“La Costituzione è paragonabile a una pianta: se si smette di innaffiarla, fatalmente si dissecca”.
Gustavo Zagrebelsky
Prima di affrontare il problema delle riforme istituzionali e della forma di governo, questione che periodicamente viene riproposta nel dibattito pubblico, è opportuno tracciare preliminarmente nella sua essenzialità – mi si perdonerà il rischio di eccessiva semplificazione – la distinzione tra i concetti di “forma di Stato” e “forma di governo”, per quanto concetti interrelati tra loro, e delineare nelle loro caratteristiche fondamentali le forme di governo vigenti a livello internazionale. Con “forma di Stato” si intende il tipo di relazione che viene a determinarsi all’interno dello Stato tra governanti e governati, sudditi o cittadini a seconda delle varie epoche storiche [1].
Con “forma di governo” si intendono invece le regole relative all’allocazione del potere politico tra gli organi costituzionali dello Stato cui compete la decisione dell’indirizzo politico, dei rapporti che si instaurano tra Parlamento, Governo, Capo dello Stato, nel rispetto del principio della divisione dei poteri. Infatti la distinzione tra “forme di Stato” e “forme di governo” emerge solo a partire dallo Stato liberale, dato che nello Stato assoluto, caratterizzato dalla concentrazione del potere in capo al monarca non vi era ancora una dinamica inter-organica, quindi forma di governo e forma di Stato sostanzialmente coincidevano. Tale situazione tende a riprodursi negli Stati totalitari o a direzione autocratica [2].
Le forme di governo vigenti si riducono sostanzialmente a tre modelli (non si prenderà qui in esame la forma di governo direttoriale vigente nella sola Svizzera) [3]: e cioè presidenzialismo, semipresidenzialismo e sistemi parlamentari con le loro varianti e/o “degenerazioni” concrete. Solo a titolo di esempio, il semipresidenzialismo della Russia di Putin è un sistema autocratico non paragonabile pur con i suoi limiti e/o criticità al semipresidenzialismo francese dalla Quinta Repubblica a oggi, così come il sistema presidenzialista della Turchia di Erdogan non è paragonabile al sistema degli Stati Uniti d’America che costituiscono l’originale, il prototipo del sistema presidenziale.
Allora, quali sono i tratti fondamentali del sistema presidenziale? I criteri definitori individuati sono tre: 1. l’elezione popolare diretta o “come se diretta” del Capo dello Stato per una durata stabilita di tempo; 2. il governo prerogativa presidenziale con il presidente che nomina e sostituisce discrezionalmente i membri dell’esecutivo da lui diretto; 3. il governo che non può essere né insediato né sfiduciato da un voto del Parlamento, che a sua volta non può essere sciolto dal presidente [4].
Il sistema “puro”, originale del presidenzialismo degli Stati Uniti d’America si fonda su una separazione netta dei poteri tra Esecutivo e Parlamento. La specificità di questo sistema è che esso risulta caratterizzato da un insieme di “freni e contrappesi” (“check and balances”) con cui si “frena e bilancia il potere”, “dividendolo” [5].
Ciò che accomuna il sistema semipresidenziale a quello presidenziale è la presenza di un presidente eletto dal popolo o perlomeno non eletto nel o dal Parlamento. Ma il semipresidenzialismo è tale proprio perché divide in due, “dimezza” il presidenzialismo attraverso una struttura di autorità non più monocratica ma duale, bicefala, attraverso cioè una diarchia. Mentre nei sistemi presidenziali il Parlamento non può ingerirsi nei poteri del Presidente, i sistemi semipresidenziali operano proprio sulla base di un potere “condiviso”, cioè il Presidente deve condividere il potere con un Primo ministro che guida il governo che ha bisogno di uno stabile sostegno parlamentare.
Infine nei sistemi parlamentari, il Parlamento è sovrano, non vi è una separazione dei poteri tra Parlamento e Governo; al contrario essi si fondano sulla “condivisione” tra legislativo ed esecutivo. I governi, per insediarsi, necessitano del voto di fiducia del Parlamento di cui devono mantenere il sostegno e ne possono eventualmente essere sfiduciati.
Anche se si riscontrano diverse varietà di potere condiviso così come poteri diversi del Capo dell’esecutivo a livello endo-governativo cioè rispetto ai membri del suo governo, da questo punto di vista sono state classificate fondamentalmente tre varietà di sistemi parlamentari: a) un sistema in cui il capo del governo è un primo “sopra ineguali” come nel caso del premierato inglese, o modello Westminster, in cui il premier coincide con il leader del partito che ha vinto le elezioni e che ha il potere di nominare e revocare i ministri; b) un primo “tra ineguali” come nel caso del Cancellierato tedesco, in cui il Parlamento nomina soltanto il cancelliere non l’intero governo stabilendo così la preminenza del premier che non può essere “abbattuto” da un voto parlamentare a meno che e fino a che non sia stato nominato un successore (si tratta della cosiddetta sfiducia costruttiva); c) un primo “tra uguali” o primus inter pares come nel caso della struttura di governo nel nostro Paese [6].
Dopo queste premesse sintetiche, ma credo utili per inquadrare la questione della asserita necessità di riforma della forma di governo, e ovviamente senza poter entrare nel merito delle esperienze concrete degli Stati di maggior peso nello scacchiere internazionale (anche solo limitandosi a menzionare i sistemi elettorali legati a tali esperienze, il loro tasso di democrazia e di rappresentanza, di stabilità politica ed efficienza dell’azione di governo), credo che si possa affermare sin d’ora la non esportabilità del modello presidenziale o semi presidenziale nel nostro Paese, come modelli da replicare per la loro presunta superiorità in particolare in termini di governabilità.
Ogni sistema politico è figlio della sua storia, del suo sistema partitico ed elettorale e come afferma l’autorevole giurista Gustavo Zagrebelsky, “ogni forma di governo deve essere adatta alla base sociale e politica del Paese in cui deve essere realizzata” e i cittadini devono scegliere tra “una democrazia con il vincitore, o una democrazia senza vincitori e vinti ma dove ogni parte politica, nella misura del consenso che ha ottenuto, lo spende in una dinamica quotidiana nel rispetto della partecipazione di tutti” [7] e il presidenzialismo “fondato sulla spaccatura del corpo elettorale in due fronti avversi” rischia di dividere ancora di più il Paese, esaltando l’odio sociale [8].
Sono ancora vive le immagini dell’assalto a Capitol Hill o il tentato golpe in Brasile. Guardando in particolare all’America, socialmente e politicamente spaccata in due, con l’allora Presidente Trump che mentre avrebbe dovuto essere il garante della democrazia e della legalità istigava i suoi seguaci all’assalto delle istituzioni e che ora da imputato torna in corsa per la Casa Bianca, sembra lecito dubitare che in quel sistema politico ci siano sufficienti anticorpi in difesa del sistema democratico. Forse, come è stato affermato, non basta la divisione dei tre poteri; nei sistemi a democrazia matura è e sarà sempre più necessaria una sorta di “quarto potere”, di supremo garante e arbitro delle regole costituzionali che vigili, fuori dal gioco delle maggioranze politiche, sull’assetto democratico al fine di garantirne la sopravvivenza [9].
Torniamo allora alla nostra forma di governo parlamentare attualmente sotto attacco da parte del governo Meloni in nome dell’obiettivo della stabilità e della governabilità, dove la figura di supremo garante ed arbitro è prevista dalla Carta Costituzionale ed è individuata nel Capo dello Stato che è stato interpretato dai vari Presidenti della Repubblica che si sono succeduti nel tempo, pur con modalità diverse, ma sostanzialmente e complessivamente con dignità, autorevolezza ed apprezzamento da parte dei cittadini. Tale forma di governo era stata voluta dai Costituenti dopo un ventennio di dittatura fascista che aveva fatto strame delle libertà democratiche e del Parlamento, respingendo invece il presidenzialismo anche se c’erano state voci di Costituenti di sicuro spirito democratico a favore di tale forma di governo.
Non si può negare neppure che l’enfasi sulla necessità di un rafforzamento dell’esecutivo costituisca una novità peculiare di questo governo e che una volontà riformatrice del sistema politico non abbia caratterizzato seppure in modo più o meno incisivo trasversalmente anche le forze politiche di centrosinistra: dalla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali “Bozzi”(1983-1985) alla Commissione “De Mita-Iotti” (1992-1993) alla Commissione per le riforme costituzionali “D’Alema” (1997-1998) sino agli stravolgimenti della Carta costituzionale che hanno caratterizzato la riforma Berlusconi con il suo premierato assoluto e alla riforma Renzi-Boschi legata alla legge elettorale Italicum, dichiarata parzialmente incostituzionale dal Giudice delle leggi, riforme entrambe bocciate dai cittadini nei referendum costituzionali nel 2006 e nel 2016.
Cerchiamo allora di capire meglio qual è la posta in gioco, che cosa possa significare dal punto di vista delle istituzioni del Paese questo progetto di revisione della forma di governo parlamentare definito una priorità dal governo più di destra che il nostro Paese ha esperimentato ed esperimenta dal dopoguerra a oggi e cosa può comportare per il nostro assetto democratico.
Sappiamo che nel programma elettorale di Fratelli d’Italia era previsto il presidenzialismo, seppur in modo molto vago e generico, con l’asserito obiettivo di dare stabilità al governo ed efficienza allo Stato, indicando nella breve durata dei governi italiani (si sottolineava 11 governi negli ultimi 20 anni) uno dei fattori principali della scarsa crescita, del declino economico, affermando in modo enfatico” che “assicurare con il presidenzialismo governi stabili costituiva la più potente misura economica di cui necessitava l’Italia”.
Alla vaghezza sul presidenzialismo nel programma elettorale di Fratelli d’Italia fa riscontro un precedente e cioè la proposta di legge costituzionale di Meloni e altri, presentata alla Camera l’11 giugno del 2018 (AC 716) poi respinta in assemblea nel maggio del 2022 in cui, nell’ambito di un progetto non privo di elementi confusi, imprecisi e contraddittori, si prevedeva l’elezione diretta del Presidente della Repubblica con una durata in carica di 5 anni. Attraverso un Capo dello Stato eletto dal popolo, legittimato a collocarsi nell’orbita del potere di governo, ad assumersi quindi ogni responsabilità nell’indirizzo politico della nazione e nelle più importanti scelte di politica nazionale che internazionale, si sarebbe trovata la via d’uscita “alla strutturale debolezza di una democrazia lenta e avvitata su se stessa e ai tristi balletti parlamentari nella formazione dei governi”. Il Capo dello Stato, non più “notaio della volontà altrui” avrebbe avuto il potere di nominare il Primo ministro e revocare i ministri, presiedere il Consiglio dei ministri e anche sciogliere il Parlamento, ovviamente in un contesto diverso dall’attuale potere di scioglimento in capo al Presidente della Repubblica, ma come un potere sostanziale di pressione e di ricatto sul Parlamento nel caso in cui quest’ultimo si fosse opposto alla sua volontà.
Nella proposta di legge Meloni si sottolineava che si sarebbe finalmente superata, a vantaggio della stabilità e della governabilità, la cosiddetta “democrazia interloquente” per approdare ad una “democrazia decidente”. Queste parole manifestavano e continuano a manifestare le intenzioni del partito di Fratelli d’Italia, il cui obiettivo consiste in una verticalizzazione e concentrazione del potere istituzionale incarnato da una persona fisica, nell’instaurazione di un governo forte, più forte di quello che esiste già come si evidenzierà più avanti, un governo che esclude la “partecipazione” a favore della “decisione”. Partecipazione che nel sistema parlamentare non è limitata al momento del voto e in cui il Parlamento – luogo costituzionalmente deputato dalla nostra forma di governo, al confronto dialettico, al conflitto e alla mediazione degli interessi sociali contrapposti – deve avere un ruolo centrale, nella prospettiva di una democrazia partecipata “deliberante” non “decidente”.
Come sottolinea Zagrebelsky, “decidere” significa separare, dividere e “chi perde resta tagliato fuori da tutto” [10] e di fronte al rischio di un’involuzione autoritaria, “la democrazia dell’interlocuzione deve essere difesa con le unghie e con i denti” [11]. In questa prospettiva, il Presidente della Repubblica, poiché diventa espressione di una sola parte politica, non può essere più un organo super partes, garante del rispetto degli equilibri stabiliti dalla Costituzione, che invece è la casa comune, un bene di tutti.
Risulta quindi evidente il rischio di passare dalla democrazia costituzionale, dalla concezione base del costituzionalismo moderno “del potere che limita il potere” a una democrazia di investitura, una democrazia plebiscitaria, cioè subordinata ad un capo, alla degradazione della democrazia in postdemocrazia, al suo scivolamento nell’autocrazia elettiva [12]. In essa infatti le forze politiche, i corpi intermedi, espressione del pluralismo partitico perdono il loro ruolo di rappresentanza degli interessi diversi, confliggenti presenti nella società, portando l’assetto democratico del Paese verso una deriva autoritaria, verso le ormai tristemente note democrazie illiberali di conio ungherese.
A partire dallo scorso maggio l’accento si è spostato sempre di più, sul cosiddetto premierato ovvero sull’elezione diretta non del Presidente della Repubblica ma del Presidente del Consiglio con probabili esiti, oserei dire, altrettanto pericolosi, poiché ancora una volta ci si muove, in nome di una presunta stabilità del governo, a scapito del principio di rappresentanza e della democrazia senza partecipazione e senza conflitto.
È comparsa a fine agosto sulla stampa una bozza governativa sul premierato elaborata dalla ministra delle Riforme, Maria Elisabetta Casellati, una bozza dai contorni nebulosi in cui si prevede l’elezione diretta del Primo ministro con poteri di nomina e di revoca dei ministri, un potere sostanziale di scioglimento del Parlamento, la cui candidatura a tale carica avverrebbe mediante un collegamento con una o più liste di candidati all’elezione delle Camere facendo rinvio a una legge elettorale che favorisca la “formazione di una maggioranza in entrambe le camere collegata al Presidente del Consiglio” [13].
La bozza è stata oggetto di critiche da parte di chi vi ravvisa un attacco all’equilibrio costituzionale dei poteri, che sull’altare della governabilità “fa tre vittime: il Parlamento, il Presidente della Repubblica e il corpo elettorale”: 1. a scapito del ruolo del Parlamento, già debolissimo sul piano dell’iniziativa legislativa, perché introducendo il principio “simul stabunt simul cadent”, se le Camere sfiduciano il Premier, di fatto, provocano lo scioglimento anticipato dell’organo; 2. a scapito del Capo dello Stato perché gli “vengono sottratte le due prerogative più importanti quali la nomina del Presidente del Consiglio e dei ministri e la possibilità di sciogliere le Camere”, depotenziando uno dei pochi contrappesi nel caso in cui l’attività del Governo fuoriesca dai limiti costituzionalmente stabiliti; 3. infine gli elettori, perché il disegno di legge sembra voler fissare in Costituzione un’indicazione sulla legge elettorale che di fatto escluderebbe un sistema proporzionale [14].
La bozza non è stata riconosciuta formalmente, tuttavia l’impressione è che non vi fosse accordo in seno alla maggioranza di governo e si cercasse di trovare una quadra tra la volontà di accentrare il potere nelle mani di una persona fisica, di verticalizzare comunque il potere di governo, facendo mostra tuttavia di voler lasciare intatti i poteri di garanzia e le prerogative del Presidente della Repubblica [15].
Il testo della maggioranza di governo, nel momento in sui si pubblica il presente articolo, non è ancora disponibile. Lo è invece il disegno di legge di revisione costituzionale di Matteo Renzi depositato in Senato agli inizi di agosto “Disposizioni per l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri in Costituzione (AS n. 830), progetto che appare concordare con la bozza Casellati, a detta della stessa ministra, almeno sui due pilastri fondamentali dell’elezione diretta del premier e della garanzia della stabilità [16].
Nel disegno di legge Renzi, che più volte nel tempo ha sostenuto la necessità di introdurre il modello del cosiddetto “Sindaco d’Italia”, in nome della democrazia decidente si prevede l’elezione diretta del Presidente del Consiglio contestualmente all’elezione delle Camere. Il Presidente del Consiglio, organo di vertice monocratico, avrebbe il potere di nominare e revocare i ministri, di dirigere l’attività di questi e di sciogliere di fatto anticipatamente le camere in caso di mozione di sfiducia o di duplice voto contrario in caso di questione di fiducia con evidente potere di ricatto sulle Camere. Infatti in entrambe le ipotesi, se da un lato il Presidente del Consiglio è obbligato a dimettersi dopo lo scioglimento “formale” da parte del Presidente della Repubblica, dall’altro lato, tutti i parlamentari devono però “andare a casa” in virtù del principio già menzionato del simul stabunt simul cadent.
Come già evidenziato per la bozza governativa, in conseguenza di questo rafforzamento del Presidente del Consiglio, il Presidente della Repubblica viene privato delle due prerogative fondamentali che gli conferiscono il ruolo di supremo garante degli equilibri costituzionali poiché gli è sottratto il potere di intervento nella formazione del governo e il potere “sostanziale” di sciogliere le camere. Molte critiche si sono levate contro il progetto del Sindaco d’Italia, ritenuto eversivo per la concentrazione di eccessivi poteri nelle mani di una persona fisica.
Si è rilevato inoltre che non è possibile comparare l’elezione diretta del sindaco e del presidente della Regione con l’elezione dell’organo monocratico del potere nazionale, trattandosi di realtà istituzionali del tutto differenti perché “il potere del sindaco o del presidente di regione per quanto rafforzato da un’elezione diretta non potrà mai rappresentare un pericolo per l’equilibrio politico complessivo del Paese e per il sistema delle libertà garantito dalla Costituzione” [17].
Si evidenzia infine, come rilevato da molti studiosi, che l’elezione diretta del premier avrebbe un solo fallimentare precedente nell’elezione diretta del Primo ministro in Israele, introdotta nel 1996 e abbandonata nel 2003.
In aggiunta a queste considerazioni ritengo che anche sotto il profilo meramente pragmatico non vi sia una effettiva necessità di rafforzamento dell’esecutivo ai fini di una maggiore efficienza delle decisioni pubbliche, anche perché la durata del governo non è di per sé garanzia di efficienza.
È sufficiente guardare ai dati: negli anni 70 in cui si susseguono la quinta, la sesta e la settima legislatura con un totale di 14 governi vi è stata una produzione normativa di grande rilevanza: dallo Statuto dei diritti dei lavoratori (1970), ai provvedimenti relativi all’istituzione delle Regioni (1968-1970), dalla legge sul divorzio (1970) alla riforma del diritto di famiglia (1975), dalla legalizzazione dell’aborto (1978) alla legge Basaglia e la chiusura dei manicomi (1978) e all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (1978).
Al contrario, prendendo come esempio il secondo governo Berlusconi (2001-2005) o il quarto governo Berlusconi (2008-2011) non si registra, come rilevato [18] un altrettanto produttiva attività normativa.
È stato anche evidenziato che esiste già attualmente un premierato di fatto, un controllo sul Parlamento, un dominio dell’Esecutivo sulla legislazione con l’abuso della decretazione d’urgenza, con il ricorso continuo alla questione di fiducia, con la prassi dei maxi emendamenti governativi, la scarsità di leggi di iniziativa parlamentare ecc [19].
Se questo è vero, forse l’obiettivo non dovrebbe essere quello di rafforzare il governo che non è affatto debole, ma rafforzare la rappresentanza del pluralismo politico e del Parlamento.
È allora assolutamente necessario far circolare nell’opinione pubblica distratta o ignara la consapevolezza che una volta sottratti poteri al Parlamento e al Capo dello Stato, senza contrappesi si rischia uno stravolgimento dell’impianto attuale della forma di governo parlamentare dagli esiti ignoti e pericolosi per il nostro assetto democratico e per il sistema delle libertà e a nulla vale affermare da parte degli studiosi che ne sono fautori che il premierato elettivo sia “neoparlamentarismo”, cioè una forma di evoluzione del sistema parlamentare che garantirebbe stabilità restituendo centralità alla sovranità popolare [20].
Una volta che i poteri principali del capo dello Stato, di nomina del Presidente del Consiglio e di scioglimento delle Camere sono modificati, risultano modificati sia il suo ruolo di garante degli equilibri dei poteri che la forma di governo parlamentare che è incompatibile con un investitura diretta del premier [21].
In realtà alla asserita valorizzazione della volontà popolare attraverso l’elezione diretta di un capo politico, al cosiddetto “potere in più” che verrebbe attribuito ai cittadini è facile obiettare evidenziando “il potere in meno”, cioè il potere che è stato sottratto agli elettori, da quasi vent’anni, di scegliere i propri rappresentanti a causa di elezioni politiche con liste bloccate [22].
Non si vuole qui negare il dato che emerge dai sondaggi secondo cui la maggior parte degli elettori sarebbe favorevole a un leader forte e all’elezione diretta del capo dello Stato né tanto meno sottovalutare la gravità della crisi “democratica” che si manifesta nell’astensionismo crescente, specchio della sfiducia e della disaffezione verso la politica. Ma il rimedio non può essere peggiore del male, consegnando agli elettori il potere di eleggere l’uomo o la donna forte soli al comando. Né va tralasciato di puntualizzare che l’astensionismo è altissimo anche nelle elezioni comunali e regionali dove il presidente della Regione e il sindaco sono eletti direttamente.
Ad avviso di chi scrive, la disaffezione verso la politica e il consenso verso un capo (senza voler assolvere qui le politiche del centro-sinistra poco rappresentative degli interessi dei ceti popolari) deriva in larga parte dalla comunicazione demagogico-populista di tanti media di destra e/o favorevoli alla destra di governo.
Infatti, nonostante i contrasti e le rivalità interne in vista delle elezioni europee, con esecrabili rincorse a destra tra FdI e Lega, questa maggioranza di governo, invece di rispondere ai bisogni reali delle persone alle prese con l’inflazione, con la precarietà, con il lavoro povero, con la disoccupazione, con la difficoltà a curarsi, a far studiare i propri figli, risulta compatta nell’utilizzare la presunta necessità di riforme costituzionali come strumento di distrazione di massa.
Mentre si glissa sul dato agghiacciante delle morti e degli infortuni sul lavoro, sulla crescita delle povertà e delle disuguaglianze, si strumentalizza il senso di insicurezza diffuso tra le fasce più deboli della popolazione e i ceti medi impoveriti, spostando l’attenzione su temi identitari e securitari, in particolare stimolando l’odio verso gli immigrati che fuggono da guerre, persecuzioni e fame e si continua a incidere pesantemente sulla vita dei cittadini e delle cittadine tagliando finanziamenti alla sanità e all’istruzione, colpevolizzando la povertà. Si abbandona del tutto “la via maestra” dell’attuazione della Costituzione, dell’uguaglianza dei diritti dei cittadini e delle cittadine a prescindere dal territorio in cui si risiede con il progetto, altrettanto scardinante dell’impianto costituzionale, dell’Autonomia differenziata, introducendo per legge lo jus domicilii.
In conclusione, non si può che ribadire un giudizio nettamente negativo sulla proposta di elezione diretta del capo dello Stato o del capo del governo poiché entrambe le ipotesi di riforma stravolgono l’assetto previsto dalla nostra Costituzione antifascista costruita su un equilibrio delicato di poteri al fine di scongiurare una deriva autoritaria.
È ora ormai di porre termine all’ossessivo dibattito pubblico che dura da oltre quaranta anni sulle presunte riforme che sarebbero necessarie per il rafforzamento della legittimità democratica delle istituzioni, per garantire stabilità dei governi ed efficacia delle decisioni pubbliche attraverso l’elezione diretta di un Presidente della Repubblica o di un Presidente del Consiglio, di una persona fisica che possa incarnare il presunto bisogno di un leader, di un capo che concentri in sé i poteri e dia una soluzione ai problemi sociali ed economici delle persone [23].
Termino allora con le parole dell’Anpi: “Se si vuole restituire alle cittadine e ai cittadini la voglia di partecipare alla vita politica, al governo dei beni comuni non servono riforme istituzionali, ma occorre che gli elettori si sentano pienamente rappresentati in Parlamento e partecipino alla vita pubblica e per questo occorre restituire centralità al Parlamento e una legge elettorale che permetta agli elettori di scegliere i propri rappresentanti, serve ripartire dall’etica della democrazia partecipata sancita nella prima parte della Costituzione che non può essere contraddetta da uno stravolgimento della attuale forma di governo che divide gli italiani e che può comportare una deriva autoritaria”.
Maria Cristina Paoletti, presidente provinciale Anpi Venezia e membro dell’associazione Giuristi Democratici – Venezia
[1] Ginevra Cerrina Ferroni in “Le forme di stato” in Diritto costituzionale comparato, a cura di P. Carrozza, A. Di Giovine, G.F Ferrari , Tomo II , GLF Editori Laterza, ed. 2014, pag. 804 e ss., in particolare pag. 806.
[2] Cfr. ibidem, Alfonso Di Giovine, “Le forme di governo”, pag. 835 e ss., in particolare pp. 835 e 836.
[3] Ibidem pag. 865 e ss.
[4] Cfr. Giovanni Sartori, Ingegneria costituzionale comparata, Ed. il Mulino, pag. 97 e ss.
[5] Ibidem, pag. 101
[6] Ibidem pag. 120
[7] Simonetta Fiori, intervista a G. Zagrebelsky, “Il presidenzialismo, un pericolo per questa Italia”, la Repubblica, 6 agosto 2022.
[8] Idem, intervista a G. Zagrebelsky, “Il presidenzialismo esalta l’odio sociale che già divide il paese”, la Repubblica, 6 maggio 2023.
[9] Cfr. Pietro Adami, “Perché il presidenzialismo è un relitto del passato”, Left, 30 maggio 2023.
[10] Cfr. Andrea Malaguti, intervista a Gustavo Zagrebelsky, “In Italia il presidenzialismo rischia di fondarsi sull’odio, Meloni non usi parole vuote”, in La Stampa 14.08.2022.
[11] Cfr. Simonetta Fiori, intervista a Gustavo Zagrebelsky, “Il presidenzialismo un pericolo per questa Italia”, cit.
[12] Cfr. Alessandra Algostino, “Premierato… purché capo sia: il fascino della verticalizzazione del potere e i rischi del suo innesto in una democrazia spoliticizzata”, in Rivista AIC – Associazione Italiana dei Costituzionalisti, n. 3/2023, pag.127 e ss.
[13] Cfr. il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2023, pag. 6.
[14] Cfr. ibidem, intervista a Gaetano Azzariti, “Sacrificano ogni equilibrio sull’altare della governabilità” .
[15] Cfr. Giacomo Salvini, “Premierato, i dubbi di Chigi su Italicum e ruolo del Colle”, il Fatto Quotidiano, 31 agosto 2023. Vedi anche, Daniela Preziosi “Sulle riforme la destra mira dritto a Mattarella “, Domani, 31 agosto 2023, pag. 3. Sul punto vedi anche il costituzionalista Michele Ainis, il quale afferma che la bozza governativa, prevedendo l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, intaccherebbe la figura del Presidente della Repubblica, il suo ruolo di garanzia: “il Quirinale perderebbe i suoi poteri. E già oggi il governo è troppo forte”, il Fatto Quotidiano, 31 agosto 2023.
[16] Cfr. intervista a Casellati,” Il premierato è pronto per il via libera. Ma sull’Autonomia confronto in aula”, la Repubblica, 18.09.23.
[17] Cfr. Enzo Cheli, “Il premierato è una riforma eversiva . Troppi poteri nelle mani di una persona”, La Stampa, 7 settembre 2023.
[18] Cfr. Alessandra Algostino, “Premierato…, cit. pag.130.
[19] Ibidem pag.123.
[20] Cfr. Tommaso Edoardo Frosini, “Sulla forma di governo del premierato (elettivo), Federalismi.it, 7 giugno 2003, pag.6.
[21] Cfr. Massimo Villone, intervista di Daniela Preziosi “Il premierato svuoterà i poteri del Quirinale. Meloni non divida il paese”, in Domani, 9 maggio 2023.
[22] Cfr. Nello Rossi , “Presidenzialismo e premierato: i riflessi sul giudiziario”, Questione Giustizia, 17 maggio 2023.
[23] Cfr. Enrico Grosso, “Il metadone della Repubblica. Elezione diretta e verticalizzazione del potere: la grande ossessione semplificatrice”, in Federalismi.it, 7 giugno 2023.
Pubblicato domenica 1 Ottobre 2023
Stampato il 14/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/cittadinanza-attiva/dal-presidenzialismo-al-premierato-pericoli-della-riforma/