L’occasione del 25 aprile va colta per dare valore alla Resistenza e per non smarrirne il significato centrale nella storia d’Italia: l’unica, vera, lotta democratica e popolare degli italiani. Una lotta vissuta con una varietà di comportamenti: non solo la Resistenza armata ma anche gli scioperi degli operai, il sostegno dei contadini, delle donne, l’impegno dei sacerdoti, il rifiuto dei militari internati nei campi nazisti di aderire alla Repubblica di Salò, il rifugio dato agli ebrei perseguitati. Ancora: nella Resistenza armata combatterono i comunisti, gli azionisti, i socialisti, i cattolici, i liberali, i monarchici, i democratici senza partito, gli anarchici.
Non fu, dunque, una guerra privata tra fascisti e comunisti. Né fu un processo che iniziò solamente nel 1943, bensì da una lunga storia avviatasi con l’antifascismo delle origini, l’esilio, il carcere e il confino, l’opposizione ventennale al regime fino al progressivo rifiuto, dal 1940 in poi, della guerra a fianco della Germania nazista. Questo processo fu la matrice della Costituzione, un felice compromesso che vide l’apporto di tutte le correnti ideologiche e le forze politiche.
Tutto ciò spiega la profonda diversità tra la Resistenza italiana e quella ucraina. Come ha scritto lo storico Alessandro Volpi, ciò “non significa negare la piena legittimità del popolo ucraino di difendersi dall’invasione russa”. La distinzione “è però necessaria per evitare una pericolosa generalizzazione che rischia di far smarrire” l’identità della nostra Resistenza, la sua “funzione ideale e civile di fondamento della libertà e della democrazia italiana”. Volpi ricorda giustamente che il termine “Italia” compare nella Costituzione solo due volte: nell’art. 1, dove viene sancita la sua qualità “democratica, fondata sul lavoro”, e nell’art. 11, che “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Ripudiare vuol dire non riconoscere più come proprio qualcosa che pure è nostro, o lo era fino a quel momento. Il carattere micidiale assunto dalla guerra dopo la bomba atomica fu, cioè, compreso dai resistenti (che pure avevano vinto anche con le armi) quando divennero costituenti.
Ma anche i termini “patria” e “nazione” sono usati, nella Costituzione, in modo parsimonioso, per rimuoverne l’abuso strumentale che ne aveva fatto il fascismo. “La nazione indicata nella nostra Costituzione – conclude Volpi – non ha nulla a che fare con il nazionalismo, un elemento del tutto distante dal sacrificio della Resistenza italiana, in cui non sono mancate le esperienze della lotta nonviolenta”, come quelle della Resistenza sociale e civile che ho poc’anzi ricordato.
Non esiste, quindi, il fenomeno della “resistenza in quanto tale” per definire l’opposizione di un popolo a un’invasione. Se noi considerassimo la Resistenza italiana solo come lotta armata e “per la nazione”, indeboliremmo il suo significato e la sua assoluta insostituibilità nella storia del nostro Paese. L’occasione del 25 aprile va colta semmai per valorizzare – lo hanno fatto recentemente molti storici, da Enrico Acciai a Carlo Greppi – la dimensione europea, internazionale e transnazionale che univa i movimenti di Resistenza contro i fascismi nei vari Paesi; una dimensione “che prescinde e si scontra con le questioni dell’identità nazionale e della nazione”, come hanno scritto Chiara Colombini ed Enrico Manera. La lotta popolare più importante che si svolse in Italia fu cioè strettamente interconnessa con la lotta antifascista continentale.
I “resistenti internazionali e transnazionali” furono molti. Un nucleo consistente fu quello dei prigionieri di guerra alleati che furono liberati o riuscirono a fuggire dai campi di internamento rimanendo però bloccati dietro le linee nemiche. Molti si aggregarono alle bande partigiane: nella IV Zona, quella spezzina, uno di loro, il maggiore inglese Gordon Lett, diede vita a una formazione di partigiani di più nazioni, il Battaglione Internazionale, mentre nella vicina Apuania un altro maggiore inglese, Anthony Oldham, divenne comandante della divisione Lunense, la cui compagnia di guardia, scrisse lo storico Roberto Battaglia che della Lunense fu commissario, era composta da “turkestani, disertori dell’esercito tedesco, jugoslavi, cecoslovacchi, alcune staffette francesi”.
Un altro gruppo fu quello di chi visse lo sbandamento delle proprie Forze Armate in territorio occupato dal nemico, come i militari italiani che combatterono nelle resistenze jugoslava, albanese, greca e francese, dando vita ai battaglioni Garibaldi e Matteotti in Bosnia, Garibaldi in Montenegro, Gramsci in Albania e poi in Bosnia… Profonda testimonianza, scrisse Battaglia, dello “spirito di fratellanza internazionale”. Il fenomeno fu anche inverso, basti pensare ai tanti jugoslavi che parteciparono alla Resistenza italiana. Numerosi pure furono i russi e non mancarono gli ucraini.
Ci fu poi il fenomeno della diserzione tedesca, quantitativamente non irrilevante e moralmente assai significativo. Su questo punto rimando alla prima parte dello speciale Quei disertori del Reich nel vento del Nord intitolata L’internazionalismo nella Resistenza. Rudolf Jacobs e la diserzione tedesca nella IV Zona operativa , salvo aggiungere che la ricerca storica non ha mai fine: ho appena “scoperto” la partecipazione nelle file della Brigata Borrini – che alla IV Zona appartenne fino al marzo 1945, per poi passare sotto il comando di Parma – di un gruppo di disertori tedeschi alla “grande giornata” del 23 aprile 1945 a Licciana Nardi, in Lunigiana, in cui morì l’austriaco Joseph Bauer di Linz. Ancora un disertore dell’esercito nazista che si immolò per la libertà nel territorio spezzino-lunigianese, oltre a Jacobs e al misterioso Kurt Ruhle, di cui ho scritto nell’articolo citato (entrambi protagonisti del libro di Greppi Il buon tedesco).
Acciai, a ragione, scrive che per comprendere pienamente il fenomeno della Resistenza europea bisogna pensare a una cronologia più ampia, che includa anche la guerra di Spagna (1936-1939). I combattenti stranieri che liberarono Marsiglia o Tirana erano tutti reduci da quel conflitto. In IV Zona lo era il disertore tedesco Leonhard Wenger, di cui ho scritto nel medesimo articolo. Alcuni di loro furono addirittura “partigiani di tre nazioni”, come lo spezzino Bruno Rolla, di Arcola (ne ho scritto in Bruno Rolla, partigiano in Spagna, in Etiopia e in Italia), che combatté a Madrid e sull’Ebro, fu ferito e poi, dopo la sconfitta, fu internato in Francia, fino al marzo 1939. Mentre i volontari internazionali venivano ritirati dalla Spagna, il Partito comunista ideò la “Speciale spedizione etiope”, a fianco degli etiopi che resistevano all’invasione coloniale da parte del regime fascista.
Sotto la guida di Giuseppe Di Vittorio e di Giuseppe Berti, i protagonisti furono quattro uomini: Ilio Barontini “Paul”, Bruno Rolla “Petrus”, Anton Ukmar “Johannes” e il francese Robert Mounier “Andreas”. Appoggiarono e supportarono la Resistenza etiope, preparando piccole bande militari autosufficienti, in sostituzione dei grossi gruppi, troppo vulnerabili. I tre italiani furono soprannominati “Gli Apostoli”. Rolla, prima di tornare a La Spezia, fu commissario politico di una brigata abruzzese. La dimensione internazionale, qui, supera lo stesso eurocentrismo e diventa modernità cosmopolita.
Ma anche in questo caso ci fu il fenomeno inverso: per rimanere in Liguria, nella 175ª Brigata Garibaldi Sap Guglielmetti, che operò in Val Bisagno, combatté un partigiano eritreo, Brahame Segai, nato nel 1900 e sul quale non si hanno altre notizie. Qualcosa di più, invece, sappiamo di Nicolau do Rosário, nato il 4 settembre 1894 a São Vicente, nelle isole africane di Cabo Verde, caduto a Genova il 24 aprile 1945 in un combattimento contro i nazifascisti. Nicolau faceva parte della 863ª Brigata Garibaldi Bellucci (o Caio) e fu ucciso da una raffica di mitra nei pressi dell’ospedale Galliera dove, ancora oggi, lo ricorda una piccola targa. La sua tomba è nel cimitero di Staglieno. Perciò, sulla base di queste considerazioni (e non solo) non c’è dubbio: il concetto di “resistenza nazionale italiana” va decisamente allargato.
Giorgio Pagano, copresidente del Comitato Unitario della Resistenza della Spezia in rappresentanza dell’Anpi, storico, sindaco della città di La Spezia dal 1997 al 2007
Pubblicato martedì 26 Aprile 2022
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