Nel lessico, spesso astruso, della politica italiana, circola da qualche tempo l’aggettivo “differenziato”. Si riferisce al regionalismo, intendendo la possibilità, da parte di alcune Regioni, di usufruire di un particolare status che le caratterizzi rispetto alle altre. Chi richiede tale “differenziazione” si riferisce al 3° comma dell’articolo 116 della Costituzione che, in calce ai precedenti che disciplinano le Regioni a statuto speciale e le Province autonome, recita così: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia (…) possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali (…). La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”.

Nel 2017 si svolsero due referendum consultivi in Veneto e Lombardia promossi dai rispettivi organismi regionali per avere il via libera dei loro elettori in merito all’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia. Tale via libera fu (ovviamente) conseguito. Diverso è stato l’iter per la Regione Emilia Romagna, ove non si è svolto il referendum ma si è costruito – viene sostenuto – “un progetto condiviso”.

È dell’11 luglio una dichiarazione di Carla Nespolo, presidente nazionale dell’Anpi, in cui si afferma che “pur prendendo atto di differenze profonde – per quello che si può sapere sino ad oggi – fra i progetti di autonomia differenziata del Veneto e della Lombardia rispetto all’analogo progetto dell’Emilia Romagna, essi presupporrebbero più poteri alle Regioni che lo richiedono, un trasferimento di competenze su una vastissima gamma di temi, fra cui scuola, sanità, trasporti, ambiente e potrebbe prevedere, almeno nelle intenzioni di alcune Regioni, particolari e consistenti vantaggi economici per alcuni territori, sancendo così, giuridicamente e non soltanto come situazione di fatto cui rimediare, un’Italia a due o più velocità”. Carla Nespolo prosegue denunciando che “dopo un secolo di lotte per il riequilibrio fra sud e nord – la cosiddetta “questione meridionale” – si sancirebbe l’abbandono dell’obiettivo del riequilibrio lasciando il Mezzogiorno al suo destino. In concreto questo vorrebbe dire definire per legge la diseguaglianza territoriale dei diritti dei cittadini e marginalizzare le funzioni dello Stato, mettendo a repentaglio elementi costitutivi dell’unità e dell’identità nazionale”. Su questo periodico ha recentemente scritto a proposito del regionalismo differenziato il costituzionalista Massimo Villone .

In questi giorni la discussione è approdata in sede di Consiglio dei ministri rivelando fra i due partiti di maggioranza differenze e fratture che si aggiungono alle tante tensioni che da tempo stanno avvelenando la vita del governo.

È un quadro ancora confuso, ma davvero inquietante anche considerando la cappa di silenzio che ha a lungo coperto le trattative fra le Regioni interessate e il Ministero per gli affari regionali e le autonomie. Ciò che appare infatti allo stato delle cose è riassumibile nel fatto che, se passassero i progetti di autonomia differenziata, i diritti dei cittadini varierebbero a seconda dei territori di residenza ed alcune istituzioni simbolo dell’unità e dell’identità nazionale, come (ma non solo) la scuola, perderebbero tale caratteristica. La reiterata declinazione dello slogan “Prima di tutto gli italiani” svanirebbe così nelle antiche nebbie padane, quando si evocavano secessione e differenze etno-antropologiche fra sud e nord, con tutto l’armamentario mitologico che ne conseguiva ed i corrispondenti auspici (“Forza Etna” e “Forza Vesuvio”, tanto per capirci).

Una istruttiva immagine di “tifosi” allo stadio

Dall’unità d’Italia in poi il Paese è stato segnato da un gap mai risolto, la condizione di minorità del Mezzogiorno, e dai ripetuti quanto falliti tentativi di dare soluzione positiva a tale questione. La questione meridionale, insomma, per un secolo è stata considerata la grande questione nazionale. Da tempo su questo tema è piombato il silenzio, peggio, la rimozione, intervallata da parole tanto nobili quanto di circostanza. L’esito è noto: le differenze fra sud e nord da ogni punto di vista – insediamenti industriali, occupazione, servizi, reddito pro capite – sono rimaste pesantissime e spesso la forbice è aumentata. Forse solo in un caso tali differenze hanno teso ad appianarsi, ma in negativo: nelle sue varie espressioni il fenomeno mafioso, che prima sembrava limitato ad alcuni territori e ad alcune regioni, si è diffuso come una contaminazione batterica investendo ampie zone del nord del Paese.

Tutto fa pensare che un’attuazione scriteriata dell’autonomia chiuderebbe definitivamente la contesa nord-sud: il nord avanti come “unità territoriale di business” – così teorizzava a cavallo del secolo scorso un “filosofo” americano del neoliberismo – e il sud al palo. Dunque la questione meridionale, dopo un secolo di battaglie, di riflessioni e di progetti, verrebbe definitivamente derubricata (per legge) dall’agenda politica con una sola, drammatica conclusione: il definitivo abbandono di un terzo del territorio del Paese. “Se la sbrighino loro”. Il che vuol dire ulteriore aumento delle diseguaglianze, diminuzione della coesione sociale e territoriale, cioè ciò che ci rende consapevoli cittadini dello stesso Stato nazionale.

A ciò si aggiungono le riforme costituzionali in corso, nonostante lo scarsissimo dibattito in merito e la conseguente sostanziale assenza dell’opinione pubblica. Afferma sempre Carla Nespolo: Viene svilita la funzione del Parlamento: sia a causa del numero di parlamentari troppo limitato rispetto al numero di abitanti, con ulteriori effetti negativi sulla reale rappresentatività dei parlamentari, sia per la configurazione di un istituto referendario concorrenziale col Parlamento e non integrativo delle funzioni di Camera e Senato, sia infine per lo svuotamento dei poteri delle Camere e, più in generale, dello Stato rispetto ad alcune Regioni”. La riduzione del numero dei parlamentari infatti, che pure sembra cosa innocua e per alcuni aspetti ragionevole, darebbe all’Italia rispetto agli altri Paesi europei il non invidiabile primato del più alto rapporto fra numero di abitanti e numero dei deputati. Oggi il rapporto è di un deputato ogni 96.006 abitanti. Con la riforma il rapporto diventerebbe di un deputato ogni 151.210 abitanti. Più alto di tutti gli altri Paesi europei (fonte: dossier del Senato e della Camera del 25 giugno 2019). Il che vuol dire diminuire ulteriormente la capacità reale di rappresentanza dei deputati, ciascuno dei quali avrebbe da seguire un territorio vastissimo, e di conseguenza del parlamento, che a sua volta si misurerebbe con un nuovo istituto referendario propositivo – l’altra riforma costituzionale in corso –, “in concorrenza” con le competenze e i poteri parlamentari. Ma, ancora sulla eccessiva riduzione del numero dei parlamentari, grida vendetta (democratica) l’argomento principe sostenuto per tale riduzione: “risparmiamo 500 milioni di euro”; a parte la fantasiosa cifra, vien da dire che se sciogliamo il parlamento va da sé che risparmiamo molto di più. In realtà questa filosofia nasconde un’idea ostile alla democrazia rappresentativa, cioè quella disegnata dalla Costituzione, a favore di una fumosa e inconcludente democrazia diretta che, gratta gratta, depotenziando gli organismi rappresentativi, corre spesso il rischio di ridursi al trampolino di lancio di avventure con un uomo solo al comando.

Palermo, una recente manifestazione (in realtà quattro gatti)

L’insieme di questi provvedimenti – riforme costituzionali e modifiche legislative in merito al regionalismo differenziato – avrebbe un effetto straordinariamente depressivo rispetto al ruolo del parlamento, già da tempo (e oggi in particolare) segnato da una pratica abnorme, tanto tollerata quanto illegittima, di voti di fiducia, e al ruolo dello Stato, sempre più “minimo”, cioè svuotato di poteri e di competenze, e sempre più “ringhioso” (spesso le due cose stanno assieme) perché ridotto prevalentemente a propagandistiche operazioni di polizia contro invasioni, nemici alle porte, islamizzazioni, del tutto immaginarie e strumentali, in mancanza di una seria politica per l’immigrazione.

Insomma, più passa il tempo più lo slogan “prima gli italiani” si dimostra una favoletta nazionalistica che nasconde l’inesistenza di qualsiasi piano di sviluppo economico e industriale del Paese (di tutto il Paese), l’aumento delle diseguaglianze sociali e civili, lo sfilacciamento del tessuto unitario della penisola. Eppure, dice la Costituzione, “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. “È compito” vuol dire che c’è l’obbligo di farlo. Ma si va dalla parte opposta.

Il governo – si dice – è tenuto assieme da un “contratto”. Sia pure. Ma si sappia che c’è un “contratto” di valore giuridico, politico e morale incommensurabilmente superiore; è il contratto che ci tiene assieme e che ci fa – questo sì! – italiani, ed orgogliosi di essere tali. Si chiama Costituzione. C’è una grande parte del Paese, spesso silenziosa, delusa, spaesata, ma vivissima e pronta a mettersi in moto davanti all’emergenza, che non si fa incantare dai canti delle sirene che vanno e vengono, che a questo contratto, quello vero, che ci fa popolo, ci tiene come alla pupilla dei suoi occhi. E intende realizzarlo.