“Due non è il doppio ma il contrario di uno, della sua solitudine”, ha scritto Erri De Luca. Forse, però, due può essere anche il plurale di uno, e allora diventa Noi, il pronome della condivisione che è più forte della semplice compagnia.
Il Noi ha diverse ampiezze – Io e Tu, Io e Voi, Io e Loro – ma ha bisogno di qualcosa che lo tenga insieme, un dovere, una passione, una speranza, il semplice piacere, talvolta perfino un nemico. Vive nella dimensione dello spazio quando unisce famiglie, amicizie, relazioni di ogni tipo fino alla spicciola quotidianità, ma la sua dimensione è soprattutto quella del tempo perché segna le scansioni della vita, collega realtà lontane e può andare anche oltre la morte. Il Noi è necessario, altrimenti la solitudine è sconfitta solo apparentemente.
Il tempo. Quello delle avversità può anche essere nemico del Noi. “In un’epoca di turbamenti la vita quotidiana diventa un esercizio di sopravvivenza”, scriveva Christopher Lasch, e mentre le relazioni sociali si slabbrano, le asimmetrie si accentuano, i rapporti economici e quelli di lavoro si sgranano, i conflitti politici esplodono, l’io singolare si contrae in se stesso, diventa un “io minimo”. Questa singolarità oggi diventa una solitudine triste, irritabile, confusa perché sente che una parte del suo tempo sta bruciando, ed è ansiosa di ritrovare una forma anche minimamente accettabile del noi. D’altra parte il tempo dell’avversità, della rabbia e della paura può anche generare il coraggio della solidarietà che salva il Noi e ridà senso al tempo.
Ma è difficile, per tutti.
Per i vecchi questo tempo bruciato non sarà mai recuperabile, e sono tristi se qualcuno vuole respingerli fra i vuoti a perdere.
Eppure sono forti i vecchi. Sanno che nessuno può togliergli il passato, sanno che il futuro appartiene ad altri com’è nell’ordine delle cose, ma sanno che per loro c’è ancora qualcosa da fare e spesso nelle loro mani c’è ancora qualcosa da donare.
Può esserci un Noi nella solitudine dei vecchi.
Per gli adulti, il tempo del lavoro e degli affetti è sospeso senza una prevedibile durata e sembra svuotarsi di ogni certezza.
Il conflitto irrisolvibile fra i bisogni primari mette tutto in discussione, fino a generare in superficie una chiassosa guerra civile culturale che si nutre del pane dell’effimero, o a far emergere dal profondo risorse individuali o collettive, normalmente ignorate o sopite, che fanno fronte in tanti modi alla solitudine nel mondo.
Ma per i più giovani, quelli a cui dovrebbe essere data la possibilità di creare una continuità tra infanzia, età adulta e vecchiaia, è “come sedere in un treno, l’orario ferroviario in mano, per viaggiare il mondo”, ma una tempesta spinge lontano il vagone, e in un attimo si trovano in un altro luogo, in un altro tempo, “gli orari non sono esatti, i ciceroni dicono cose non vere” (Joseph Roth).
Il loro bisogno di socialità e di sicurezza spinge alcuni di loro ad andare ostinatamente a sedersi davanti alle scuole, solitari o in un gruppo sparuto e provvisorio, per protestare contro il loro tempo bruciato. Oppure si radunano in “noi” raccogliticci simulando feste in cui non c’è nulla da festeggiare.
Oppure accade ciò che è accaduto a Verrès, in Val d’Aosta, in un istituto superiore in cui, mentre la didattica è a distanza per tutti, gli studenti con particolari difficoltà frequentano regolarmente la scuola.
Scrive F. L., insegnante di sostegno dell’Istituto liceale tecnico e professionale “Brambilla”:
“All’improvviso ci troviamo da soli, coi nostri ragazzi, in una scuola che ora sembra vasta come un castello misterioso; ci chiudiamo in classe, facciamo lezione per quel che possiamo.
La Dad ci aiuta a tenere in vita quel sottile legame con i compagni e le compagne di classe, e se pure i ragazzi si accontentano, noi ci sentiamo tristi e demotivati.
Paradossalmente quello che era oggettivamente un ostacolo si è trasformato in occasione per riflettere e farsi venire nuove idee per migliorare e ampliare il percorso formativo dei nostri ragazzi.
Ci siamo resi conto che, costretti a mettere in secondo piano (non abbandonare) l’eterno ciclo spiegazione/studio/verifica, si è aperto un mondo di possibilità ed è venuta in nostro soccorso l’idea della cooperativa scolastica. Noi adulti avremmo aiutato quei ragazzi a essere protagonisti di nuovi progetti tesi a rendere più accoglienti e fruibili gli spazi della nostra scuola.
Non potevano più stare fianco a fianco, e abbiamo dovuto implementare un’organizzazione e una rete di comunicazione più efficienti, per cui ognuno potesse gestire il suo pezzo di lavoro indipendentemente dagli altri ma senza perdere il filo comune.
È stato molto bello ed entusiasmante vedere una quindicina di ragazzi, consapevoli dell’importanza del momento, collegarsi in videochiamata, scherzare e poi seguire attentamente l’introduzione fatta dai loro educatori, e poi sentire gli interventi di chi aveva qualcosa da dire, e approvare con serietà e convinzione le nomine dei loro compagni orgogliosi dell’onore e delle responsabilità ricevute, e infine partecipare alla gioia di M. perché il nome della cooperativa da lui proposto è stato quello più votato.
Hanno risposto come non ci aspettavamo perché hanno accolto le novità con naturalezza, si sono adattati senza sforzo alle regole stringenti e complicate imposte dal virus perché ne hanno capito l’origine e la necessità. Sono stati felici di lavorare, anche i meno propensi alla fatica. Non hanno rivelato improvvisamente insospettate capacità cognitive, ma si sono impegnati seriamente, hanno compreso il valore dei progetti vedendone giorno per giorno i risultati concreti. Qualcuno ha timidamente azzardato qualche proposta, quasi incredulo che potesse essere presa sul serio, ma noi adulti abbiamo risposto discutendone vantaggi e svantaggi, e alla fine la scelta, per il sì o per il no, è stata per tutti consapevole e convinta.
Per procedere i ragazzi hanno dovuto e devono continuare a esporre oralmente e per iscritto, leggere, studiare, analizzare e selezionare, ricercare informazioni in un raggio anche più ampio di quello coperto dalle discipline previste nei loro curriculum. Hanno dovuto e devono risolvere problemi, fare conti, previsioni, verifiche e monitoraggi. E lo fanno con sempre minore insicurezza, con sempre maggiore fiducia.
Poi c’è stata la risposta del resto dei compagni. Ho sentito M. che illustrava il progetto alla sua classe col solito tono un po’ dimesso. Preciso che è, sì, una bella classe, ma i ragazzi sono come tutti quelli di oggi, diffidenti verso qualsiasi proposta che comporti maggiore impegno e fatica.
Tranne che in questo caso: si sono entusiasmati, erano felici per M. e quasi lo invidiavano, e si sono messi a disposizione pur di far parte dell’iniziativa. Chissà se riusciremo a fare qualcosa anche con loro.
Ora sta a noi rendicontare, valutare questo patrimonio di esperienze e soprattutto non disperderlo, anzi possibilmente valorizzarlo e metterlo a disposizione degli altri”.
Noi può essere davvero Io al plurale, anche al tempo del coronavirus.
Pubblicato domenica 13 Dicembre 2020
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