Ha suscitando un ampio consenso da parte di numerose organizzazioni e di personalità del mondo politico e culturale l’appello della presidente dell’Anpi Carla Nespolo per lo scioglimento dell’organizzazione neofascista CasaPound, da tempo protagonista di un crescendo di intimidazioni culminato da ultimo nell’aggressione dei ragazzi del collettivo cinema America nel quartiere romano di Trastevere, picchiati selvaggiamente perché antifascisti.

Questo consenso costituisce una novità altamente positiva, poiché da un lato è il segnale di una rinnovata consapevolezza che l’antifascismo rappresenta il principio ispiratore della convivenza civile, nonché il perno ideale attorno a cui ruota la legalità repubblicana, ma dall’altro è la riprova di un crescente ripulsa verso una prassi di violenza non più episodica, ma assurta al rango di una vera e propria strategia politica, fatta sempre più spesso di tentativi di occupazione di tipo militare del territorio, soprattutto nelle periferie, e di messa a tacere non solo metaforica degli avversari.

Va anche detto che la convinta e diffusa adesione alla proposta avanzata dalla presidente dell’Anpi apre nuove prospettive e solleva al tempo stesso nuovi interrogativi, dato che la mobilitazione antifascista, per quanto consistente, si trova pur sempre ad agire in un contesto politico particolarmente difficile, e si misura con la prevalenza di assetti ideologici nei quali si intrecciano sovranismo, xenofobia, sessismo e forme esasperate di individualismo, declinati in una versione oltranzista che fa premio sulle vecchie e nuove povertà, materiali e morali, che affliggono la nostra società e nelle quali le striminzite legioni del neofascismo si muovono per cercare di aprirsi nuovi spazi.

Certo: contro le aggressioni di chiara matrice squadrista non si può rinunciare ad attivare gli strumenti repressivi predisposti dall’ordinamento a tutela della convivenza civile. Ma al tempo stesso, occorre rispondere a domande ineludibili, che vanno oltre il pur necessario ricorso alla severità del diritto penale: domande sulla genesi e sulle forme dello spostamento a destra della maggioranza del Paese, nel cui perimetro si colloca anche il tentativo del neofascismo di rialzare la testa, e, più nello specifico, sul processo che ha consentito a un partito riconvertitosi disinvoltamente dal separatismo antinazionale allo sciovinismo più sfrenato, di conquistare una posizione egemone predicando e praticando l’intolleranza, la discriminazione, il rigetto di qualsiasi forma di diversità e l’insofferenza verso le regole.

Come siamo arrivati a questa situazione? Se lo chiede Michele Serra, in uno stimolante editoriale apparso diversi giorni fa su Repubblica (“Se l’ANPI chiede di sciogliere Casa Pound”, 21 giugno 2019): posto che la richiesta dell’Anpi si giustifica e “vale come qualunque altra richiesta di rispetto della legalità”, l’autore cerca di allargare lo sguardo ponendo alle origini dell’attuale contingenza politica il deperimento dello spirito repubblicano e del “patto antifascista che lo ha generato” all’indomani della crisi della Prima Repubblica. È un invito alla riflessione che non ci lascia indifferenti e che anzi sollecita un contributo alla discussione, tanto più necessario in quanto oggi la messa a punto di una strategia efficace di contrasto del neofascismo non può non partire da uno scavo alla ricerca delle radici delle criticità dell’oggi e da una riflessione sulle debolezze strutturali della nostra democrazia.

Michele Serra (foto Imagoeconomica)

Nell’editoriale, Michele Serra rileva due elementi, tra loro strettamente collegati: l’assenza, in Italia, di una formazione di destra moderata e di massa, e la conseguente identificazione dell’antifascismo con la sinistra politica. Una identificazione, aggiungiamo noi, che, se da un lato ha avuto l’effetto di condizionare positivamente alcune soggettività politiche, dall’altro ha consentito ad altre di revocare in dubbio il carattere dell’antifascismo come elemento fondativo di un patto costituzionale, alla cui base – è bene ricordarlo – c’è un testo che venne varato in modo pressoché unanime da un’Assemblea Costituente in cui i partiti di sinistra non avevano la maggioranza.

Se si parte da questo ordine di considerazioni, però, occorre porsi un ulteriore quesito e chiedersi se, considerati i caratteri di fondo della storia repubblicana, e soprattutto le vicende dell’ultimo quarto di secolo, vi siano mai state in Italia le condizioni storiche e culturali per la nascita e il consolidamento di una destra repubblicana e costituzionale. Probabilmente, occorrerebbe anche risalire agli anni della guerra fredda e della democrazia “bloccata” per abbozzare una risposta. A partire dalla fine degli anni 40 del secolo scorso, infatti, la sostituzione del paradigma antifascista con quello anticomunista come elemento ispiratore della cosiddetta Costituzione materiale ha fatto sì che le forze di governo prendessero le distanze dall’eredità resistenziale quale si era compendiata nella Costituzione, rinunciando a pensare ai suoi valori fondativi nei termini di un fattore identitario condiviso, salvo successivi tentativi di recupero, in coincidenza con alcuni mutamenti del quadro politico, che però non hanno impedito le lacerazioni del tessuto istituzionale e della stessa convivenza democratica destinate a pesare come macigni sulla sicurezza e sulla solidità dell’ordinamento repubblicano.

Malgrado le loro numerose criticità, i partiti politici della Prima Repubblica hanno finito, sia pure con modalità tra loro molto differenti e spesso conflittuali, per assicurare l’ancoraggio dei rispettivi elettorati a una prospettiva democratica; un ancoraggio che, dopo la crisi di Tangentopoli, si è rivelato però molto più precario di quanto si pensasse, e da questo punto di vista, ha ragione Michele Serra a sostenere che il crollo dei partiti tradizionali nei primi anni 90 del secolo scorso ha prodotto un “libera tutti” che “ha messo a nudo alcune delle profonde tare, e arretratezze, dell’identità politica del nostro popolo”: tare e arretratezze che hanno dunque origini remote, e sulle quali Silvio Berlusconi riuscì a suo tempo a costruire un’alleanza politica vincente, composta da partiti dichiaratamente a-costituzionali o anti-costituzionali: gli eredi del neofascismo; i separatisti a corrente alternata della Lega Nord, e, su tutti, Forza Italia, il partito-azienda e pertanto l’antipartito per eccellenza, matrice originaria dell’antipolitica che tanta fortuna ha riscosso in epoche più recenti, finendo però, come Saturno, per divorare puntualmente i propri figli, e per primi proprio i più solerti.

Goya, Saturno che divora i suoi figli

La maggior parte delle forze confluite nella coalizione di centro-destra che ha governato per molti anni il Paese si è richiamata a identità politiche programmaticamente e dichiaratamente estranee ai valori del patto costituzionale e del suo elemento genetico, la Resistenza. Silvio Berlusconi, e non Matteo Salvini, ha inaugurato la pratica della volontaria diserzione delle celebrazioni del 25 aprile; né il leader leghista è stato il primo a rappresentare la Resistenza come scontro tra due fazioni minoritarie, entrambe poste sul medesimo piano ed entrambe estranee al senso comune della maggioranza della popolazione, impegnata solo a sopravvivere. Questa narrazione, divulgata con larghezza dalla televisione e bandita da pennivendoli di varie risme, è stata per anni il pane storiografico quotidianamente sfornato da un centro destra accomunato soprattutto dalla volontà di delegittimare il patto costituzionale e prendere le distanze dalle sue matrici storiche, etiche e politiche.

C’è, in altri termini, una corrente eversiva dall’andamento carsico, che ha attraversato la storia dell’Italia repubblicana: in questa prospettiva, non si può non concordare con Michele Serra sul fatto che la richiesta di scioglimento di CasaPound è un aspetto di una questione più generale che riguarda, in ultima analisi, la tenuta della vita democratica. Il neofascismo che rialza la testa, si legge nell’editoriale, è figlio della destra italiana, “non liberale, non democratica (non al punto di essere antifascista), come la figura di Matteo Salvini, il suo linguaggio, i suoi modi, i suoi propositi, dicono con lampante chiarezza”. Occorre aggiungere che negli ultimi anni la destra neofascista e neonazista ha trovato nuovi spazi e nuove opportunità proprio grazie alle connivenze dello schieramento moderato e conservatore: non solo in Italia, ma anche in altre realtà europee e negli Stati Uniti, le formazioni della galassia nera hanno trovato un interessato ascolto presso partiti della destra tradizionale in crisi di consenso, come suggeritori di parole d’ordine sovraniste, populiste e xenofobe che, peraltro, si sono rivelate piuttosto efficaci nell’intercettare elettoralmente un malcontento sociale non più o solo in parte rappresentato dalla sinistra tradizionale. Di qui, un rapporto di reciproca collusione e strumentalizzazione, che, in Italia, ha concorso da ultimo a ridisegnare la geografia della destra, con la radicalizzazione della Lega ormai egemone e con il contestuale prosciugamento del bacino elettorale di Forza Italia in versione moderata.

Il ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini (foto Imagoeconomica)

C’è oggi una destra che lucra significativi dividendi elettorali sfruttando le incertezze, le paure e i rancori consolidatisi nel corso di una crisi che, soprattutto nelle nazioni economicamente più avanzate, ha polverizzato il ceto medio e incrementato a dismisura povertà e diseguaglianze. L’accresciuta vulnerabilità dei singoli, la propensione a rinchiudersi nella sfera individuale o nell’utopia reazionaria di comunità protette e chiuse nei confronti di un mondo esterno, percepito molto più come minaccia che come opportunità, ha favorito la tendenza a una vera e propria desertificazione ideale e culturale della società, nella quale la destra radicale spera di trovare nuova linfa.

Alla desertificazione si può e si deve opporre una strategia di ripopolamento di uno spazio democratico fondato su un’idea di società aperta e solidale che, ovviamente, non può essere appannaggio di singole componenti politiche, ma anzi deve trarre dal pluralismo dei soggetti e delle ispirazioni politiche e ideali un elemento di forza e di credibilità. Con le sue proposte e con le sue iniziative, l’Anpi, insieme ad altre realtà associative, culturali, politiche e sindacali, si propone di fare la sua parte perseguendo l’obiettivo insieme semplice e ambizioso di concorrere a promuovere un progetto di cittadinanza attiva che riproponga a una società che sconta lo smarrimento e le paure di anni di grande incertezza materiale e morale, la centralità dei valori della Costituzione, quali elementi costitutivi del patto repubblicano e di una convivenza civile radicata nei valori dell’antifascismo e nella Resistenza. Non è un percorso breve, né il momento è particolarmente propizio per intraprenderlo, ma la storia insegna che proprio nei tempi difficili la democrazia trova risorse in grado di attivare i propri anticorpi e debellare infezioni che la rassegnazione e la passività possono invece rendere mortali.