Gustavo Zagrebelsky, classe 1943, docente, giurista, giudice costituzionale e poi nel 2004 Presidente della Corte Costituzionale, saggista. Una lunga conversazione nel suo studio presso il Campus universitario di Torino sulla riforma, la legge elettorale, l’equilibrio dei poteri, il distacco crescente fra cittadini e istituzioni. Ne emerge un quadro realistico e inquietante: “Se la partecipazione politica si riduce ai propri interessi, allora assistiamo ad un crollo della dimensione pubblica. È la privatizzazione dei poteri politici di cui la corruzione è figlia”.
Sono state apportate alcune modifiche alla riforma del Senato. Secondo lei ne hanno cambiato l’impianto complessivo oppure, nelle sue linee principali, l’hanno lasciata inalterata?
L’impianto è rimasto quello che era in origine: ciò vorrà dire che non avremo più una Camera e un Senato paralleli, con uguali poteri. La Camera dei Deputati, da sola, sarà chiamata a revocare la fiducia al governo e la legislazione sarà per lo più monocamerale. Rimarranno delle possibilità d’intervento del Senato per quanto riguarda alcuni provvedimenti legislativi. Ad esso inoltre spetterà il ruolo di raccordo tra istituzioni europee e locali. Parole, parole, parole. Questa riforma è un’orgia di parole, le cui conseguenze non sono immaginabili. Per esempio, cosa vuol dire che il Senato si occuperà del raccordo con le istituzioni europee? Quali saranno le procedure, quali saranno i poteri, che cosa potrà o non potrà fare? E poi, cosa andrò a raccontare ai miei studenti, se io stesso non ho capito di che si tratta?
Certo, se ne coglie il senso generale e cioè quello di svilire e svalorizzare il ruolo del Senato. All’inizio si era addirittura detto di abolirlo; forse sarebbe stata un’operazione più chiara. Ma in Italia non si abolisce mai niente e si creano, come per magia, delle situazioni in cui “una cosa è, ma allo stesso tempo non è più”. Basti pensare alla questione delle province. Inoltre gli stessi luoghi non vengono aboliti: è più facile eliminare l’organo che i suoi uffici, tant’è vero che Palazzo Madama rimarrà, ma i funzionari del Senato saranno accorpati e quelli della Camera in un unico ruolo.
Si è passati dunque da una prima idea che era quella dell’abolizione, ad una seconda in cui il Senato dovrebbe rappresentare le autonomie locali. Il Presidente del Consiglio una volta ha utilizzato un’espressione particolarmente significativa: “Senato gratis”. Come una formula tre per due del supermercato.
Ora è rimasto un organo che dovrebbe costituire un raccordo tra autonomie locali e il potere centrale, ma non si sa se e come funzionerà. Queste ovviamente sono tutte delle ipotesi perché, purtroppo, si capisce ben poco, come si può vedere, ad esempio, sul punto della composizione del Senato, che è quello su cui si era aperta la controversia maggiore. Se l’idea dell’abolizione era stata superata, si poneva il problema di come doveva essere composto. La prima questione è stata: elezione diretta o indiretta? Un’idea era che i consigli regionali eleggessero sostanzialmente chi volessero, ovvero membri dei consigli regionali con elezioni indirette. Su questo punto ci furono grandi discussioni ed opposizioni. La minoranza del Pd per esempio invocava le elezioni dirette per garantire così il rispetto della democrazia. Questo non è del tutto infondato perché, dal momento che il Senato partecipa all’attività legislativa ed è invitato ad eleggere il Presidente della Repubblica ed i Giudici Costituzionali, è un bene che chi compone questo organo abbia una matrice democratica. Dopo grandi discussioni alla fine si è trovato un compromesso, l’articolo 2: dei 100 componenti del Senato, di cui 95 sono scelti dalle Regioni, 21 devono essere sindaci. Gli altri 5 invece verranno nominati dal Presidente della Repubblica.
Le idee iniziano a confondersi quando si pensa a come verranno nominate queste persone. Ci sarà bisogno di una legge elettorale del Senato che affronterà la questione, ma questa non è ancora prevista e nessuno sa che cosa conterrà.
Questi 95 membri saranno eletti dai consigli regionali “in conformità” alle scelte espresse dagli elettori. Cosa vuol dire? In primo luogo “in conformità” è un concetto molto vago e non vuol dire secondo le scelte degli elettori. Poi gli elettori dovranno essere chiamati ad esprimere delle scelte per il Senato, si dovrà fare una sorta di “listino”.
Se si tolgono i 21 sindaci, per i quali non ci sarà nessun listino, e si dividono i 74 senatori per il numero di regioni, si ottengono circa 3 nominati. Io francamente non riesco ad immaginare un sistema elettorale in cui ogni Consiglio regionale sceglierà i suoi rappresentanti in Senato.
Gli elettori avranno, forse, una scheda in cui dovranno indicare, oltre che le preferenze per i consiglieri regionali, anche delle indicazioni per il Senato. Ma tra chi dovrà essere fatta la scelta? I futuri senatori dovranno essere eletti dai Consigli regionali e non nei Consigli, per cui potrebbe essere eletto chiunque.
A me piacerebbe chiedere agli autori di questa riforma, di provare a spiegarmela con le sue parole. Ecco, vorrei fare lo stesso e chiedere alla signora Ministra di dirmi, con parole sue, cosa dice questa riforma.
Comunque, nella sostanza, c’è stato un depotenziamento del Senato che porterebbe ad una quasi inutilità dell’organo medesimo e, nello stesso tempo, una concentrazione dei veri poteri sulla Camera dei Deputati, ma questo solo apparentemente.
Le posso chiedere di chiarire meglio questo passaggio?
Certo. La legge elettorale, sempre che rimanga, era stata fatta sulla premessa che il Pd avrebbe ottenuto, o al primo turno, con il 40% dei voti, o al secondo, il premio di maggioranza. Questo in base ad una legge fatta quasi ad personam anzi, ad partitum direi. Ora i sondaggi dimostrano come questa previsione rischia di non essere più attendibile, in quanto il Pd sta perdendo consensi all’interno del suo elettorato. Si sta iniziando a dire di riformare la riforma elettorale, prima ancora che essa venga utilizzata.
Tutto questo è assurdo! In democrazia, qual è la legge che più è legata agli interessi del cittadino? La legge elettorale, perché da essa deriva il cittadino come soggetto politico. Cambiando la legge, si modifica anche la sua stessa fisionomia.
Queste leggi dovrebbero essere fatte pensando prima di tutto al cittadino, mentre quello che sta succedendo ora è che vengono fatte per quei partiti che pensano di guadagnarci. C’è una “naturale” tendenza alla strumentalizzazione della legge elettorale. Pare di proprietà dei partiti quando invece dovrebbe essere dei cittadini elettori.
C’è una pronuncia del Consiglio d’Europa che, riferendosi ai Paesi membri sostiene «le leggi elettorali non si devono modificare in relazione alle elezioni che hanno a venire». Questo per evitare proprio quell’inquinamento a cui accennavo prima.
Le leggi elettorali dovrebbero avere il massimo della stabilità e noi invece ci ritroviamo ad averne una, approvata con grandi proclami – «finalmente diventiamo come l’Europa» – che si pensa di modificare ancor prima di metterla in atto. Questa è politica costituzionale demenziale!
Perché qualcuno sostiene che, con questa legge, ci potremmo avvicinare all’Europa?
La formula che viene ripetuta continuamente è «con questa legge elettorale, la sera stessa delle elezioni, i cittadini sapranno chi ha vinto». Le elezioni si possono vincere o perdere, ma cosa vuol dire in una democrazia? Vincere o perdere significa avere più voti degli altri o avere più voti del passato. Detto nel nostro contesto, fa venire in mente un motto di tanti anni fa quando qualcuno dall’alto di un balcone si presentava alla folla dicendo «vincere, e vinceremo». Ora, la democrazia non è una guerra.
Nella democrazia c’è un partito che si presenta alle elezioni, vince e così facendo si assume le responsabilità del Governo. È una cosa un po’ diversa dalla vittoria in una guerra, in cui un nemico viene sconfitto. La base della democrazia non è lo spegnimento degli altri, ma il confronto, la discussione, la dialettica tra le varie parti in campo. In questo concetto si riassume un’idea politica di una rozzezza e di una pericolosità notevoli. La vittoria dei partiti, essendosi personalizzati, sarebbe quella del capo del partito. Inoltre, altra cosa inammissibile è l’unione nella stessa persona di due ruoli come quello di Segretario di partito e di Presidente del Consiglio. Questa è un’alterazione notevole della democrazia. I partiti dovrebbero essere delle aggregazioni sociali che non si confondono con gli organi costituzionali. Se si mescolano, si corre il rischio che gli interessi del partito si trasfondano direttamente in politiche delle istituzioni e così viceversa, i poteri delle istituzioni vengono utilizzati per controllare i partiti. Questo non dovrebbe accadere in una democrazia dove le istituzioni dovrebbero avere un loro ethos, una loro autonomia, delle regole di comportamento e d’imparzialità.
Passiamo all’equilibrio dei poteri: data la riforma del Senato e la nuova legge elettorale, è ragionevole temere un accentramento dei poteri nell’esecutivo? Se sì, perché e in quale misura?
Certamente. Ho appena scritto un libro in cui sostengo che stiamo passando da un’epoca parlamentare, ovvero da una forma di governo in cui la politica aveva luogo nel Parlamento, ad un epoca esecutiva. Quando si prenota un biglietto su di un treno Frecciarossa, i vagoni più chic, quelli che una volta erano la prima classe, come si chiamano? Executive. Perché a nessuno è venuto in mente di chiamarli Legislative? È un segno culturale dei nostri tempi!
Siamo in un momento in cui c’è bisogno di agire, di azione, e l’esecutivo è funzionale a questo. Bisogna essere efficienti. La riforma della scuola dell’epoca berlusconiana, quella delle famose “tre i”: inglese, impresa, informatica andava già in questa direzione. Il modello che emerge è prettamente esecutivo e internazionalizzato. Se guardiamo a quello che succede nel mondo, c’è una spinta a comprimere tutte le funzioni democratiche e parlamentari nell’esecutivo. Le “tre i” a cui accennavo prima sono dominate da una “f”, la Finanza, ed essa non è compatibile con la democrazia così come l’abbiamo concepita fino ad ora.
L’interpretazione di quello che sta succedendo ora in Italia è un allineamento dei poteri politici all’esigenza di sopravvivenza di un mondo dominato dall’economia finanziarizzata. Un documento di una delle maggiori banche inglesi, la JP Morgan, rivolto ai Paesi usciti dalla Seconda guerra mondiale e che si sono dati delle Costituzioni democratiche, sostiene per sommi capi «meno partiti politici, riduzione dei poteri dei sindacati, controllo del diritto di sciopero e rafforzamento dei poteri nell’esecutivo».
E se si pone l’attenzione a tutti gli esecutivi d’Europa, i posti chiave sono tenuti da ministri che provengono dal mondo della finanza. Questo è talmente chiaro che limitarsi ad opporsi alle riforme costituzionali, lamentandosi che la formuletta dell’articolo tale non ci convince, senza guardare al significato complessivo, è come guardare il dito e non la luna.
Le ragioni per cui opporsi sono più profonde. Le riforme di cui stiamo parlando sono come degli iceberg: quel poco che si vede nasconde un piano più generale e complessivo. Bisognerebbe opporsi alla globalizzazione e alla finanza incontrollata.
Questo sistema garantisce la pace, la giustizia tra le categorie sociali, garantisce il rispetto degli equilibri della natura? Palesemente no. Anzi, dal momento che è molto probabile che questo sistema sia sottoposto continuamente a critiche e inceppamenti, ecco che la necessità di ricorrere a governi esecutivi. Il no a questa riforma abbraccia un rifiuto più complessivo e generale. Non c’è in ballo soltanto il Senato, ma ben di più. Rispetto a quello che succede nel mondo, potremmo abolire anche il Senato e non pensarci più. La vera posta in gioco è altra.
Viviamo in un mondo in ebollizione che straripa d’ingiustizie che sono determinate da uno sviluppo economico che si pensa illimitato.
Proprio in questi giorni abbiamo di fronte due emblemi: da un lato le bidonville delle grandi città africane che il Papa sta visitando, dall’altro la COP21, la Conferenza Mondiale sul Clima di Parigi che si dovrebbe occupare del contenimento delle emissioni globali.
Questo sviluppo è un vettore di ingiustizie planetarie. Ogni volta che si sfrutta qualcuno, c’è qualcun altro che ci guadagna. In questo contesto le distanze sociali sono destinate ad aumentare. Siamo seduti su un vulcano; nei prossimi tempi qualcuno cercherà di tenerlo a bada, sotto controllo con governi esecutivi, ma prima o poi è destinato ad esplodere.
Nelle ultime tornate elettorali, che si tratti di amministrative, politiche o europee, un dato rimane costante: l’aumento dell’astensionismo degli italiani alle urne. A suo avviso le riforme istituzionali aiuteranno il ritorno degli elettori alle urne o renderanno ancora più pesante il distacco fra cittadini ed istituzioni?
Credo che ormai siamo fuori tempo massimo per vari problemi, tra cui il distacco fra cittadini e istituzioni e fra elettori e partiti politici. Purtroppo si è giunti al punto in cui il discredito dei partiti ricade in discredito delle istituzioni. I cittadini non riescono, giustamente, a distinguere le istituzioni dai partiti.
Nei prossimi giorni verranno eletti tre giudici della Corte Costituzionale. I nomi che sono stati proposti provengono rispettivamente dal Pd, da Forza Italia e dal Nuovo Centro Destra, il partito di Alfano.
La scorsa settimana ero a Roma alla Camera dei Deputati e, nei corridoi, ho incontrato dei Deputati. Tutti mi hanno detto che le elezioni di questi tre giudici si giocano sul seguente criterio: la loro posizione sulla riforma elettorale e il Job Act. È chiaro che, all’interno della Corte Costituzionale, ci sono 5 giudici eletti dal Parlamento e quindi con una specifica connotazione di partito, ma non è mai accaduto che si dicesse così platealmente. È una cosa di una gravità inaudita. I cittadini certo non hanno nessuna idea di cosa voglia dire il singolo episodio ma, nell’insieme, l’immagine che ne risulta è quella di un super potere dei partiti, con una loro facile degenerazione.
Quindi, che dire ai cittadini che non si recano più alle urne?
Una volta si diceva che l’astensionismo era il prodotto dell’antipolitica e di un ragionamento che faceva i politici delle figure corrotte. Il che costituisce la prima fase del populismo di massa.
La seconda, ancora più grave, è l’associazione politici-inutilità. Questo perché nelle istituzioni non si producono più idee politiche. Ma la politica non è esecutività, da che mondo è mondo è la possibilità di scegliere orizzonti diversi e visioni della società e del mondo differenziate.
Ora quelli che sono motivatissimi ad andare a votare, sono coloro che dall’esito delle elezioni traggono qualche beneficio o maleficio, a seconda che si vinca o si perda. Questo è il punto. Se la partecipazione politica si riduce a questo, ovvero ai propri interessi, allora assistiamo ad un crollo della dimensione pubblica. È la privatizzazione dei poteri politici di cui la corruzione è figlia.
Il punto su cui mi premere insistere è questo. Tutti dicono che viviamo nell’epoca della globalizzazione e questo è vero, ma la globalizzazione si sta dimostrando una forza benefica rispetto alla giustizia, alla pace e agli equilibri della natura? A voi l’ardua sentenza!
Marta Belotti, freelance collaboratrice del periodico online Nuova Società
Pubblicato mercoledì 2 Dicembre 2015
Stampato il 04/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/idee/copertine/zagrebelsky-quel-pasticciaccio-brutto-della-riforma-del-senato/