Ormai i numeri sono quelli di una guerra se – come dice l’Istat – nel nostro Paese il 31,9% delle donne tra i 16 e i 75 anni ha subito almeno una violenza fisica o sessuale. Sei milioni quattrocentomila è la percentuale tradotta in cifra assoluta, di questi quattro milioni seicentottantamila sono maltrattamenti e violenze, un milione centocinquatamila gli stupri o il loro tentativo. Cifre da paura nonostante la cresciuta e diffusa consapevolezza delle donne per l’impegno dei tanti movimenti, per il lavoro svolto dai Centri antiviolenza e dai servizi specializzati e nonostante diversi importanti interventi legislativi, da ultimo quello approvato il 19 novembre scorso alla Camera e il cui iter auspichiamo si concluda nel più breve tempo possibile al Senato con la modifica l’articolo 609-bis del Codice penale e il riconoscimento che senza “consenso libero e attuale” il reato è quello di stupro.

L’Istat ci dice anche che se i dati sono sostanzialmente identici a quelli della precedente indagine di cinque anni fa, rimane “elevatissimo il sommerso della violenza” e preoccupa la forte crescita di quelli relativi alle violenze subite dalle giovanissime e dalle studentesse tra i 16 e 24 anni. A smentire le affermazioni della ministra Roccella secondo cui non ci sarebbe “correlazione tra l’educazione sessuale nelle scuole e la diminuzione delle violenze contro le donne”.

Dati allarmati in sé e che colpiscono trasversalmente condizione sociale e titoli di studio se “tra le laureate di 25-34 anni la violenza negli ultimi cinque anni arriva al 41,7%, tra le diplomate di 16-24 raggiunge il 48%. La prevalenza tra le donne con titolo di studio elevato è inoltre legata alla maggiore vittimizzazione di queste donne da parte di autori non partner …”, cioè in contesti non familiari, ma lavorativi, scolastici e sociali. E qui c’è il tema, quello che chiamiamo modello sociale patriarcale. Un patriarcato che si è nutrito e continua a nutrirsi, nel potere e nel linguaggio del potere, degli stereotipi di genere di cui esemplare esempio sono state anche le ultime “rivelazioni” del ministro della in-giustizia Nordio in merito alla genetica maschile resistente all’accettazione della parità.

Come se l’accettazione della “parità” non fosse – appunto – questione sociale e culturale di riconoscimento di uguaglianza e di pari diritti. Come se la violenza di genere, i femminicidi non fossero il frutto di quell’individualismo che come dice Luciano Floridi “è la condizione che predispone a un atteggiamento bellico nei confronti dell’altro e della realtà, … il linguaggio dell’individualismo è la guerra, è la violenza. Se una donna vuole la sua indipendenza, la sua sovranità, il maschio – che perde la sua – la elimina, ha bisogno di ucciderla per non perdere la propria sovranità”. Un individualismo coltivato nella frammentazione e, allo stesso tempo, nell’omologazione dei comportamenti che fa perdere il valore del pluralismo e della varietà di pensiero e fa crescere le polarizzazioni dei pro e dei contro”.
Processi tossici favoriti dal trasferimento delle relazioni umane alle piattaforme digitali. E qui c’entrano in ballo il linguaggio, o meglio i linguaggi e in particolare quelli dei social, quelli prodotti dagli algoritmi dell’intelligenza artificiale, strumenti di comunicazione e di informazione sempre più estranei alle regole democratiche di rappresentanza. La forma dell’individualismo è la sovranità e il linguaggio dell’individualismo è la competizione, è appunto la violenza, è la guerra. Un meccanismo che si traduce anche nel presentismo, nel tutto e subito, nel distacco dalla politica. C’entra sicuramente la crisi dei partiti, l’incapacità di leggere la profondità delle trasformazioni in essere, ma bisognerebbe aver chiaro che si tratta di una dinamica capace di innescare una sorta di causa/effetto con cui è urgente misurarsi perché davvero su questo si gioca il futuro della democrazia.

Nell’indifferenza, nell’apatia, nel sonnambulismo alla fine tutto viene dato per scontato e tra diffidenze ed egoismi diventano scontate le disparità, le disuguaglianze ma anche i disvalori di cui la violenza è espressione emblematica. Espressione di una società in cui – come ha scritto di recente Mauro Magatti sul Corriere della Sera – “cresce la distanza tra le persone — non per conflitto, ma per assenza”.

Dove le persone vivono sole, incontrano meno gli altri, e si accontentano di trasferire le relazioni sulle piattaforme digitali. Così “la trama sociale si sfilaccia e la connessione virtuale sostituisce la prossimità”. Qual è il modello culturale e sociale che viene offerto, o meglio, promosso oggi – se non quello del “fai da te”, della competizione, e del più forte? Del più forte, non del più bravo, un modello funzionale alla ri-alfabetizzazione populista, sovranista e suprematista: perché se parti da condizioni differenti, tanto differenti, anche se sei più bravo o brava salirai un gradino o due ma non potrai mai affrontare tutta la scala sociale.

Per questo il 25 Novembre, Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne, ci vede presenti e impegnate come sempre con tante altre Associazioni e con tante donne nelle centinaia di iniziative e manifestazioni che si svolgono nel Paese. Lo siamo e lo saremo anche nel segno del messaggio rivolto da Gino Cecchettin nel nome di sua figlia Giulia e di tutte le Giulie per “una testimonianza che si trasforma in impegno a partire dalle parole, dal linguaggio di rispetto del diritto e della giustizia che aborre qualsiasi forma di odio e di violenza”.

Facciamo rumore, usciamo, fuori, tutte e tutti, ma facciamo soprattutto cultura, di dialogo, di pluralità, di parità, di democrazia.
Tamara Ferretti, segreteria nazionale Anpi, responsabile Coordinamento nazionale Donne Anpi
Pubblicato lunedì 24 Novembre 2025
Stampato il 24/11/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/idee/editoriali/contro-le-donne-ormai-e-guerra-usciamo-fuori-tutte-e-tutti/





