Gianfranco PagliaruloCerto è che se ne vedono di tutti i colori ed ancor più se ne vedranno negli ultimi giorni di questa campagna referendaria. Per esempio, la seguente, recentissima affermazione-appello del Presidente del Consiglio: «La maggioranza silenziosa degli italiani sta con noi». Per chi non sa, o non era ancora nato, è il caso di ricordare com’è nata questa definizione.

All’inizio del 1971 a Milano Massimo de Carolis, vicesegretario DC, l’avvocato Adamo Degli Occhi, democristiano poi passato ai monarchici e poi al MSI, Luciano Bonocore, segretario regionale lombardo del Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del MSI, fondano il movimento che si chiama “Maggioranza silenziosa”, al quale aderiscono subito esponenti liberali, monarchici e del PSDI. Tale movimento rappresentava il tentativo di saldare la parte più reazionaria della DC con una minoranza di moderati, ma specialmente col MSI, partito neofascista; nei primi tempi fu protagonista di manifestazioni di piazza piuttosto partecipate, per sgonfiarsi via via e scomparire poi del tutto quando, il 12 aprile 1973, i neofascisti Maurizio Murelli e Vittorio Loi uccisero l’agente di Ps Antonio Marino con una bomba a mano. Erano gli anni della contestazione, che seguirono all’autunno caldo nel 1969. Prima ancora il termine «maggioranza silenziosa» fu utilizzato dal presidente USA Richard Nixon nel 1969, con riferimento alla grande provincia americana a cui chiedeva sostegno contro le idee di rinnovamento che si erano diffuse negli States a partire dall’anno precedente.

Quando si parla di “maggioranza silenziosa” in Italia, perciò, ci si riferisce ad un grumo della storia recente di tipo oscurantista e avvelenato dalla presenza determinante dei neofascisti.

Ma lo stesso presidente del Consiglio il 14 novembre ha aggiunto che “il Sì è un voto anti-sistema”, cercando – si presume – di raggranellare qualche consenso nell’elettorato di Grillo e forse della Lega. Non rimane che citare Crozza: “Avete sentito cosa ha detto Renzi a Radio Monte Carlo? (…) Ha detto che il Sì è un voto anti-sistema. Infatti voteranno Sì il governo, Confindustria, le banche, JP Morgan, Moody’s e il club Amici del cachemire, notoriamente tutte associazioni no global”.

Per non parlare di tutto il resto: il discusso (per usare un eufemismo) invio di una lettera di propaganda del Sì a firma Matteo Renzi agli italiani residenti all’estero; l’annuncio di un’analoga lettera a tutti i cittadini del nostro Paese; la quotidiana ascrizione di ogni possibile capacità terapeutica del voto a favore della riforma rispetto ad ogni tema, dall’economia al lavoro alla salute ai rapporti internazionali; l’invasione mediatica del Presidente del Consiglio su ogni rete televisiva e su ogni argomento rispetto al quale si conclude sempre invitando a votare Sì o demonizzando il No, alla faccia di una par condicio di fatto inesistente; la pubblicità debordante per il Sì praticamente ovunque – dagli autobus a facebook – per un budget di svariati milioni di euro che contrasta in modo osceno col ricorrente mantra della riduzione dei costi della politica; il linguaggio qualunquista/demagogico contro “i politici” e contro “le poltrone” (ma, chissà perché, solo quelli e quelle del Senato e non della Camera) utilizzando appieno una chiave di volta della cosiddetta antipolitica; il continuo passare dai temi della riforma al destino del governo e della presenza politica di Matteo Renzi, facendo intuire oscure conseguenze in caso di vittoria del No; e chi più ne ha, più ne metta.

È evidente che questo diluvio di verbosità tende, francamente in modo sgangherato e contraddittorio, a coprire tutto l’arco dell’elettorato, rivelando un affanno proporzionale al timore di perdere il referendum. Dunque tutto si spiega, ma rimane un danno che sarà possibile calcolare solo dopo l’esito della consultazione referendaria. Se questa consultazione si fosse svolta esclusivamente affrontando il merito della riforma, col dovuto tasso di polemica ma con altrettanto senso di responsabilità, come da sempre auspicato dall’ANPI, il danno sarebbe stato limitato, forse del tutto inconsistente. Un senso di responsabilità che vale dallo statista al cittadino, e cioè la consapevolezza che il giorno dopo il referendum il mondo va avanti, perché domani è un altro giorno. E come sarà il domani dipende da quello che facciamo oggi. Il rischio è che domani ci si trovi davanti a un cumulo di macerie, rancori, rotture, incomprensioni, e che sia tutto più difficile.

Questo rischio non era imprevedibile, ma fin dall’inizio il presidente del Consiglio ha impostato la campagna referendaria come uno scontro frontale negando in qualche modo legittimità all’avversario. Dopo l’approvazione del nuovo testo costituzionale col Parlamento spaccato in due e con ripetuti e gravi colpi di mano, Renzi avvia ufficialmente la campagna il 2 maggio con queste parole a proposito della riforma: “Tutte queste cose determineranno una divisione fra l’Italia che dice Sì e l’Italia che sa dire solo No”. Sette mesi (sette mesi!) di campagna ininterrotta, pesantissima, aggressiva, dove chi la pensa in altro modo viene definito all’origine come una via di mezzo fra un nichilista, uno sfasciacarrozze, un conservatore, un immobilista, forse un minus habens: “Sa dire solo No”.

È evidente che lo scenario peggiore sarebbe una (improbabile ma possibile) vittoria del Sì, che sarebbe davvero una vittoria di Pirro, con mezza Italia che non si riconosce più nella carta fondativa dell’esistenza stessa della Repubblica democratica, un campo democratico rovinosamente spaccato in due, il rischio di un ulteriore riflusso astensionista, e – attenzione! – una porta spalancata verso chi vuole cambiare la Costituzione come tale. Perché – parliamoci chiaro – da troppe parti, spessissimo in privato, qualche volta in pubblico, al di là della prosopopea propagandistica per cui si cambia solo la seconda parte della Costituzione, si sente dire che la Costituzione del 1948 in quanto tale è vecchia e superata davanti alla sfida della globalizzazione e dell’Ue. Non dimentichiamo che il nostro è il Paese in cui la Costituzione è stata attaccata da quando esiste, a cominciare dall’articolo 1.

Questi i fatti e questo lo scenario. E ciascuno si assuma le proprie responsabilità. L’ANPI se le è assunte con rigore, determinazione e pacatezza. Le rarissime volte che qualcuno è andato sopra le righe, l’ANPI nazionale è intervenuta immediatamente, ufficialmente e pubblicamente. L’ANPI ha svolto una coerente campagna per il No, ma cercando sempre di mantenere la barra sul merito della riforma, evitando toni da stadio, anatemi e insulti. L’ANPI ha seguito questo percorso sia all’esterno che all’interno dell’associazione, dove, a fronte di una scelta chiara e distinta – il No – non si è mai escluso nessuno perché la pensa diversamente. Controprova: il 16 novembre sull’Unità è apparso una specie di appello di una ventina di iscritti all’ANPI che non solo dichiarano di votare Sì, ma criticano aspramente l’associazione per aver deciso di sostenere il No. È uno dei tanti momenti in cui in questi mesi si è cercato di delegittimare, dividere, squalificare l’ANPI (che fra l’altro si trova nella buona compagnia della CGIL e dell’ARCI). E certamente non sarà l’ultimo. Ebbene, il messaggio che diamo a questi compagni firmatari è molto semplice: siete liberi di votare Sì, siete liberi di criticare l’ANPI, siete liberi di pubblicare tutto quello che volete. Ci spiace, però, che non vi sia chiaro che la pesantissima divisione in cui si trova già oggi il Paese non è certo da ascrivere all’ANPI, come si è cercato di dimostrare; ci spiace altresì che così danneggiate l’associazione, rivendicando una libertà di voto, come se questa non ci fosse, il che non è vero, perché l’ANPI era, rimane e rimarrà una grande associazione democratica, pluralista, fondata dai partigiani sui loro valori e presente nell’Italia di oggi a partire dalla sua missione statutaria, che prescrive questo come uno dei fondamentali scopi associativi: “concorrere alla piena attuazione, nelle leggi e nel costume, della Costituzione Italiana, frutto della Guerra di Liberazione, in assoluta fedeltà allo spirito che ne ha dettato gli articoli”.