Sono nato con questa Repubblica, e non ho sperimentato direttamente la monarchia italiana, passata attraverso le esperienze storiche del Risorgimento, del fascismo e della Resistenza. Nel Novecento due guerre mondiali, prima della pace europea in cui si è svolta la mia esistenza. È nella Repubblica che sono cresciuto dall’infanzia alla giovinezza, e da questa alla maturità. Mi sono formato in un solido liceo classico della mia città, Milano; mi sono poi indirizzato al corso di laurea in filosofia all’Università degli Studi (quella nota abitualmente come “Statale”); dopo di che mi sono iscritto al corso di laurea in matematica dell’Università di Pavia; poiché ero riuscito a sostenere come “liberi” esami fondamentali come algebra e geometria, ero stato ammesso al secondo anno, e in un triennio ho potuto conseguire la seconda laurea. Così è cominciato il mio cammino nella ricerca e nella didattica universitaria: Pavia, Milano, Catania, Como e ancora Milano.
Se dò queste (brevi) notizie autobiografiche non è per vanità personale; ma perché ritengo che senza la Repubblica questo mio percorso sarebbe stato ben differente. Ho avuto una doppia fortuna. La prima: dei genitori che mi hanno spinto a pensare in modo autonomo e indipendente, lasciandomi la libertà delle letture più diverse, dagli albi a fumetti ai romanzi di avventure, e poi ai classici antichi e moderni, senza aver paura di quelli considerati (all’epoca) scandalosi, dall’Asino d’oro di Apuleio a Santuario di William Faulkner, a Lolita di Vladimir Nabokov o all’Ulisse di James Joyce.
La seconda fortuna: un incontro già sui banchi del liceo Berchet con Ludovico Geymonat, diventato frequentazione assidua nelle aule della Statale. Filosofo e matematico insieme, ma anche antifascista militante e comandante partigiano, Geymonat aveva fatto rivivere a Milano discipline come logica, filosofia della scienza e storia della scienza, intese non come meri agglomerati di nozioni, ma come forme in cui si era storicamente dispiegato l’uso critico della ragione. Contestare e creare: questo dovete fare “voi giovani”, ci diceva allora.
Questo legame tra conoscenza e libertà era per Geymonat impensabile in un regime monarchico come quello che il nostro Paese aveva conosciuto. La proclamazione della Repubblica in Italia aveva significato per lui non più la relazione asimmetrica tra sovrano e sudditi ma quella simmetrica tra cittadini e cittadine (pensiamo al voto delle donne come tappa essenziale della vita democratica) nel quadro di uno Stato che non ci dice cosa dobbiamo pensare, ma che garantisce a ognuno la possibilità di pensare quello che meglio crede, senza che nessuno osi imporre agli altri la propria opinione.
Geymonat aveva in mente una sorta di “nuovo Illuminismo”, che idealmente si riallacciava a grandi pensatori, da David Hume a Voltaire o a Diderot, per non dire di Cesare Beccaria o di Carlo Cattaneo. Certo, la sua opzione in politica era di tipo marxista; ma tale potente tradizione era rivista alla luce dei “lumi” dell’impresa tecnico-scientifica, senza mai distaccare il Marx della critica all’economia politica dall’impetuoso sviluppo delle scienze: Galileo, Newton, Darwin. Ma poi Planck, Einstein, Bohr, Heisenberg, Dirac… i protagonisti del rinnovamento scientifico del Novecento.
Questo nuovo Illuminismo è ancor oggi ricco di una gamma enorme di potenzialità. Mi guardo bene dal dire che in filosofia da allora non ci siano state voci originali. Tutt’altro. Ma l’Illuminismo, vecchio o nuovo che sia, non è stato una dottrina filosofica compiuta e definita in tutti i dettagli, bensì un atteggiamento intellettuale e politico, che ha saputo separare la Chiesa dallo Stato, esplorare i continenti, salire dal particolare all’universale, rinnovare la cultura, porre le premesse di un’economia all’altezza dei tempi. L’Illuminismo è un progetto, o meglio un insieme di progetti.
Ma anche la Repubblica italiana è un progetto, o meglio un insieme di progetti. E’ stata proclamata per dotare donne e uomini di questo Paese di strumenti che consentano loro di restare liberi, anzi, di diventarlo ancor di più. Penso allo sviluppo di un’istruzione per tutti; alle conquiste sociali grazie ai sindacati; alla ricostruzione del Paese dal secondo Dopoguerra in poi. Si è trattato di passi concreti, di cui ogni cittadino ha potuto sperimentare i frutti; e si sono realizzati grazie all’istruzione pubblica, allo sviluppo delle reti stradali, all’incremento dei mezzi ferroviari e aerei. La copertura telefonica, fissa e mobile, i trasporti pubblici e l’accesso a Internet rispondono oggi a esigenze di unità nazionale che proseguono quelle individuate il 2 giugno di circa settant’anni fa.
La Repubblica vive le scommesse del tempo. Il passato: quello di un Paese composito, che un lavoro di secoli ha unito insieme. Il presente: quello che sperimentiamo ogni giorno, spesso tra mille dubbi e incertezze. Il futuro: quello in cui lo Stato dovrebbe garantire a ciascuno il proprio posto nella storia nazionale. Ma qui sta il punto: lo Stato ha sviluppato apparati pesanti e complicati, anche se in origine dovevano garantire uguaglianza e sicurezza. E quando i progetti perdono chiarezza e le prospettive per il futuro non sono più percepite in modo soddisfacente, quegli apparati sono sentiti come ostacoli per la crescita del Paese. Strutture che dovrebbero scomparire persistono ostinatamente, mentre un numero sproporzionato di piccoli e grandi funzionari si occupano di operazioni senza scopo – se non quello di giustificare se stessi.
Burocrazia è un termine che non ho mai amato. La Repubblica non conteneva la promessa di ridurla in modo essenziale? Nella cultura politica di altri Paesi il pericolo che l’eccesso burocratico rappresenta per la democrazia è quello di condurla alla paralisi delle energie, sul piano economico come su quello morale. Lo scriveva John Stuart Mill già nel suo Saggio sulla libertà (1858-1859). Aveva perfettamente ragione; ma non per questo era disposto a trasferire la condanna della burocrazia allo Stato in quanto tale – come faceva invece qualche forma di anarchismo velleitario e confuso. Piuttosto, cercava di riorientare lo Stato con un individualismo responsabile. Ritengo che quella stessa Repubblica nella quale sono nato debba aiutarci a realizzare tale tipo di individualismo, che consiste nella liberazione dalle superstizioni, religiose e politiche, dai pregiudizi sociali, da tutte quelle barriere che concorrono a tramutarci in schiavi senza che nemmeno ce ne rendiamo conto. La Repubblica è nata da una lotta, quella partigiana; perché non si riduca a un involucro morto deve riconoscersi come lotta in ogni momento della sua esistenza. Ovviamente, non di lotta armata si tratta; al contrario, di lotta contro la violenza: e noi conosciamo oggi una nuova ondata di violenza che etichettiamo come “terroristica”; ma c’è pure la violenza più sottile delle strutture superate, dei pregiudizi, dei gruppi di pressione che producono forme più o meno insidiose di discriminazione. Sotto questo profilo siamo tutti responsabili.
In altre parole: una Repubblica scaturita dalla Resistenza non può dimenticare il bisogno di libertà che ha motivato donne e uomini a riprendere nelle proprie mani il loro destino. Ogni individuo si trova a ridefinire di continuo i propri diritti e i propri doveri. Vogliamo una Repubblica ove il Parlamento rispecchi fedelmente la realtà del Paese? Rivitalizziamo i partiti, in modo che ritrovino le capacità di formare e proporre alternative a beneficio dei cittadini, garantendo la possibilità di emergere a esponenti preparati delle giovani generazioni (il che vuol dire, in breve, fine della “casta”!). Vogliamo maggior sicurezza nelle nostre “metropoli”? Non pensiamo a nuove leggi che riducano indebitamente i nostri spazi di libertà, quanto ad applicare con efficienza e rigore le norme che già esistono. Sono in crescita le no go areas, ove è rischioso mettere piede? Rafforziamo la presenza adulta (educativa, associativa, ecc.) a favore dei giovani dei quartieri emarginati, smantellando muraglie simboliche che non proteggono, ma isolano ancor di più. Solo così la lotta contro la criminalità permetterà il recupero delle zone in cui sembra cancellata ogni forma di diritto.
E poiché prima si è detto del nesso tra pensiero critico e libertà repubblicana, non dimentichiamo la scuola “di ogni ordine e grado”. Dalle scuole primarie all’università una burocrazia onnipresente soffoca docenti e studenti. Dobbiamo cominciare col comprendere che l’uniformità imposta dall’alto non è un fattore di uguaglianza, e nemmeno una garanzia di giustizia. Non è meglio destinare risorse per gruppi di insegnanti intenzionati a sperimentare soluzioni nuove? Sarebbe il primo passo per rimettere l’attività del professore al centro della vita della Repubblica.
C’è infine un aspetto che ho tenuto per ultimo. È stato detto che “dobbiamo recuperare il desiderio dell’Europa”. Più che giusto, specie nella penisola italiana, “pezzo d’Europa” proteso nel Mediterraneo. La Repubblica di decenni fa aveva di fronte la sfida (non facile!) di armonizzare tra loro gli italiani delle diverse regioni del Paese. Oggi che nuovi compiti sfidano la Repubblica mi pare funesto illudersi che si possa procedere esclusivamente su scala nazionale. Di fronte all’afflusso dei migranti, alla minaccia del terrorismo internazionale, al cambiamento climatico e alla degradazione dell’ambiente non è possibile proceder da soli. Qualcuno sostiene che in quel modo ritorneremo “sovrani”; ma è l’esatto contrario. Alcuni di quelli che sognarono la nostra Costituzione repubblicana immaginarono anche un’Unione europea che si basasse su una moneta comune, ma che non si limitasse a questo. Ritrovare l’orgoglio di essere Europa è un imperativo pressante. Rinunciarvi è svendere il nostro senso del futuro.
Giulio Giorello, filosofo
Pubblicato giovedì 15 Giugno 2017
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