(Imagoeconomica, Daniele Scudieri)

Ci sono, in tutto lo schieramento politico e anche nella discussione scientifica, opinioni diverse sulla necessità e sulla utilità di cambiare la Costituzione nelle parti in cui viene delineata l’architettura del sistema politico-istituzionale. Sono tre gli argomenti più seri e che per questo meritano una riflessione e una risposta.

(Imagoeconomica, Marco Carli)

Il primo dice che le difficoltà del sistema, che sono sotto gli occhi di tutti, dipendono esclusivamente dalle politiche che partiti e governi hanno fatto finora e che dunque sarebbe illusorio “dare la colpa” alla Costituzione che non regge più alla prova del tempo. Vero: partiti da tempo in crisi profonda, governi in affanno, enormi difficoltà a riprendere un contatto positivo con il Paese nel suo complesso.

Tuttavia, sono difficoltà che ormai durano da circa 30 anni, che rimangono e anzi si addensano pur nell’alternarsi di formule di governo diverse e di partiti di diversa e spesso opposta cultura politica e ideale, con il paradosso – purtroppo ripetuto più volte – di scelte politiche e di governo piuttosto somiglianti e di governi di ampia intesa ma non per questo di grande effetto sul Paese. Inefficienze, paralisi della macchina governativa e legislativa, distanza crescente tra istituzioni e vita reale sono state una costante, anni di blocco del ricambio generazionale e politiche di restringimento delle strutture pubbliche hanno inferto danni serissimi alla Pubblica Amministrazione.

(Imagoeeconomica)

Ben difficile dire che la struttura fondamentale vada mantenuta eguale. Inoltre, nei decenni di vita della Repubblica sono cresciuti poteri di grande forza e penetrazione, sia istituzionali (basti pensare all’importanza della legislazione della Unione Europea) sia privati (basti pensare ai soggetti finanziari), sovra e trans nazionali. Non certo da ultimo, il mondo di oggi non è nemmeno somigliante a quello degli anni 50 e nemmeno a quello degli anni 80 o 90.

(Imagoeconomica, Sara Minelli)

Il secondo argomento dice che a furia di tentare i più diversi cambiamenti si è determinato un indebolimento della Costituzione e che dunque i problemi che si pongono risalgono alla delegittimazione strisciante di avventati riformatori che hanno portato a un disegno che di per sé avrebbe ancora tutto il suo valore. Anche qui c‘è del vero, perché si è creato un rumore di fondo e quasi un ritornello che troppi hanno ormai nell’orecchio e davvero non è facile distinguere ciò che è reale da ciò che appare continuando a parlarne. Però, questo argomento descrive un aspetto del problema ma porta solo a mettere in parentesi il tema e le difficoltà reali che non si risolvono con un elenco di condizionali “si dovrebbe”, “basterebbe”, “ci vorrebbe” e via dicendo. Importante corollario di questo argomento è che la parte ordinamentale della Costituzione è strettamente intrecciata e coerente con la prima parte dei valori fondamentali e così toccare la seconda significa toccare la prima. Il corollario è molto serio, perché è vero che moltissimi elementi dell’ordinamento “aprono o chiudono” rispetto ai valori fondamentali, basti pensare al carattere di democrazia aperta e progressiva tipica della prima parte (in particolare gli artt. 2, 3, 4 e 11). Tuttavia questo semmai deve impedire quelle modificazioni che effettivamente colpiscano il riconoscimento effettivo di quei valori ma non certo ogni tipo di modificazione. Peraltro, non pochi dei valori fondamentali sono stati volta a volta ignorati, trascurati o resi non effettivi anche con la parte ordinamentale vigente.

Il terzo argomento pone la questione della assenza di un necessario clima di confronto politico, culturale, ideale in condizioni generale di serenità reciproca tra tutti i protagonisti e di autentico spirito repubblicano, ispirato cioè allo sforzo sincero di concorrere a un disegno in cui tutti o la stragrande parte dei cittadini possa riconoscersi per un lungo tratto della propria storia. E questo è proprio vero. Se si può dire che la prima fase della discussione istituzionale – quella degli anni 80, in sintesi – ambiva e provava ad aprire una fase costruttiva in quel senso, nel tempo e in tutti i tentativi successivi hanno avuto la prevalenza obiettivi di tutt’altro genere. Fondamentalmente, alcuni tra i massimi dirigenti politici del Paese hanno cercato di lasciare la propria impronta di legislatori nella storia del Paese, per intitolare (addirittura intitolarsi) il “grande cambiamento”.

(Imagoeconomica, via Palazzo Chigi)

La stessa proposta del governo Meloni ha questo obiettivo, anzi, se ne assegna esplicitamente uno ancora più ambizioso: si tratta, per Meloni, di segnare la discontinuità con la Costituzione nata dopo il fascismo e la guerra, figlia della Resistenza e della Repubblica, cui quella specifica destra era estranea. Dopo quasi 80 anni, invece di un processo di reale integrazione – che implica il riconoscimento di quella storia, di quelle tappe e di quei risultati – la strada proposta è quella del risarcimento (e lo mostra una quantità di atti politici e di gestione del governo) e del cambiamento di asse valoriale e ideale. Quindi, mentre nelle occasioni precedenti si trattava di valutare la portata e l’efficacia delle modifiche proposte, oggi siamo dinanzi a un di più, alla volontà di portare un cambiamento radicale degli assi costituzionali. Se è così, ben poco importa l’assenza del “clima”, perché invece ce n’è uno del tutto opposto e arrembante.

Proprio per queste ragioni occorre predisporre una proposta diversa, perché è il modo più serio con il quale rispondere a questa iniziativa attraverso la via democratica principale, che combini il lavoro parlamentare con l’attività scientifica e con l’apertura di una grande fase di dibattito pubblico cui partecipino i cittadini, singoli e nelle loro forme associative proprie. Limitarsi a dire no, rimandare tutto al referendum di conferma, sostituire il confronto con la battaglia degli slogan significa rinunciare ad attivare la risorsa più importante, quella democratica, cioè quella della partecipazione la più ampia.

Referendum costituzionali 2001, 2006, 2016, 2020

Sembra più facile dire un forte no, chiamare alla difesa della Costituzione. Sembra. Ma non si può fare a meno di riflettere sul fatto che ciò può andare bene una, due volte ma difficilmente può essere la risposta costante, perché il tempo cambia, la percezione delle cose anche e soprattutto è sempre meno forte l’idea (già di suo piuttosto singolare) che mantenendo le cose ferme esse migliorino. Soprattutto viene attivata solo parzialmente la risorsa partecipativa, perché è come se si dicesse al popolo italiano che tutto il buono è stato detto e fatto quasi 80 anni fa e non ci sia spazio per soluzioni nuove e (magari) migliori.

Inutile poi riempirsi la bocca di belle parole sui giovani e il futuro. Costruire e sostenere proposte è anche una grande prova di fiducia nelle persone e nelle loro capacità: in un mondo che vuole solo semplificare, risparmiare gli sforzi, far fare alle macchine e agli automatismi, chiedere impegno e costruzione positiva è un impegno tanto controcorrente quanto ottimista e, sì, di sinistra, se questa parola ha un senso etico e intellettuale.

Certamente questo è un lavoro di lunga lena, perché tanti sono gli argomenti e le questioni cui mettere mano. Delineando un impegno riformatore di medio periodo, si possono elencare i seguenti ambiti:
– definizione delle caratteristiche dei soggetti protagonisti della attività politica: come è già ampiamente successo per le associazioni, occorre regolare con legge vita e attività dei partiti, dei sindacati, delle associazioni padronali;
– definizione delle modalità della partecipazione: da quella dei lavoratori alla gestione delle imprese a norme più stringenti ed effettive della promozione e discussione di leggi di iniziativa popolare e dei referendum, mantenendo l’equilibrio con il carattere di democrazia rappresentativa;
– definizione di un rapporto equilibrato tra carattere unitario del governo del Paese e articolazione regionale e dei poteri locali, disarticolato con il Titolo V e minacciato dalla annunciata autonomia differenziata;
– recuperare il grande tema del funzionamento e della gestione partecipata dei servizi pubblici, come tema di riforma profonda e di grande innovazione culturale e politica oltre che di concreto impegno per il superamento dei differenziali e delle disuguaglianze; affermare così il concetto di una nuova statualità, fondata su democrazia e partecipazione, come era sembrato possibile in conseguenza della epidemia di Covid mentre tutto sembra…come prima!
– razionalizzazione del sistema del governo e del rapporto con il Parlamento, compresa la questione del monocameralismo.

Ci sono anche altre questioni ma queste sembrano essere le principali: ciascuna di esse ha già indicazioni esplicite nella Costituzione vigente e di cui si attende ancora la attuazione, altre sono state oggetto di legge ma con soluzioni in parte inadeguate e in parte da aggiornare, altre ancora sono messe in discussione da sviluppi economici e tecnologici. È indispensabile scegliere un asse portante e questo non può che essere quello dei principi fondamentali della Costituzione vigente. Devono essere scelte le soluzioni che tengano fermo il carattere di democrazia partecipativa, di equilibrio tra i poteri, di controllo della legittimità costituzionale di leggi e regolamenti, i principi di rappresentanza della nazione e di libertà di mandato dei rappresentanti eletti, il principio di unitarietà negli organi di garanzia e di indipendenza di quelli di controllo. Si potrebbe continuare ma basti dire, per doverosa sintesi, tenere fermo in tutte le sue implicazioni l’articolo 3 della Costituzione, che davvero ha una portata generale e addirittura universale, di principio, di orientamento e di gestione di tutti i poteri pubblici.

Occorre iniziare dal tema del presidente del Consiglio perché questo è all’ordine del giorno, vuoi per l’iniziativa del governo vuoi per la singolare scelta di tutte le forze che si erano impegnate nel referendum del 2016 di NON fare ciò che avevano dichiarato durante quella campagna elettorale, cioè che in pochi mesi di impegno parlamentare si sarebbe potuto approvare una riforma molto migliore di quella proposta dal governo Renzi.
Non è compito dell’ANPI scrivere un testo di riforma. Ai partiti politici che invece DEVONO scrivere le riforme dobbiamo far sentire il dovere, per onorare ciò che storicamente rappresentiamo in Italia, di segnalare alcuni punti di forza, ossatura di una riforma utile per risolvere problemi esistenti e coerente con ispirazione, principi e valori della Costituzione vigente.

Posti gli obiettivi di: (a) garantire una maggiore stabilità di governo; (b) irrobustire il carattere parlamentare nelle fasi critiche sia riconducendo alle Camere le funzioni di conduzione di esse e di confronto sia recuperando la nozione base di un sistema democratico, secondo cui il voto è lo strumento principe e pacifico per la soluzione delle controversie; (c) ridurre la frammentazione politica (cresciuta a dismisura con il maggioritario in tutte le sue forme); (d) rafforzare anche l’efficienza del governo in equilibrio con il recupero del ruolo del Parlamento; si propone di:
(a) estendere i poteri del presidente del Consiglio quanto a responsabilità degli indirizzi e della direzione del consiglio, che riceve la fiducia dal Parlamento in seduta comune, dopo aver ricevuto l’incarico dal Presidente della Repubblica, cui propone la nomina e la revoca dei ministri. Il presidente del Consiglio non è eletto dai cittadini ed è anche precluso indicare il nome di uno o più candidati all’incarico nei simboli delle liste e delle schede elettorali. Il presidente può essere sfiduciato attraverso una mozione di sfiducia costruttiva, che contestualmente proponga la costituzione di un nuovo gabinetto, di iniziativa parlamentare.
(b) Il ruolo del Parlamento ritorna centrale sia con la autonomia della propria elezione da quella del presidente del Consiglio sia con il forte potere della sfiducia costruttiva che dunque opera su due versanti in un colpo solo (maggiore stabilità del governo; maggiore ruolo del Parlamento). La Costituzione vigente già stabilisce i limiti del ricorso alla decretazione d’urgenza ma si tratta di una delle norme più trascurate e trasgredite, anche da governi come quello attuale che pure dispone di un margine di consenso assai superiore a quello che vorrebbe indicare nella Costituzione con la sua riforma. Tuttavia si possono introdurre nuove previsioni, ad esempio della decadenza automatica per eterogeneità degli argomenti oggetto di decreto, stabilita dalla Corte Costituzionale.
(c) È indispensabile approvare una legge ordinaria per un nuovo sistema elettorale: occorre prendere atto che la lunga stagione dei sistemi maggioritari – ormai trentennale, quasi metà della vita della Repubblica – ha terminato da tempo di svolgere una qualsivoglia funzione positiva, lasciando ormai sul terreno le scorie prodotte dal suo funzionamento. Assurdo peso di miniformazioni “politiche” che tesaurizzano il valore marginale (vero ma spesso anche solo presunto o minacciato) per la conquista dei collegi, liste bloccate, caduta verticale della qualità del dibattito politico e immutabilità delle posizioni salvo l’esplosione della emigrazione da un gruppo all’altro spesso niente affatto spontanea o da “crisi di coscienza” (tutti hanno in mente nomi, cognomi e vicende) ma più di ogni altra cosa un bipolarismo feroce vissuto come la lotta tra curve contrapposte di tifosi, compresi anche imbarazzanti esibizioni di cartellonistica e scenette a puro vantaggio delle riprese televisive.

L’obiettivo esplicito è ricostruire il criterio della rappresentanza del Paese nell’insieme delle sue articolazioni sociali, culturali, politiche e territoriali e leggi di impianto maggioritario sono incoerenti con questo obiettivo. Una legge elettorale proporzionale può essere fatta con modalità e meccanismi di vario tipo e che comportano anche gradi differenti di proporzionalità ma non contraddice i principi sopra indicati anche una qualche forma di soglia di ingresso per evitare eccessi di polverizzazione della rappresentanza (comunque vanno rivisti tutti i meccanismi di formazione e consistenza dei gruppi parlamentari, altro frutto velenoso di un taglio proposto per demagogia e accettato, ad essere buoni, per subalternità).

Assomiglia al modello tedesco? Sì, gli assomiglia molto e non è un caso, perché quello è lo schema più consono a un sistema parlamentare e certamente non a rischio di distorsioni personalistiche o della rappresentanza. Le prime portano a poteri verticali e in sé autoritari, le seconde ad allontanare la società dalla sua rappresentanza istituzionale. Molti guardano con interesse alla Francia ma tutti i limiti di quel modello sono emersi ripetutamente e con una durissima contrapposizione tra amplissimi settori sociali e governo, il cui grado di consenso era tenuto nascosto dalle distorsioni maggioritarie plurime tipiche di quel sistema. A parte la totale estraneità dei Paesi anglosassoni (peraltro solo due, per quanto importanti), gli Usa sono il Paese più a rischio di lacerazione sistemica, la Gran Bretagna è un modello solo per chi non si sia accorti di ciò che è successo dall’epoca Thatcher a oggi, con la Brexit come culmine.

La Costituzione deve appartenere a tutti o almeno alla più gran parte, dei partiti, della società. Non può che essere – come fu nell’immediato dopoguerra, dopo la Resistenza e la scelta popolare della Repubblica – l’incontro positivo tra culture e idee diverse ma altrettanto presenti nella nostra realtà sociale e culturale. Si può fare se ci sono proposte diverse che si misurano e si confrontano e non con lo scontro frontale “o di qua o di là”.

Questa logica va rifiutata perché è il contrario di una democrazia matura e consapevole. Nello stesso mondo che sostiene il governo Meloni si riesce a fatica a trovare chi sostenga la riforma che pure quel governo ha approvato: a questo, proprio come abbiamo imparato e praticato nella Assemblea Costituente, si deve rispondere con la ricerca di una possibile intesa. A farsi la guerra c’è sempre tempo ed è solo l’ultima istanza.

Alessandro Pollio Salimbeni, vicepresidente nazionale Anpi