“La storia dei sette fratelli Cervi, fucilati insieme dieci anni fa”
Italo Calvino
Qui da questo filare comincia la terra dei sette fratelli.
Questa piana sono state le braccia dei sette fratelli a lavorarla, questi canali, questa vigna, ogni cosa qua intorno, l’hanno fatta i sette fratelli; e questa è la loro fattoria, quella è la stalla, la famosa stalla razionale, orgoglio dei sette fratelli, e le bestie famose per il latte e per il peso, e là sono gli alveari di Ferdinando, il quarto dei sette, l’apicoltore; ed ecco l’ala della casa che fu incendiata quella notte, ecco le finestre da cui i fratelli risposero al fuoco dei fascisti, ecco il muro contro il quale furono messi in fila a mani alzate dopo che Gelindo aveva salutato le donne e detto che resistere si poteva di più e che conveniva arrendersi per poi cercare di scappare, e Aldo aveva detto che stessero tutti tranquilli, che avrebbe preso lui la responsabilità di tutto e così anche se lo fucilavano restavano sei di loro a far andare avanti la campagna; la storia dei sette Cervi si è svolta tutta qui, in questa fattoria, su questa terra.
E qui continua anche qui sull’aia, il giovane che aggiusta la ruota di un carro, la ragazza che dà il becchime ai polli, i ragazzetti che giocano sono tutti figli dei Cervi, gli undici figli di Gelindo, di Antenore, di Aldo, di Agostino; e quel vecchio che alza forcate di fieno, e grida e apostrofa, quell’uomo basso e solido e nodoso come un ceppo d’albero è Alcide Cervi, il vecchio Cide, il padre scampato al dolore e al terrore, con settantasei anni sulle spalle e sempre all’opera, a dirigere la tribù delle nuore e dei nipoti, e in giro per i suoi incarichi di assessore comunale e di cooperatore, in sella alla sua bicicletta, per le vie della campagna, come cercando di tenere in vita ancora quanto più può di quella somma di energie e d’idee che veniva pure da lui, incarnata in quei sette.
È sempre la terra dei Cervi, questa, i campi sono bene coltivati, il bestiame nella stalla è numeroso come loro lo hanno lasciato, le botti in cantina sono piene del vino nuovo e del vecchio; non c’è mai stato posto qui per lo scoraggiamento, l’abbandono, l’incuria, l’arrendersi alle difficoltà. È sempre la casa dei Cervi, ospitale e generosa, in cui non c’è posto per l’avarizia o il malanimo; chi conosceva il posto già da prima, ora guardandosi intorno, per un momento può credere che tutto sia come un tempo, ma poi subito lo prende un senso come di vuoto, un vuoto spaventoso, incolmabile; una volta arrivando a questi campi non erano le sagome familiari degli alberi a far riconoscere il posto, non la disposizione dei filari e delle rogge, erano le sagome di loro sette, dei fratelli, alti e robusti come alberi, uno qua uno là per la campagna, uno a potare, una a vangare, uno a spargere il concime.
Il fondo di Fraticello i Cervi l’avevano in affitto dal 1934. Venivano da Campegine, il vecchio Cide, sua moglie e i sette figli, e tre bestie appena, e molti debiti, ma anche parecchia forza per lavorare e molte idee. Erano una famiglia numerosa, come quelle che voleva il duce; ma nelle intenzioni di Mussolini le famiglie numerose dovevano essere allevamenti di disperati, di bestie da macello; questa era invece una delle ultime famiglie patriarcali, come solo le campagne fertili possono nutrire nei periodi di abbondanza e che per risolvere i suoi problemi era spinta a cercare di far tornare l’abbondanza nella sua terra; non a seminare guerra e desolazione in terre altrui.
Già a trovarsi in sette fratelli robusti e in gamba, uno per tutti e tutti per uno, ci si sente forti da far tremare le montagne, ci si sente come una repubblica per conto proprio, e non c’è nessuno che possa far paura, né difficoltà che appaia insormontabile.
Se ne stavano tutti insieme a fiaccarsi la schiena nei loro campi l’intero giorno, e la sera in casa, coi pugni sulle tempie, a leggere libri. Non c’era cosa che non discutessero tutti assieme, e più discutevano e più si trovavano poi ad andare d’accordo.
Il più anziano dei fratelli, Gelindo, era quello che aveva più autorità, ancora più del vecchio Cide, alle volte; ma mai che comandasse, neanche a Ovidio o a Ettore che erano i ragazzi. Il taciturno Antenore poi, era riconosciuto da tutti come la testa più intelligente della famiglia; Aldo, il terzo era il più istruito e poteva permettersi di fare un po’ di scuola a tutti. In queste discussioni, la madre, era sempre in mezzo ai figli, e diceva sempre la sua; e i figli non le davano sulla voce come si fa spesso coi vecchi, ma erano loro a chiederle consiglio e a starla a sentire. Perché era una testa un po’ come i figli, la madre, e si diceva che i sette fratelli avessero preso l’intelligenza della madre e il coraggio del padre, e perciò erano venuti quei tipi che erano.
Il fondo quando c’erano venuti a stare, era pieno di fratte e dislivelli. I sette fratelli, per prima cosa, cominciarono a caricare la terra su vagoncini di quelli dei lavori stradali e a distribuirla per la campagna. Volevano ridurre tutto il fondo piatto come un tavolo da biliardo, prima di mettersi a coltivare, dicevano. Giorno e notte andavano riempiendo e vuotando quei carrelli come se fossero ai lavori forzati. I vicini si fermavano a guardarli e ridevano loro dietro loro dietro. Spianare la campagna con le gobbe è come drizzare le gambe ai cani dicevano. Invece alla fatica dei Cervi vennero fuori i più bei prati da foraggio della zona, e tutto il fondo tagliato da canali d’irrigazione e lavorato da cima a fondo, cambiò faccia in poche stagioni. Ora livellare i terreni è diventata pratica comune, ma da quelle parti i Cervi furono i primi.
Se dall’agricoltura si passava alla politica, anche lì a sentire loro c’era da rifare tutto da capo. Che i Cervi fossero contro il fascio, il duce, l’impero e tutto il resto non era un mistero, perché non lasciavano passare occasione per dirlo e predicarlo ai quattro venti, ma erano anche quelli che la sapevano lunga su tutti gli avvenimenti nazionali ed internazionali, passati e presenti ed anche futuri, e il più bello era che spesso ci azzeccavano. Starli a sentire non era tempo sprecato; se per esempio dicevano: “Adesso se foste furbi comprereste della stoffa, stanno per venire tempi grami”, chissà come facevano a saperlo, ma dopo un po’ la stoffa rincarava. E quando Aldo diceva: “Il peggio ha ancora da venire, vedremo i morti per le strade, e i prepotenti la pagheranno, ma prima forse faremo in tempo a lasciarci la pelle tutti noi”. I vicini toccavano ferro, invece anche in quello, i Cervi vedevano più giusto di tutti.
Le idee politiche non se le erano trovate già in testa nascendo, i sette Cervi; ci erano arrivati ragionando e discutendo e leggendo, a poco a poco.
Ora la figlia maggiore di Antenore (la ragazza coi capelli rossi che quando i fascisti assediarono la casa aveva nove anni, e adesso ne ha diciannove) mi mostra i libri che i Cervi leggevano: quelli che sono rimasti in casa, perché molti li hanno regalati alle biblioteche delle organizzazioni popolari (ed è un peccato; questa biblioteca di contadini d’avanguardia, come ogni altra cosa che riguarda la loro vita, dovrebbe essere salvaguardata e custodita come testimonianza di una formazione culturale popolare in una delle zone più vitali del nostro Risorgimento).
Ci sono parecchi trattati agricoli, i manuali d’apicoltura che leggeva Ferdinando e di zootecnica che leggeva Ovidio Cervi, c’è una storia d’Italia in 5 grossi volumi – quella dei Giudici, nelle popolari edizioni di Nerbini – la “Divina Commedia”, l’Eneide di Omero, “La madre” di Gorki, la Storia contemporanea di Anatole France, e poi qualche numero della Riforma Sociale diretta da Luigi Einaudi e tutta una raccolta della rivista “Relazioni Internazionali” alla quale Gelindo era abbonato. Da questo insieme di titoli disparati, viene fuori l’immagine di una cultura sentita come cosa assolutamente concreta, che mira subito al classico e allo specializzato, un bisogno di seguire le cose nei loro particolari, testimoniato da quell’abbonamento a quella rivista di questioni diplomatiche. E nulla ceduto li per caso, tutto ricercato in base ad una necessità precisa, riconosciuto come “utile”.
Così la biblioteca di questi agricoltori progrediti e fortunati, s’ingrandiva di pari passo con gli avanzamenti tecnici ed economici della fattoria. Un giorno famoso fu quello in cui Aldo andò a Reggio a comprare un trattore. Fece la strada del ritorno guidando un trattore nuovo fiammante, e i contadini lungo la strada venivano a vederlo passare, il terzo dei fratelli Cervi al volante di quella macchina, sopra la quale troneggiava uno strano oggetto che non ci si sarebbe mai aspettato di trovare là sopra; un mappamondo, nuovo fiammante anche esso. Era un’altra compera fatta in città da Aldo quel mattino. Da tempo capitava che alla sera i fratelli si perdessero in interminabili discussioni geografiche; ora con il mappamondo molti problemi che si presentavano nei loro studi sarebbero risolti. Per la via Emilia e per le strade campestri della bassa. Aldo avanzava col trattore e col mappamondo multicolore che girava sul suo asse. Eccolo davanti a me, ora, il mappamondo, divenuto una simbolica reliquia, in questo tinello contadino che è un po’ il loro museo: è lì, sopra un canterano costruito da Antenore, il fratello che si dilettava di falegnameria…
Il 25 luglio 1943 restò famoso nella storia di Campegine per una gigantesca pastasciutta che i fratelli Cervi offrirono a tutto il paese per festeggiare la caduta del fascismo. Ma non erano ancora venute la libertà e la pace; i Cervi lo sapevano.
Dopo l’8 settembre le campagne cominciarono a popolarsi di soldati sbandati e di stranieri fuggiaschi. L’ospitalità di casa Cervi fu uno dei fatti determinanti della loro cattura e del loro martirio e non è aspetto da sottovalutare nel rievocare la loro storia.
Quell’avamposto di una società futura che era stata la famiglia Cervi ora assume ancora un altro significato ideale, diventa un avamposto di fratellanza internazionale nel cuore della guerra più crudele. Un centinaio di stranieri si fermarono alla fattoria dei Cervi nei mesi dal settembre al novembre 1943; inglesi, sovietici, un aviatore americano ferito, un tedesco disertore; i Cervi li accolsero, li nutrirono, li curarono, trovarono loro i collegamenti per raggiungere i partigiani o per avvicinarsi al fronte.
Il grande slancio di fratellanza per tutti i popoli che il popolo italiano seppe esprimere in quei mesi, dopo che per venti anni si era insegnato a considerare nemico tutto il mondo può ben essere personificato dai sette fratelli.
Anche quando la presenza di stranieri nelle loro case era ormai nota nei paesi vicini e ci si attendeva una sorpresa dei fascisti, i Cervi mantennero i loro impegni di ospitalità. In quei giorni erano a casa loro due inglesi e due russi, insieme a due italiani sbandati. Riuscirono a trovare una casa disabitata dove trasferirli, ma la mattina dopo, quelli tornarono a bussare alla porta della fattoria; il padrone di laggiù non poteva tenerli, aveva paura che i tedeschi bruciassero la casa. Li nascosero di nuovo nella stalla e Gelindo ogni giorno girava per le cascine attorno, cercando loro un altro rifugio. La notte facevano turni di guardia fino all’alba.
Il 26 novembre l’ultima sentinella era già smontata quando i militi che si erano avvicinati a piedi per i campi, circondarono la fattoria con uno spiegamento di forze come per una battaglia campale. Agli spari i Cervi e gli stranieri risposero con le bombe a mano e con il mitragliatore che presto s’inceppò, dalle finestre della loro casa che bruciava. E insieme uscirono a mani alzate, quando non restò più loro che la resa. I due inglesi e i due russi tornarono in campo di concentramento e insieme a loro un partigiano calabrese che con due frasi di francese che sapeva si fece passare per prigioniero francese e si salvò la vita. L’altro sbandato italiano si chiamava Camurri, era un ex repubblichino disertore; seguì i Cervi e morì al loro fianco, al Tiro a Segno di Reggio.
Catturati e uccisi quando ancora il partigianato era ai suoi primi, difficili passi. I Cervi furono tra i primi ideatori e sperimentatori delle nuove forme di lotta, particolarmente per quel che riguarda le azioni di squadra qui in pianura, di cui allora non supponevano i grandi sviluppi futuri. Come prima erano pionieri di nuove tecniche agricole così ora sperimentarono i metodi della guerriglia; e qui bisogna situare nella giusta luce di protagonista uno di loro e cioè Aldo. Aldo, pure avendo vissuto della Resistenza solo quel primo scorcio, ebbe modo di misurarsi nelle più varie esperienze di lotta partigiana, dalle azioni di sabotaggio, all’attività clandestina nei centri abitati.
Una cosa soprattutto è caratteristica di Aldo; la sua decisione a giocare tutto per tutto si accompagna sempre alla preoccupazione per i familiari. Egli non voleva che i fratelli si esponessero, c’era la campagna da mandare avanti, a fare la guerra coi fascisti e ai tedeschi pensava lui, e se succedeva qualcosa era pronto a pagare di persona, ma gli altri dovevano salvarsi. In questo atteggiamento l’eroismo del militante sembra unirsi a lui in un avito di economia familiare contadina. E così da arrestati, s’erano divise le parti negli interrogatori. Aldo prendeva su di sé tutte le responsabilità: “Io solo sapevo dei prigionieri, li facevo entrare la sera nella stalla e li facevo uscire al mattino, i miei fratelli non si sono mai accorti di niente”.
Gelindo poiché il racconto del fratello era difficilmente credibile ammetteva di essere al corrente della presenza dei prigionieri, ma di non averci avuto a che fare direttamente. Gli altri fratelli dicevano di ignorare tutto. Così Aldo sperava di essere condannato lui solo a morte, Gelindo di prendersi solo una condanna detentiva, e far liberare gli altri.
Invece il 27 dicembre il segretario del fascio di Bagnolo fu giustiziato in una azione partigiana. La notte si riunì il tribunale speciale e il mattino dopo furono fucilati tutti e sette.
Bisogna anche dire del loro non perdersi d’animo, della loro enorme forza nel ritrovarsi in carcere tutti e sette, anzi, in otto col padre, della serie ininterrotta dei loro tentativi di evasione. Finché il 30 tutto era preparato per la volta buona. Ma non fecero in tempo.
Il padre non lo seppe per parecchi mesi, finché non riuscì ad evadere di prigione. Le mogli lo capirono subito invece, e corsero alle carceri a chiedere di loro.
“Non sappiamo – risposero i fascisti – li hanno portati a Bologna al processo”.
“Vigliacchi – gridavano le donne – non avete neanche il coraggio di confessare quel che avete fatto!”.
La mamma morì di crepacuore poco dopo.
Tutto quel che il popolo italiano espresse di merito nella Resistenza, lotta contro la guerra, patriottismo concreto, nuovo slancio di cultura, fratellanza internazionale, inventive nell’azione, coraggio, amore della famiglia e della terra, tutto questo fu nei Cervi; perciò, in questi sette seri volti di intelligenti contadini emiliani riconosciamo l’immagine della nostra faticosa, dolorosa rinascita.
Italo Calvino, Patria Indipendente, supplemento al numero 1 del gennaio 1954
Programma delle celebrazioni per l’80°
Pubblicato giovedì 28 Dicembre 2023
Stampato il 05/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/ci-guidavano-le-stelle/erano-alti-e-robusti-come-alberi-i-sette-fratelli-cervi/