Da https://www.popolis.it/oltre-le-sbarre-chi-da-dentro-il-carcere-cantava-e-chi-dentro-ci-finiva-per-quel-che-cantava/

È pallido il meriggio, umido, assorto. Sulle pareti biancastre della cella, c’è un chiarore vago, riflesso di neve che non vedo ma che sento nel silenzio lontano e percepisco appena dal rintocco un po’ spento di qualche orologio.

C’è neve di Natale, della Vigilia.

Nella cella è tacito il meriggio; sulle brandine a muro, sui pagliericci umidi anche di pianto, è un respiro lento di corpi che sembrano assopiti, sulle palpebre socchiuse, nebbie di pensieri lontani.

I miei amici dormono o fingono di dormire. Accendo nella pipa l’ultimo mozzicone di sigaretta. Due boccate di fumo escono pigre, pencolano, vagolano, si disperdono nell’aria già pesante e svaniscono lassù verso l’inferriata. Mi scuoto, distendo le gambe sotto la coperta, un leggero scricchiolio di giunture, brividi di freddo per tutte le membra, forse, fuori c’è neve di Natale… della Vigilia.

Cella numero 24… cella numero 28…

I passi delle guardie si avvicinano, il monotono tintinnio delle chiavi agitate accompagna il battere insolente di cancelli che si chiudono. Allungo le gambe indolenzite, fino a terra, barcollo sui piedi diacci e m’avvicino alle sbarre di ferro. Gigi sta sbadigliando, l’altro dorme. La chiave è già nella toppa e la voce rauca del caporeparto legge l’indirizzo della posta della cella numero 35. Allungo le mani, afferro il pacco e mi getto sulla branda. Un pacco… una lettera… Gigi sta aprendo un involto e 1’altro, giratosi verso la parete, finge ancora di dormire. Non sento più il freddo ora; le mani rompono la carta e frugano confusamente: due aranci e un po’ di torrone, un pacchetto di sigarette, una busta piccola, qualcosa che punge. La lettera è stata aperta dalla censura, nella busta un ramoscello di ginepro, due bacche un biglietto di mia madre; tracce di lacrime hanno assorbito e disperso qualche lettera.

Caro Peppino, è Natale domani anche per noi; ma che Natale! C’è tanta neve sui monti e tanto freddo nella nostra casa. Walter si è consegnato per non comprometterti; è partito piangendo, forse domani raggiungerà Pola. Babbo e Valerio sono muti; il dolore delle vostre sventure ha pietrificato il volto di tuo padre, i suoi occhi non hanno lacrime ed è troppo grande la sua solitudine. Alberto mi ha assicurato che in giornata uscirai e non ci resta che aspettare questo giorno; ma come lunga è l’agonia di quest’attesa. Ti mando questo ramoscello di ginepro dei nostri boschi; bruciandolo questa notte nella tua cella, penserai a noi; è tradizione ed augurio bruciare il ginepro la Notte Santa. Buon Natale da tutti, baci.

Tua madre.

A stento trattengo le lacrime, un grosso nodo alla gola mi stringe. Gigi ha finito di leggere, i suoi occhi sono umidi. Apro nervosamente il pacchetto di sigarette, ne accendo una e apro l’altra lettera:

Caro Professore, ogni mattina lo attendiamo all’angolo della scuola e ogni giorno ci porta una delusione. Possa il Natale portare la pace a lei e a noi la gioia di saperlo presto felice. Gli scolari della III D.

Infilo le lettere nelle tasche dei pantaloni e fumo disperatamente. L’altro sì è alzato e guarda distrattamente all’inferriata. Sono le cinque pomeridiane. Le ultime luci del giorno salgono su lungo le pareti, sui vetri lievemente bagnati di sudore e pare cristallo opacato quel piccolo spazio di vetro appannato contro il cielo fra le sbarre dell’inferriata. È triste l’ora del passaggio nel buio della notte, in questa tetra parte di spazio; è un crepuscolo amaro di pianto, grave di silenzio e troppo grave è la voce di questo silenzio e vivo il desiderio di spegnerla questa voce.

La firma dell’autore in calce al manoscritto

Il siciliano chiama il paisà del piano superiore: Totò, Totò… Nella nostra cella è Gigi a rompere il silenzio:

– Beppe, mi ha scritto mamma c’è neve a casa nostra.

– A anche a me ha scritto mia madre; c’è neve a casa nostra.

– Beppe, domani è Natale; questa notte le nostre madri andranno a Messa e piangeranno insieme… ci saranno anche Mina e Maria Rosa a Messa.

– Sì, Gigi.

È l’ora delle confidenze, quando le lacrime tremano nella voce e la conversazione si fa lieve, come lieve è la voce della Vigilia.

– Beppe, ricordi la Veglia dello scorso anno?

– Sì, Gigi.

– E il Presepe al Convento dei Cappuccini… com’era bello quando eravamo piccoli.

– Sì, Gigi.

I ricordi sostano per poco e sfumano come le ombre sulla parete già scura.

L’altro ascolta; anch’egli ricorda; vorrebbe parlare. Di chi? se neppure due righe gli sono giunte per dirgli che domani è Natale?

È buio ormai. Sui pagliericci grigiastri si distinguono appena le sagome scure dei nostri corpi e un poco di volto all’interrotto chiarore della brace della sigaretta.

Qualche passo nei corridoi e la luce si accende finalmente, per poco però, appena il tempo sufficiente per finire quel tozzo di pane, per ingoiare un sorso d’acqua diaccia dal boccale screpolato e per riordinare la branda, per leggere di nuovo quelle poche righe di mia madre e riporre la busta sull’assicella che esce dal muro nell’angolo sotto la finestra. Per il corridoio incomincia il monotono tintinnio delle inferriate battute secondo le norme carcerarie; bisogna alzarsi, irrigidirsi sulle gambe, rispondere all’appello del capoguardia, ascoltare il rumore assordante della propria inferriata battuta, guardare al cancelletto e alla porta che si chiudono per l’ultima volta nel giorno e rassegnarsi alla lunga notte, fredda, senza luce.

Ed è la notte della Vigilia…

II pagliericcio è umido, sporco; un brivido di freddo scorre per tutte le membra; nascondo il capo sotto le coperte e mi raggomitolo contro la parete.

Le campane del duomo chiamano a vespro per l’ultima sera d’Avvento, per la grande attesa e fra poco nelle cripte semibuie accenderanno le luci calde, raccolte della Natività, mentre noi forse dormiremo il sonno di Natale. Le campane tacciono ora, è silenzio profondo; avverto appena il mio respiro sull’umido guanciale; non posso dormire, non voglio dormire almeno stanotte, perché è notte di Vigilia; forse domani all’alba non sentirò le campane, ma ora non voglio dormire.

Oh, come è bello vegliare, così, cogli occhi sbarrati nelle tenebre per fissare fantasmi che passano e sostano incerti sulla nostra pupilla che credono spenta e l’illusione si posa lieve sulle nostre labbra, sul volto rasserenato.

È notte di Natale.

Al mio paese c’è tanta neve, sulle colline, sui pini, sui tetti della mia casa, qualche traccia di scarpe sulla soglia, un battente socchiuso, qualche sprazzo di luce sulla neve che cresce e nevica ancora vicino ai fanali… sui vetri della mia finestra e accanto al fuoco, sul seggiolone a braccioli, mio padre, Valerio che legge il giornale, e Mamma accanto al lume a cucire… un ramo di ginepro nell’angolo accanto al camino, due coccole per terra, qualche foglia aghiforme, stecchita… poi scalpiccio di scarpe sull’entrata, la porta socchiusa adagio, adagio. È lei, Teresa, pallida come la neve dei presepi…

E Walter, lontano la testa appoggiata in un angolo buio della tradotta, colla bustina calata sugli occhi che piangono nel silenzio, nella finzione del sonno, il Natale lontano da casa, vestito da guerra… ed il treno corre sulle rotaie e squarci di luce fuggitivi sulla neve. È triste il vagone, come questa cella, Walter, prendiamoci per mano come quando eravamo piccoli e fuggiamo, Walter! È meglio morire di freddo là fuori, coi piedi laceri per gli sterpi stecchiti dal ghiaccio, cercando Betlemme… Sulla strada coperta di neve, sonagli di cavalli, la lanterna che dondola lenta sotto il carro, l’ombra dei raggi delle ruote sulla neve e là, sotto la roccia, nella grotta, su un poco di fieno, il Bimbo dei poveri che sorride… Oh, come è caldo qua dentro. Vedi, Walter, attorno al Bambino c’è mamma e lei, Teresa, cogli occhi lucidi e tanti visini attoniti, stupiti… Renato che recita il sermone, Franco che sorride; ad uno ad uno ecco i miei scolari. Mi chiamano:– Non viene, Professore?

Portatemi con voi, via, fuori di qua, non conosco la via, ovunque c’è un cancello.

Perché non rompete le sbarre, le sbarre, le sbarre, si fanno più fitte scomparso, è Betlemme… Una porta di ferro è rimasta contro la quale le mie dita consunte e grondanti di sangue, si agitano invano disperatamente. Aprite la porta, aprite, aprite. – E Walter dov’è?

D’un balzo mi desto, Le coperte sono a terra, le mie dita stringono convulse i ferri della branda; ho dormito, ho sognato ad occhi aperti vegliando il Natale.

È notte già alta, neppure un barlume di luce, di stelle; neppure un rumore di passi che già sia Natale? Ma no, non può esser nato, non sento stormire a festa le campane e poi… sì, lo saprei, non posso aver vegliato per nulla. Ah, no; ecco lontano, l’orologio di piazza scocca lentamente le 23.45. Mettiamoci in via, andiamo a Betlemme, cerchiamo la stella.

Mi getto la giacca sulle spalle infreddolite, mi alzo adagio, adagio per non destare i miei compagni che dormono e, brancicando nel buio, cerco l’assicella sporgente dal muro sotto la finestra. Le mie mani palpano lievi: un involto, un pezzo di pane, le sigarette, i fiammiferi ed ecco finalmente la busta, uno spino che punge, qualcosa che punge e un profumo di ginepro. Nell’aria si avvicinano le note disperse di una melodia, poi tutto è musica, è Natale. Suonate, campane! Anche nella mia cella è nato il Bambino, lì, nell’angolo sotto l’assicella che sporge dal muro. Bisogna scaldarlo questo povero piccolo; le mie mani tremanti sfregano sulle pareti un fiammifero, un altro, un altro ancora ed ecco finalmente uno sprazzo di luce, uno scoppiettio di piccole foglie appuntite, di coccole arse, un profumo sottile di resina e un tremulo luccichio di piccole perle in quel tenue chiarore di fiamma, di piccole perle che tremano e scendono calde lungo le guance.

Nella notte è tornato silenzio, il Bimbo é già nato, è passato anche dalla mia cella, c’è rimasto il tepore del suo sorriso e qualcosa che stringo fra le mie dita, qualcosa che é tiepido, profumato come una goccia di incenso.

All’alba, quando le prime luci pallide portarono la festa, nelle mie dita due bacche profumate di ginepro.

Sono questi i miei ricordi, oggi, nell’imminenza di un altro Natale (altro per il tempo che da allora ad oggi è caduto su di me e su tutti gli uomini; altro per il diverso umore dei nostri animi rumore tracciato a fatica, con pena; perché, pur avendo trovato la madre e altri scolari, Walter non l’ho più ritrovato, neppure il suo corpo che giace nell’Istria lontana, solo) e il partecipare a voi questi miei ricordi mi dà un poco di sollievo.

Giuseppe Pittano “Pecio”

Ringraziamo il figlio di “Pecio”, Massimo Pittano, per aver donato a Patria questo racconto. E per conoscere meglio  l’autore vi proponiamo la sua imponente biografia.

Giuseppe Pittano (da http://1.bp.blogspot.com/ -A9gg4QQAftc/Vit5H1vfzMI/ AAAAAAAAN5k/Ohfgla7lzK4/ s640/Foto%2BPittano%2B Giuseppe%2BPecio.jpg)

La scheda di partigiano lo definisce “studente laureando in lettere”. Giuseppe Pittano, nome di battaglia “Pecio”, nato il 6 agosto 1921 a Casola Valsenio (RA), nel dopoguerra diverrà “il re dei dizionari”, autore di vocabolari di italiano e latino su cui si formeranno più generazioni, oltre che di libri di grammatica italiana (in un quarantennio di attività editoriale, venderà sei milioni di copie, solo il dizionario Latino lingua viva toccherà un milione e mezzo di copie). Lui preferiva definirsi “operaio della penna”. L’Università di Bologna creerà apposta per lui la cattedra di Didattica del latino. Prima ci saranno gli studi nel capoluogo emiliano e alla Sorbona, Heidelberg, Monaco. Diverrà grande amico di Sergio Zavoli ed Enzo Biagi. Collaborerà intensamente con testate nazionali (celebre, su il Sole 24 ore, la rubrica Passaparola, la prima di economia linguistica in Italia) e straniere. Realizzerà trasmissioni radiofoniche per la Rai e la Radio della Svizzera italiana. Repubblica in occasione della sua scomparsa scrive: “Figlio di un oste, unica lingua il dialetto”. E riporta i ricordi di Pittano: «C’era miseria nera, io non sapevo parlare in italiano, figurarsi scrivere. Fui bocciato in quarta elementare, rimandato in quinta e all’ammissione. Comincia da lì la mia fortuna». Poi l’incontro con un calzolaio comunista: «mi insegnava con una pietra sulle ginocchia legata a una fune, quando sbagliavo tirava la corda».

Di famiglia antifascista, socialista, Pittano non aveva esitato neppure un momento dopo l’8 settembre, il riconoscimento dello Stato del suo impegno nella Resistenza partirà dal giorno dopo la notizia dell’armistizio fino ad arrivare al 30 novembre ’44, data della cacciata dei nazifascisti dal suo paese. Tra le primissime azioni, ricorda il sito istituzionale “Storia e memoria” di Bologna, “promosse il recupero delle armi abbandonate nel suo comune e diede vita al Cln con militanti del Pci, Pli e Pri, rappresentando il Psi. Il 5 ottobre 1943, con altri esponenti antifascisti, ebbe un incontro con i fascisti locali per concordare «un’intesa che permettesse di non instaurare almeno in paese un clima di odio fratricida». L’incontro però non ebbe buon esito perché i fascisti pretesero la consegna delle armi.

Il 18 novembre su Santa Milizia, il periodico del fascio di Ravenna, uscì una nota dove, pur non facendo il suo nome, era detto che durante il periodo badogliano, a Casola Valsenio «un imberbe studentello, feroce antifascista» aveva dato «sfogo all’odio sopito e alla sua sete di notorietà, chiedendo a gran voce la rimozione di stemmi e lapidi» fasciste. Lo stesso giorno

“Pecio” fu arrestato con altri antifascisti e portato nelle carceri di Ravenna, dove restò sino al gennaio 1944. Liberato entrò a far parte della 36ª brigata Bianconcini Garibaldi e operò sull’Appennino tosco-emiliano, con funzione di ufficiale di collegamento con il comando militare di Ravenna. Il 6 ottobre 1944, a seguito dell’uccisione di tre tedeschi, “Pecio”, i suoi genitori e il fratello vengono rastrellati con una quarantina di altre persone. Poiché parlava correttamente il tedesco, intervenne presso il comandante germanico e ottenne il rilascio delle donne e dei bambini (sua madre invece volle restare con il marito e i figli). In seguito fu liberato, con la famiglia, da un tedesco al quale aveva promesso aiuto quando fossero arrivati gli Alleati. Su designazione del Psi, fece parte della giunta comunale nominata dal Cln e dall’Amg.

Giuseppe Pittano “Pecio” era iscritto all’Anpi, naturalmente, nella città di Bologna, dove risiedeva.