Questa è la storia di quanto accadde nel settembre 1944 nella Certosa di Farneta, nelle vicinanze di Lucca, e di un eccidio. Racconta la decisione dei monaci di contravvenire alla regola cistercense e alla crudeltà umana dei nazifascisti aprendo le porte del loro convento a quanti bussavano in cerca di aiuto, indipendentemente dal credo politico, religioso, perché «fratelli in Cristo».
Il loro comportamento venne letto dalle SS come una provocazione e nella notte tra il primo e il due settembre il comandante tedesco diede ordine ai suoi di irrompere nel convento. Tutti i presenti vennero arrestati e condotti prima a Nocchi di Camaiore, poi nel carcere di Massa Carrara. Da qui dodici monaci verranno prelevati e fucilati, il resto condannato alla deportazione.
Gli eroi della Certosa
La Certosa di Farneta sorge nei pressi dell’omonimo borgo, lungo la riva destra del fiume Serchio; il toponimo deriva dalla presenza di boschi di querce, anche dette farnie, dal latino «farnea». L’abbazia occupava un vasto territorio. La struttura propriamente religiosa era composta dal quattrocentesco piccolo chiosco e dal cinquecentesco grande chiosco; inoltre v’era un grande appezzamento di terreno lavorato dai monaci laici, oltre a stalle, pollai, un frantoio, un mulino, un forno, una cantina con annessa una distilleria e una forgia per la produzione degli attrezzi agricoli. Le terre esterne erano assegnate a mezzadri che spartivano il prodotto con i religiosi. Insomma, un piccolo stato autosufficiente separato dal mondo, infatti la regola cistercense prevedeva che nessun laico potesse entrare e risiedere all’interno del convento. Ma venne il giorno in cui il procuratore ed Gabriele Maria Costa decise di seguire l’insegnamento di Gesù Cristo e aprire le braccia agli ultimi.
L’opera di accoglienza di soldati “sbandati”, renitenti al bando Graziani, partigiani, ebrei si sviluppò prima, dal settembre 1943, nelle case di proprietà della Certosa (ma esterne al muro di cinta del monastero) nelle località di Formentale, Stabbiano e Farneta; poi tra luglio e agosto ’44 anche all’interno del monastero.
Vennero inoltre accolti, in maniera legale, più di cinquanta bambini provenienti dal Rifugio Carlo Del Prete, un istituto di Lucca per l’infanzia abbandonata. In seguito alla caduta del fascismo, giunsero a bussare alla porta anche ex fascisti accusati dai commilitoni della Repubblica di Salò di tradimento.
Cavalleria tedesca davanti alla Certosa
L’accoglienza dovette avere una pausa per la saturazione degli spazi e della crescente attenzione dei comandi tedeschi. Tanto che a metà agosto, il procuratore Costa fu costretto a rifiutare di ospitare un medico ricercato: «Per il bene di lei e di quelli che sono qui non posso». La Certosa oltre a fornire rifugio attirava, per le sue risorse, torme di gente affamata che bussava in cerca di un tozzo di pane e di una minestra calda.
Il 23 agosto giunse la lettera di un sacerdote di Lucca che avvisava sull’imminenza di un’irruzione tedesca. Immediatamente, il priore Binz convocò il procuratore Costa, il maestro dei novizi Egger e il vicario Nicola Gontier, l’unico dei «superiori» che sopravvisse alla strage.
Decisero d’inviare il maestro dei novizi, che parlava tedesco, a Lucca presso il Comando tedesco allo scopo di comprendere se esistevano dei rischi. Il comandante gli assicurò il rispetto del luogo sacro, ma gli ricordò che dovevano astenersi dall’occultare persone o cose non permesse dalla legge.
In realtà, il pericolo era costituito dalla presenza della 16ª SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer, la stessa responsabile delle stragi di Sant’Anna di Stazzema e di Marzabotto. Infatti, il comandante, subodorando il comportamento del priore, decise di frequentare la Certosa andando a confessarsi con regolarità. Non solo. L’8 luglio «tre soldati tedeschi dispersi si sono presentati qui per mangiare – annotò il procuratore Costa –. Sono partiti per destinazione a noi ignota». In realtà, si ripresentano il giorno dopo, domenica, ed assistono alla messa conventuale. I tre affermarono di essere «sbandati a causa di un bombardamento e d’essere stati rifiutati dagli altri comandi tedeschi». Un pretesto surreale, che avrebbe dovuto mettere in allarme i buoni padri e motivarli a respingerli. Invece li ospitarono, nonostante fra’ Agostino, ex agente segreto del Comintern, avesse espresso dei dubbi per quel singolare comportamento: «Questi tre soldati li avevo visti anch’io una domenica, sulla tribuna, di dove ascoltavo la Messa, seduto sullo stesso banco con loro. Avevo però già allora notato, non senza impressionarmene, il loro contegno tutt’altro che spontaneo: non si voltarono mai, benché menomamente, a riguardare, anche sol per naturale curiosità, chi entrasse o si movesse in tribuna, ma invece i loro sguardi erano costantemente fissi a squadrare tutti quelli che erano già in chiesa, senza però che nei loro lineamenti trasparisse la minima emozione, come se fossero di marmo. So per esperienza che questa è una delle più spiccate caratteristiche dei poliziotti e delle spie».
Nonostante tutto i tre rimasero, poterono accertare la reale presenza degli ospiti e comprendere quali frati fossero responsabili dell’accoglienza. Verso la metà di agosto sparirono, o meglio rientrarono al vicino comando, dove riferirono tutto e permisero al comandante di organizzare la retata.
Giunse il primo settembre, in apparenza un giorno come gli altri, anche se pervaso da una strana energia, come ricordò il fratello laico sloveno Guido Percic: «Tutto quel giorno furono spari; i ponticelli d’intorno, per aria [sono le squadre dei guastatori tedeschi che preparano la ritirata]; quella sera poi un silenzio strano. Fuori della portineria, neanche un’anima viva. Soltanto Pietro Pellicci, operaio della fattoria, discorre con sua moglie. Lei gli diceva: – Piero, vieni a casa, stasera; ho paura per te. – E lui non voleva. Dopo, fu proprio lui il primo a essere impiccato e mitragliato».
Le SS arrivano all’ora del Mattutino
Quella notte, intorno alle 23, 15 le SS fecero irruzione nella Certosa, i monaci vennero sorpresi nel Coro dove erano riuniti per cantare il Mattutino. Un sergente gli intimò: «Mani in alto! Chi parla, grida, o fa segni, è fucilato immediatamente!». Nel chiostro piccolo venne piazzata una mitragliatrice per tenere sotto mira le persone che venivano rastrellate.
Lorenzo Coturri, giovane ventiduenne renitente alla leva della Rsi, rifugiatosi nella Certosa, riferì l’espediente usato dalle SS per introdursi nel convento: «Nella notte tra l’1 e il 2 settembre si presentò alla porta della Certosa il sergente tedesco molto conosciuto dai superiori e dal padre maestro al quale si era confessato più volte […]. Quella notte suonò il campanello e disse al portinaio (fra’ Michele) che aveva una lettera da lasciare al padre maestro. Il fratello lo pregò [di] aspettare, che l’avrebbe chiamato subito; ma il sergente gli disse [che] non valeva la pena di disturbarlo, trattandosi di cosa da poco: una lettera e un pacchetto da consegnare a suo comodo, e che avendo fretta preferiva lasciare in portineria». Vista la titubanza del frate, il sergente tedesco disse al portinaio che aveva fretta perché «doveva partire improvvisamente». Era un trucco a metà: il suo contingente, il giorno prima, 31 agosto, aveva lasciato l’acquartieramento di Villa Caprotti con l’ordine di ripiegare dalla Lucchesia verso l’Apuania. Il comando tedesco si era trasferito a Nocchi di Camaiore per l’avanzata degli Alleati che stavano arrivando a Pisa e già puntavano su Lucca. Nonostante tutto, il comandante delle SS trova il tempo per dare un esempio. Il buon fratello [portinaio] nulla sospettando – ricordò Lorenzo Coturri – va ad aprire e in questo momento una squadra di soldati che s’era tenuta in disparte si avanzò e con violenza spinse la porta, afferrò il fratello che fu rinchiuso in portineria. Così cominciò la tragedia».
I militari dilagarono per il convento, usando la violenza con ogni persona che incontravano. «Il padre sacrista avendo protestato per la violazione del luogo sacro, fu percosso e continuarono la profanazione. Fatto questo veniva, simultaneamente, assediata la foresteria, bloccate tutte le celle e le altre parti della Certosa e catturati tutti coloro che vi erano ospitati. Tutti gli arrestati furono frugati, derubati e tolti [loro] i documenti e posti lungo la foresteria, postati colla mitragliatrice, fino alla partenza».
Tra le prime persone che vennero arrestate vi fu il procuratore Costa, gli venne ingiunto d’indossare abiti civili. Ben presto i tedeschi si rendono conto che il numero di monaci è superiore a quelli che, secondo le loro informazioni, dovrebbero esserci (era stato il procuratore Costa a consigliare agli ospiti d’indossare il saio, in caso di rastrellamento). Per questo motivo, iniziarono una selezione; Alberto Palazzi ricordò: «Fummo tutti passati in rivista uno per uno da un sergente che ci scrutò attentamente, cercava di scoprire se fossimo effettivamente veri o falsi religiosi travestiti. Era biondo, molto cattivo, parlava in italiano stentato ma si faceva capire. Seppi che era un sergente, dal padre maestro Pio Egger, con il quale questo soldato aveva già avuto contatti in precedenza».
Non riuscendo a raccapezzarsi i tedeschi ordinarono a tutti d’indossare abiti civili, quindi iniziarono a smobilitare. Lasciarono solo un frate, impossibilitato a muoversi, mentre un gruppo di militari rimase in presidio per tre giorni, forse in attesa di qualche altro fuggiasco. Il 9 settembre la Certosa era libera, ma vuota. Il 3 settembre i nazisti compiranno una prima strage, prelevando e fucilando nella vicina Orbicciano due dipendenti della Certosa, Pietro Pellicci, 36 anni, Bruno Perna di 31 anni e una terza persona – “un napoletano” – mai identificata.
La prigionia nel frantoio di Nocchi di Camaiore
Il 2 settembre, la partenza dalla Certosa avvenne in tre momenti diversi della giornata: su autocarri coperti furono caricati dei rifugiati, il padre priore, il padre maestro e altri monaci. La destinazione era un frantoio nella località di Nocchi, piccolo borgo del comune di Camaiore, nei pressi del torrente Lucese. Lì da due giorni, era stato trasferito il Comando tedesco di zona, a seguito della smobilitazione da Lucca. Alle 18.00 tutti gli arrestati sono «riuniti» nel frantoio. Renato Urro, tra i sopravvissuti, così raccontò l’arrivo a Nocchi del primo gruppo: «L’autocarro si ferma, ci fanno smontare e al grido del loro “los los” [avanti avanti] ci fanno entrare in un grande locale – un ex frantoio a quanto sembra – mentre in una rozza bottega da falegname, per la quale ci tocca passare, un soldato calvo, panciuto, torso nudo, calzoncini corti, ci accoglie con calci e grida man mano che gli passiamo innanzi. Ci pressano così col loro ostinato “los los”, tutti in fondo allo stanzone e ci obbligano a sedere per terra. Siamo in un cantuccio il venerabile padre priore, il venerabile padre maestro e io (c’è anche una donna anziana che pare abbiano preso all’ingresso della Certosa la mattina stessa recante una lettera). Verso l’entrata sono due soldati che ciarlano, il venerabile padre maestro ci dice che il soggetto della loro conversazione è che saremo tutti fucilati. Perciò, mentre i soldati si allontanano un pochino, ci rinnova l’assoluzione generale. Ed ecco verso mezzogiorno – continua Renato Urru – ce li vediamo entrare di corsa, vestiti in borghese. Il venerabile padre don Adriano è particolarmente buffo coi suoi abiti insufficienti a coprire la sua pancia; egli non ha però perduto il suo buon umore. Il venerabile padre Norberto veste l’abito certosino perché non c’erano più abiti in borghese per lui. Manca il venerabile padre procuratore; verso sera portano anche lui, tutto in borghese. Così, eccettuati i venerabili padri priore, maestro e don Norberto, tutti vestiamo in borghese».
La prima cosa che fanno è abbracciarsi e condividere i momenti che hanno vissuto, al termine, ognuno esterna la medesima domanda «Cosa ci riserva il futuro?». La risposta del padre maestro dei conversi è: «O fucilati, oppure a lavorare». All’improvviso s’aprì la porta e venne introdotto il carrello con il cibo. «Almeno per oggi non ci ammazzeranno. Il pasto unico di questo giorno – ricordò Urru – è consistito in un tozzo di pane, 2-3 etti, e un po’ di broda calda che è un affare serio a prendere perché mancano recipienti; si fa come si può: ognuno annusa al mescolo [mestolo] che è nella marmitta. Finalmente arrivano alcune scatole vuote di salmone e di piselli, che è da supporre venute piene dalla Germania; sono poche, ma sia, almeno per turno, si fa un po’ di zuppa, ben inteso i più bisognosi e i più coraggiosi, gli altri tirano la cinghia. Acqua, soltanto per bere, ne abbiamo due marmitte: c’è un po’ di paglia dentro, ma è fresca».
I monaci vengono sottoposti a sevizie. Frate Abetini per aver chiesto di potersi recare in bagno, viene sottoposto dalla sentinella a questo trattamento: «gli mette una pesante trave sulle mani distese in avanti e gli fa fare flessioni sulle gambe al suono del suo “los los” [avanti avanti]; il confratello non ne può più, ma il soldato trae dalla tasca del sacerdote il Diurnale [libro del rito certosino contenente la liturgia delle ore diurne], glielo mette sulla trave e gli fa continuare il suo esercizio; quindi gli fa stringere il libretto fra i denti; gli percuote ripetutamente la testa con una canna, gridandogli sempre “los los”, mentre il venerabile padre è visibilmente sfinito». A fra’ Gabriele Stozir, la stessa sentinella «gli si presenta, lo fa alzare in piedi e con i fiammiferi gli brucia la barba; fa però attenzione a non bruciargli il viso soffiandovi sopra; anche questa scena si è ripetuta due volte».
La prigionia durò quattro giorni, fino all’alba del sei settembre. Abetini nello stilare la sua relazione affermò: «Tre volte i prigionieri furono decimati. Il cibo scarsissimo e tale che la sola dura necessità rendeva mangiabile, niente acqua per lavarsi, poca anche per bere; i luoghi di decenza orribili, e per di più dovevano servirsene a gruppi per volta e sempre guardati a vista. I modi sia dei comandanti come delle sentinelle, sempre ostili, a volte crudeli».
La fucilazione più numerosa dei prigionieri della Certosa avvenne il 4 settembre a Pioppetti, nella Valle della Freddana, tre chilometri a est di Nocchi, sulla provinciale che da Camaiore porta a Lucca. Circa una trentina di persone, tra civili arrestati al convento e rastrellati nella zona, furono legate con del filo spinato a degli alberi e uccise a colpi di mitra. Una rappresaglia “esemplare” per un assalto partigiano a un autocarro tedesco avvenuto due giorni prima e per l’uccisione nelle vicinanze di un capitano medico tedesco.
La strage dei monaci
Dopo i rifugiati, i tedeschi passarono ai frati, costoro vennero passati per le armi. I primi due frati a essere fucilati perché rallentavano la marcia a piedi dell’intero gruppo verso Nocchi furono, il 7 settembre, il priore Martino Binz e l’ex vescovo venezuelano Bernaro Montes de Oca. I loro corpi bruciati e seppelliti alla meglio. Gli altri frati giunsero a Massa, qui in dieci vennero ritenuti cospiratori e responsabili dell’accoglienza, per cui il 10 settembre furono prelevati e condotti nei pressi del torrente Frigido. I dieci monaci, sette civili prelevati alla Certosa, altri religiosi del territorio, un medico furono fucilati e i loro corpi lasciati esposti sul luogo dell’esecuzione.
Gianluca Fulvetti, lo storico che ha studiato gli atti su richiesta del Tribunale militare di La Spezia, ha ipotizzato che fu «un’esecuzione mirata a colpire alcune decine di persone sulle quali il reparto [di SS] ha accumulato, nelle settimane precedenti, una serie d’indizi sufficienti a fare catalogare le vittime come banditi, traditori, collusi con i partigiani».
Nel frantoio rimasero i frati destinati al lavoro, il 6 ottobre, dopo una selezione, i più robusti vennero inquadrati e fatti salire su dei camion, destinazione Massa Carrara. «Giunti a Carrara ci fecero smontare ed entrare in un palazzo chiamato l’“Infail” […] – dichiarò il frate cuciniere Giovanni Bona –. Noi giovani ci condussero in uno stanzone del palazzo, ove l’interprete ci gridò: “I robusti passino da questa parte, gli altri restino dove sono”. Così 12 dei nostri passarono dall’altra parte e furono portati a Carpi, come sapemmo dopo la Liberazione […]. I rimasti ci ritirammo nelle stanze, ma guai sporgere la testa alle finestre, ci tiravano dentro come tirare al bersaglio. Ciò nonostante, mi lasciai vincere dalla curiosità e ci riuscì di vedere ancora una volta, l’ultima, i nostri poveri vecchi che passavano. Animato da speranza, pensai che li avessero lasciati liberi, e lo dissi agli altri, invece prendevano la via di Massa a piedi e andavano alla morte».
Dell’arrivo dei monaci seppe il vescovo di Carrara, Arduino Terzi, che si precipitò al Comando tedesco a chiederne la liberazione. Dopo varie resistenze ottenne il rilascio di tre frati. Gli vennero consegnati a condizione che ne rispondesse personalmente. Quattro monaci laici, invece, furono inviati al campo di concentramento e transito di Fossoli. L’alto prelato ritornò al Comando tedesco e protestò, ma le autorità si fecero scudo della firma apposta da costoro, in un foglio scritto in tedesco, con il quale chiedevano di essere utilizzati come lavoratori del Reich in Germania. Inutile dire che la firma venne estorta, il 25 settembre, con l’inganno.
La deportazione a Fossoli e in Germania
Ai quattro se ne aggiunsero altri sei, per un totale di dieci. L’intero gruppo finì a Berlino. Non appena il Nunzio Apostolico fu informato della loro presenza, chiese alle autorità germaniche il loro rilascio, ma la firma estorta con l’inganno divenne motivo di contestazioni da parte dei nazisti, che avevano un bisogno disperato di braccia per liberare le città dai detriti dei bombardamenti.
Fra’ Guido ricordò la loro esperienza, parlando in terza persona: «I nostri sono destinati a Berlino, dove arrivarono il 1° ottobre. Li accolse subito un gran campo di smistamento, dove il giorno dopo furono visitati da un cappellano degli italiani, che vestiva abito borghese, certo don Antonio Coderno. Da lui apprendono che esiste una chiesa in Berlino, dove funziona il servizio religioso per gli italiani. Le poche volte che i nostri vi andarono la trovarono abbastanza affollata. Quel campo era come un mercato di carne umana. Là i direttori delle fabbriche prelevavano quel numero di braccia di cui abbisognavano. I nostri furono assunti da una ditta di aeroplani e passarono così al relativo lager della fabbrica. Si sistemarono come meglio poterono, chi in un capannone e chi in un altro, non trovando dieci posti insieme. Il letto era paglia in sacchi di carta su castelli di legno a due piani, due coperte e basta. Al mattino bisognava essere in piedi presto per trovarsi al lavoro alle sette, dopo un’ora di strada a piedi (il tram non sempre si riusciva a prenderlo); alla sera si rientrava alle sette per mangiare quel pochino pochino che davano: non restava quindi che rifarsi della fatica e dimenticar la fame nel sonno. Eppure quel lager di 150 persone era come un’oasi di pace: c’era affiatamento tra tutti, c’era quiete; tanto che il 1° dell’anno poterono i nostri fratelli far celebrare la S. Messa nel loro capannone, alla quale tutti assistettero e alcuni fecero anche la S. Comunione. Ma non fu più così quando a metà gennaio dovettero passare in un altro lager più grande, più disordinato, con gente d’ambo i sessi e i conseguenti inconvenienti facili a immaginarsi». Finalmente, vennero liberati e affidati al Nunzio Apostolico, i dieci monaci lo ringraziarono, ma lo pregarono di permettergli di poter ritornare alla loro casa: la Certosa di Farneta.
L’alto prelato gli concesse di partire, così iniziarono un estenuante cammino di ritorno. Il 23 novembre nel territorio tra Pontremoli e Farneta, quasi arrivati alla Certosa, i frati, nonostante gli stenti e le angherie subite dai nazifascisti, incontrano dei partigiani che hanno catturato un tedesco e si stanno apprestando a fucilarlo.
«Il padre vicario si recò nella prigione a confessare il condannato, il quale diede segni di vero pentimento e si dispose alla morte in maniera commovente. Intanto dietro l’insistenza di don Francesco prima, e per le preghiere del padre vicario poi, il comandante [della formazione partigiana], ch’era un ottimo giovane, si lasciò indurre a sospendere per quella volta l’esecuzione. Scherzi della Provvidenza! Quel prigioniero era uno delle SS tedesche, di nazionalità ungherese, come il sergente che eseguì la cattura della Certosa».
È la dimostrazione che il rispetto della dignità dell’uomo va sempre perseguito, a prescindere dal risentimento e rancore che alberga nel nostro cuore.
Chi erano i Martiri
I dodici frati Martiri ora riposano nella Certosa di Farneta, come i loro fratelli, coperti da un tumolo di terra e da una croce. I loro nomi sono scritti nella pianta del cimitero, conservata nell’ufficio del priore. Ecco chi erano, nell’ordine di tempo con cui vennero fucilati.
Martino Binz, aveva 65 anni, era originario di un cantone tedesco della Svizzera, ricopriva al momento dell’arresto il ruolo di priore della comunità (era stato nominato nel 1940). Era divenuto famoso per la sua esemplare «fedeltà alla regola», che decise d’ignorare quando scelse di dare asilo nel convento a quanti erano perseguitati dai nazisti. Era consapevole che correva un grave pericolo, ma non che il suo comportamento avrebbe coinvolto i suoi confratelli.
Bernardo Montes de Oca, 49 anni, era stato vescovo di Valencia (Venezuela), dove s’era opposto al regime politico locale. Nel 1934 decise di chiudersi in convento e chiese di essere accolto in qualità di semplice novizio e come tale si comportò, lasciando basiti i confratelli. Tale comportamento lo aveva reso invisibile anche alle spie tedesche e repubblichine, motivo per cui non rientrava al momento dell’arresto nella rosa dei frati pericolosi. Lo divenne in seguito, quando dei confratelli, desiderosi di proteggerlo, riferirono il suo passato al sergente delle SS che guidava una compagnia della 16ª SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer. Il sottufficiale si convinse che si trattava di «una spia americana a capo di tutta l’organizzazione antitedesca presente in Certosa». Il suo corpo non riposa nella Certosa perché quando i suoi resti vennero riconosciuti, nel 1947, grazie al breviario ritrovato nel luogo della fucilazione, le autorità ecclesiastiche venezuelane chiesero di poterlo seppellire nella cattedrale di Valencia.
Gabriele Maria Costa, 46 anni, procuratore ed economo della Certosa dal 1942. Era in contatto con Giorgio Nissim, fiorentino, esponente della Delasem, Delegazione per l’assistenza agli emigranti ebrei; con Gino Bartali e con Giorgio La Pira (di cui era confessore), due cattolici distintisi nell’attività di aiuto e protezione degli ebrei. Il suo testamento spirituale consegnato ai confratelli fu: «Se veniamo uccisi, voi dite che è stato a causa della carità». È Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria.
Pio Egger, 40 anni, ricopriva il ruolo di priore, era originario da un cantone svizzero tedesco. Nel convento svolgeva il ruolo di maestro dei novizi. Lasciò il compito ai confratelli, compagni di prigionia, di riferire alla mamma e alla sorella le seguenti parole «Muoio per aver fatto un’opera buona» con il chiaro intento di far comprendere loro le sue scelte.
Giorgio Maritano, 62 anni, fratello laico di origini piemontesi. All’età di 48 anni aveva avuto la chiamata, per questo motivo aveva lasciato da parte i panni di contadino e indossato il saio. All’interno del convento svolgeva il compito di lavandaio.
Michele Nota, 56 anni, fratello laico, originario di Lusernetta, svolgeva il compito di portinaio. Uomo semplice e pratico, in precedenza aveva servito come fabbro e come elettricista.
Adriano Clerc, 74 anni, fratello laico, proveniente da un cantone svizzero francese. Prima di diventare certosino lavorava come domestico, in convento divenne dispensiere.
Adriano Compagnon, 71 anni, fratello laico, d’origine francese ed ex professore di teologia. Nel 1901 era entrato nel convento di Grande Chartreuse, dopo svariati giri era giunto in Toscana. Aveva un carattere disponibile e affabile, tanto da sostenere i compagni nei giorni della prigionia.
Raffaele Cantero, 47 anni, fratello laico di origine spagnola. Era sarto prima d’entrare in convento e continuò a ricoprire tale ruolo. I confratelli lo avevano soprannominato «Raffaellino» per la sua figura piccola e bassa.
Bruno D’Amico, 60 anni, fratello laico, era di Palermo, aveva vestito il saio dei Gesuiti e in seguito aveva chiesto di essere accettato presso la Certosa di Serra San Bruno, in Calabria. Quindi era giunto a Firenze, infine a Farneta. In convento era divenuto infermiere, da laico svolgeva l’attività di tipografo.
Benedetto Lapuente, 70 anni, sacerdote di origine spagnola. Aveva indossato il saio all’età di 40 anni. Mentre li conducevano alla fucilazione, il confratello cuoco gli disse «ci portano alla fucilazione». Lui rispose con molto candore: «Perché, non abbiamo fatto nulla di male?».
Alberto Rosbach, 74 anni, fratello laico di origini tedesche. Era entrato in convento all’età di 40 anni.
Stefano Coletta, docente
Bibliografia:
Lenzo Lenzi, Il disastro della Certosa di Farneta. I fatti narrati in un documento contemporaneo, Maria Pacini Fazi Editore, Lucca 1994.
Gianluca Fulvetti, Una comunità in guerra. La Certosa di Farneta tra resistenza civile e violenza nazista, L’Ancora del Mediterraneo Editore, Napoli-Roma 2006.
Pubblicato mercoledì 20 Febbraio 2019
Stampato il 04/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/cronache-antifasciste/il-calvario-della-certosa-di-farneta/