Che cosa si è ricordato in questo 4 novembre, da poco trascorso? Formalmente, come ogni anno, nella ricorrenza della data che segna la vittoria dell’Italia sull’impero asburgico nel primo conflitto mondiale, viene celebrata l’unità nazionale e, con essa, le Forze Armate. Ma quest’anno, immediatamente precedente al centenario di una vittoria, è ricorso anche il centenario di una disfatta, la rotta di Caporetto, un evento che è rimasto profondamente scolpito nella memoria collettiva, e che, come tale, ha indotto e induce la coscienza civile e storica del Paese a interrogarsi su come e che cosa si debba ricordare della partecipazione italiana alla guerra mondiale: un evento “globale” che pose il nostro Paese al centro dei processi di crisi della democrazia liberale e di massificazione e militarizzazione della politica e lo condusse, nel giro di pochi anni, all’instaurazione di una dittatura che costituì una tragica e prolifica novità nel già fosco panorama dell’Europa del dopoguerra.
Già le “radiose giornate” del maggio 1915 avevano messo in luce la debole tenuta democratica di un ordinamento nel quale il re e i vertici militari, agendo per conto dei circoli politici ed economici nazionalisti e imperialisti, si erano potuti permettere di utilizzare cinicamente una piazza minoritaria, ma chiassosa e violenta, per imporre, con un vero e proprio colpo di mano, una guerra non voluta dalla stragrande maggioranza del Paese e dalla maggioranza neutralista delle Camere.
Furono sperimentati allora, con pieno successo, i metodi intimidatori e violenti che, pochi anni dopo, sarebbero stati replicati su ben più vasta scala dallo squadrismo contro le organizzazioni democratiche e popolari. E quei più ridotti gruppi e i singoli esponenti dell’interventismo democratico, convinti che la guerra avrebbe concluso il Risorgimento nazionale e cancellato definitivamente il militarismo austroprussiano affermando in tutta la sua pienezza gli ideali umanitari e democratici del nazionalismo ottocentesco, furono ben presto disillusi e si ritrovarono nella difficile posizione di chi aveva fornito una copertura ideale al grande massacro perpetrato da Paesi avversari che poco o nulla si distinguevano tra di loro quanto a volontà di potenza e di sopraffazione.
La rotta di Caporetto fu l’evento simbolo del rigetto di una conduzione della guerra nella quale gli Stati Maggiori, guidati da Luigi Cadorna, avevano agito nel più totale disprezzo della vita umana, utilizzando senza remore un regime disciplinare particolarmente inumano – di cui sono emblema le numerose fucilazioni sommarie – per costringere un esercito formato per lo più da contadini, spesso analfabeti, a un sacrificio continuo e sterile (“inutile strage” l’aveva definito il pontefice Benedetto XV nella famosa lettera ai capi dei popoli belligeranti, del 1° agosto 1917, poche settimane prima della rotta) nelle sanguinose battaglie di logoramento, per la conquista di pochi metri di terra. Sotto questo profilo, il 24 ottobre 1917, inizio della dodicesima battaglia dell’Isonzo che portò alla rottura del fronte italiano, è la data-simbolo di una ribellione contro l’espansionismo dei governi e la sanguinaria ottusità dei comandi. Come tutti i drammi corali, nella rotta di Caporetto si fusero molti elementi: disfatta di un esercito guidato da un vertice che non seppe fare altro che imputare alla viltà dei soldati le cause della sconfitta; rivolta spontanea, “sciopero militare”, prodotto da un sentimento di esasperazione per il protrarsi di una guerra non voluta e non compresa, che si irradiava dalle retrovie al fronte, e viceversa, ma anche reazione e, dopo il primo momento di sbandamento e di panico, resistenza mossa non da un vuoto patriottismo, ma dalla volontà di sventare una minaccia percepita come incombente sui fondamenti stessi dell’esistenza individuale e collettiva.
In un certo senso, dopo Caporetto, la guerra compromessa dai generali fu riscattata da un popolo in armi, che due anni di trincea avevano reso del tutto indifferente (si leggano in proposito le pagine del pluridecorato eroe di guerra Emilio Lussu a proposito dei “suoi” fanti della Brigata “Sassari”) alle retoriche patriottarde; un evento che, in tutt’altro contesto, si replicò ventisei anni dopo, all’indomani dell’8 settembre 1943, quando il popolo dovette battersi, in armi e non, per riscattare il Paese tradito dalla guerra fascista e abbandonato dai generali in fuga insieme al loro re. Certo, le condizioni del 1917 erano diverse da quelle del 1945, e la Resistenza segnò un livello di consapevolezza e di maturità civile di ben altra natura, in un contesto peraltro caratterizzato dalla dissoluzione dello Stato, che apparve invece possibile, ma non si verificò, dopo l’ottobre 1917. Allora, peraltro, proprio la rotta e il pericolo di invasione conferirono concretezza di obiettivi alla guerra non voluta: tanto è vero che dopo Caporetto, la classe di governo, assecondata da vertici militari impauriti dallo spirito di rivolta serpeggiante nelle file dell’esercito, cercò di rimediare agli errori del passato, profondendosi in promesse ai combattenti, di profonde e radicali riforme economiche e politiche per il dopoguerra, salvo poi disattendere gli impegni assunti, una volta conseguita la vittoria sul campo, e consentire così al fascismo di sfruttare demagogicamente il malcontento dei reduci.
Di certo, i fanti-contadini schierati sul Piave non combatterono per la conquista di nuovi territori, né in nome della potenza nazionale strombazzata da propagandisti più o meno in buona fede, ma, in assenza di una prospettiva politica diversa, piegarono il senso del dovere, la tenacia, il sentimento della dignità individuale e di solidarietà, insomma tutto l’insieme di virtù civili già apprese e coltivate in tempo di pace, alla particolare e drammatica contingenza del momento, restando sostanzialmente estranei ai contenuti di odio sciovinista che invano si era cercato di instillare nell’animo dei combattenti.
Occorrerebbe allora dedicare questo particolare 4 novembre a una riflessione sulle varie e diverse forme che può assumere, nelle differenti circostanze storiche, la dedizione al proprio Paese, la capacità di sacrificarsi quando sono in gioco i valori supremi della convivenza civile, il senso della responsabilità, la solidarietà e la fratellanza che si sprigiona nelle prove più difficili. E vorremmo fosse dedicato all’impegno odierno per la conservazione della pace, contro i venti di guerra che soffiano nel mondo, e contro gli integralismi e tutte le forme di intolleranza religiosa, etnica e sessista; e infine anche agli ideali europeistici, che, nella loro forma più elevata, hanno tratto sempre alimento dalla repulsione per la guerra e dal rigetto del nazionalismo e dei particolarismi e degli egoismi che da esso si generano.
Nel 1944, il grande storico Federico Chabod, che, abbandonati i suoi studi, si era unito alla Resistenza valdostana e si accingeva a diventare primo presidente della regione autonoma dopo la Liberazione, scriveva: “Sembra a me che sarebbe bello e nobile da parte della nuova Italia iniziare, per prima in Europa, una politica di larga libertà nelle zone di frontiera, in quelle zone cioè dove vecchi nazionalismi europei avevano sempre fatto sentire più duramente il loro peso, facendo così di quelle strisce estreme dei territori statali degli inevitabili punti d’attrito, dei fatali focolari d’irredentismi, pretesto e motivo poi facile per le guerre e le avventure nazionalistiche. Noi dobbiamo farne invece degli anelli di collegamento tra una nazione e l’altra, dei ponti di passaggio su cui s’incontrino gli uomini dei vari paesi e imparino a smussare gli angoli, a lasciar cadere le diffidenze, a deporre la boria delle nazioni”. È l’auspicio di una nuova Europa, libera finalmente dagli egoismi nazionali, che nasceva allora dalla meditazione dello storico sulla tragica lezione di due guerre mondiali e dalle speranze del partigiano combattente per un futuro di libertà e di pace.
Forse – e vorremmo dirlo ai mini-marciatori su Roma e ai molti che oggi e nel passato cercano di “fascistizzare” il 4 novembre – i fanti di Caporetto avevano molto più in comune con i partigiani del ’43-’45 di quanto non si creda e non si voglia credere, proprio perché le vicende degli uni e degli altri dimostrano, sia pure in realtà e in condizioni diverse, come, nei passaggi cruciali della sua storia, il popolo italiano abbia dato prova di possedere le virtù civili (e quindi democratiche) necessarie a risollevarsi dalle disfatte e a ritrarsi dall’orlo dell’abisso in cui la violenza e la follia di pochi si accingevano a gettarlo.
Pubblicato giovedì 16 Novembre 2017
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