutto per il Portogallo. Dal Regno Unito arriva però un no deciso, gli equilibri delle potenze coloniali non vanno alterati.

La Notte dei Cristalli

Mentre i discorsi si perdono nell’aria, giunge la notte tra l’8 e il 9 novembre 1938: le strade tedesche e austriache vengono investite dalla violenza delle SA contro case e negozi ebrei. Il pogrom viene giustificato come risposta al ferimento e poi alla morte del segretario dell’ambasciata tedesca a Parigi, Ernst Eduard vom Rath, colpito da un giovane ebreo polacco, Herschel Grynszpan.

Il bilancio della Kristallnacht è a dir poco pauroso: novantuno persone uccise, ventinove grandi magazzini incendiati e completamente distrutti, centosettantuno appartamenti devastati, centosettantasette sinagoghe e luoghi di culto distrutti, settemilacinquecento negozi saccheggiati. Trentacinquemila ebrei maschi vengono arrestati e internati nei campi di Buchenwald, Dachau e Sachsenhausen, in attesa della loro espulsione dal Paese.

Effetti della Notte dei Cristalli

Il 12 novembre 1938, il governo del Reich esclude totalmente gli ebrei dalla vita economica e dalla vita culturale [15]. A livello mondiale tutto tace, nessun governo protesta. Anzi la Francia, con il ministro dell’Interno Albert Sarraut, ritiene prudente chiudere i confini del Paese, nel timore di un massiccio afflusso di rifugiati.

L’ingranaggio degli abbandoni trova il suo apogeo il 30 settembre 1938 con il Patto di Monaco, l’accordo che spalancherà a Hitler le porte della Cecoslovacchia, facendo precipitare nel giro di un anno l’intera Europa in un terribile conflitto armato.

La conferenza di Evian ha solo confermato che nessuno Stato è disposto a offrire rifugio a persone che stanno rischiando la vita, dimostrando che la solidarietà è un concetto relativo e aleatorio. Proprio come oggi.

Stefano Coletta, insegnante


Bibliografia:

Salomon Azoulay, L’hypocrisie des Nations, Edizioni Biblioeurope, 2003;

Yehuda Bauer, Juifs à vendre, Edizioni Liana Levi, 1996;

Eliahu Ben Elissar, La diplomatie du III Reich et les Juifs : 1933-1939, Julliard Editore, 1969;

Vicki Caron, L’asile incertain, la crise des réfugiés juifs en France 1933-1942, Tallandier Editore,

2008;

Marc-André Charguéraud, La Suisse présumée coupable, Edizioni L’Âge d’Homme, 2001;

Marc-André Charguéraud, Silences meurtriers : les alliés, les neutre, l’holocauste 1940-1945, Cerf, 2001;

Marc-André Charguéraud, Tous coupables, les démocraties occidentales et les communautés religieuses face à la détresse juive 1933-1940, Edizioni Labor et Fides (Ginevra) e Les Éditions du

Cerf (Parigi), 1998;

Marc-André Charguéraud, L’étoile jaune et la Croix-Rouge, le Comité international de la Croix-Rouge et l’Holocauste 1939-1945, Edizioni Cerf/Labor et Fides, 1999;

Raphael Delpard, La Conference de la Honte, Michalon Editore, 2015.


[1] La dichiarazione giurata attestava che un ebreo non tedesco era esente dal pagare le imposte sui beni nel Paese in cui emigrava, perché già tassato in quello di provenienza.

[2] Della Società delle Nazioni, l’organizzazione internazionale istituita dopo la Prima guerra mondiale non facevano parte gli Usa, nonostante avessero concorso a realizzarla. Nel 1933 Germania e Giappone si ritireranno, nel 1937 lo farà anche l’Italia, mentre l’Urss verrà espulsa nel 1939.

[3] Il diplomatico israeliano Eliyahu Ben-Elissar afferma: «L’intera logica dei rifugiati di Hitler è lì, riassunta in poche parole. Il Reich non deve nascondere il suo desiderio di liberarsi degli ebrei. Nulla impedisce ai rifugiati di diventare naturalizzati, se possono, nei Paesi ospitanti, perdendo così la nazionalità tedesca. Tuttavia, fintanto che rimangono cittadini tedeschi, nessun intervento per loro poteva essere tollerato da un’organizzazione internazionale perché sarebbe un’intollerabile interferenza negli affari interni del Reich. La Germania deve opporsi al beneficio per i rifugiati di un passaporto temporaneo sul modello del passaporto Nansen o altri documenti di viaggio internazionale. La concessione di tali documenti d’identità contribuirebbe solo a internazionalizzare il problema ma, inoltre, renderebbe permanente il loro status di sradicato e li incoraggerebbe, nonostante tutto, a tornare un giorno in Germania. Il Reich ha tutto il diritto di espellere ebrei ed espropriare la loro proprietà. Sta a loro cavarsela, e quindi alla fine di conti, sono dipendenti da altri Paesi».

[4] Wilhelmstrasse è un’importante arteria nel cuore di Berlino, qui, fino al 1945, erano collocati gli uffici della Cancelleria del Reich e del ministero degli Esteri. Il nome della strada veniva quindi spesso usato come metonimo del dicastero degli Esteri.

[5] Una scelta non casuale, MacDonald aveva numerosi contatti con vari funzionari del governo nazista. Durante i suoi viaggi in Europa, incontrò Adolf Hitler e partecipò al “congresso della vittoria” del Partito socialista nazionale, tenutosi a Norimberga il 1° settembre 1933.

[6] “Il numero annuale di visti – dice Eliyahu Ben-Elissar – ascendeva a 153 774. Di questi 85 575 sono riservati cittadini della Gran Bretagna e dell’Irlanda e solo 27000 immigrati dalla Germania e dall’Austria”.

[7] Bulgaria, Polonia, Romania, Ungheria e Cecoslovacchia.

[8] Basti pensare al caso della St. Louis che abbiamo raccontato su Patria Indipendente

[9] I delegati dormono ai piani superiori, gli accompagnatori e i giornalisti sono distribuiti nei venti alberghi della città.

[10] Le delegazioni sono così composte: 108 persone per gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, 80 per la Francia, 35 per il Canada, 23 per l’Argentina, l’Australia e il Brasile, 17 per la Svizzera, 9 per la Norvegia, 1 delegato per Panama e 1 a metà per Honduras e Nicaragua.

[11] Myron Charles Taylor (1874 – 1959) è stato un imprenditore, diplomatico e frammassone statunitense.

[12] La Svizzera può però vantare uno dei primi Giusti tra le nazioni: Paul Grüninger, ex calciatore poi capitano della polizia cantonale di San Gallo che, contravvenendo alle disposizioni del suo governo, tra il 1938 e il 1939, falsificando e manipolando documenti, autorizza l’ingresso in territorio elvetico a tremila ebrei. Per ordine di Rothmund, verrà radiato e sarà costretto a vivere di lavori saltuari. Nel 1971 (un anno prima della sua morte) verrà riconosciuto Giusto tra le nazioni.

[13] Quasi quarant’anni più tardi, il 21 luglio 1979, in una conferenza Onu, il vicepresidente americano Walter Mondale dichiarerà: «I problemi affrontati a Evian facevano riferimento al rispetto della vita e della dignità umana. Se ogni nazione avesse accettato di ospitare diciassettemila rifugiati ebrei, tutti gli ebrei in pericolo si sarebbero salvati».

[14] «Per il suo nobile contributo al benessere degli uomini e alla pacificazione il mondo, il governo portoghese potrebbe garantire pienamente le entrate crescenti richieste dal progresso. Tale attività renderebbe il signor Salazar uno dei personaggi più importanti della storia del suo Paese e dei nostri tempi». António de Oliveira Salazar è il dittatore che fondò e guidò l’Estado Novo (“Nuovo Stato”), il governo autoritario corporatista portoghese che durò fino al 1974 (quattro anni dopo la morte di Salazar), a cui pose fine la Rivoluzione dei garofani.

[15]: Articolo I:

  1. Dal 1° gennaio 1939, è proibito agli Ebrei il libero esercizio della vendita al dettaglio, della vendita per corrispondenza e dell’artigianato.
  2. A decorrere dalla stessa data, agli Ebrei è altresì proibito promuovere e pubblicizzare beni e servizi in qualsiasi mercato, fiera o mostra e accettare ordini di acquisto.
  3. I negozi giudei che opereranno in violazione di questa ordinanza saranno chiusi dalla polizia.

Articolo II:

  1. A nessun ebreo è consentito amministrare un’impresa con la qualifica di “amministratore” secondo la definizione che di tale termine dà la legge sul Lavoro Nazionale del 20 Gennaio 1934.
  2. Qualora un ebreo ricopra una carica direttiva all’interno di un’impresa, potrà essere licenziato con un preavviso di sei settimane. Al termine di questo periodo tutti i diritti derivanti dal contratto d’impiego, specialmente quelli relativi a compensazioni e pensioni, saranno considerati nulli.

Articolo III:

  1. Nessun ebreo può essere membro di una Società Cooperativa.
  2. Dal 21 Dicembre 1938, gli ebrei membri di Cooperative perderanno la qualifica di socio. Non sarà necessaria alcuna notifica.