Si è aperto (finalmente!) un dibattito sulla seduzione che i neofascisti evocano nei confronti di una parte delle giovani generazioni. Certo, questo dibattito emerge carsicamente, ma sta con fatica assumendo una forma.

Un merito ce l’ha senza dubbio l’inchiesta pubblicata su questa testata il 19 dicembre dell’anno scorso (http://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/inchieste/la-galassia-nera-su-facebook/) e che continuiamo a riproporre. Di grande valore è a questo proposito la lettera aperta della Presidente della Camera all’amministratore delegato di Facebook (http://www.patriaindipendente.it/idee/copertine/pagine-neofasciste-che-fa-facebook/).

Il problema del neofascismo “virtuale” è tutt’uno con quello del neofascismo “reale”, e riguarda in particolare le nuove generazioni. Al punto che su Repubblica del 13 febbraio lo scrittore Paolo Di Paolo scrive un articolo dal titolo “Nostalgici a sedici anni. Crescono in rete i liceali neofascisti”: “Abituati a non stupirci più dell’alta marea di violenza e volgarità che inonda i social, rischiamo di lasciare senza argini un contagio pericoloso”.

Dieci giorni dopo gli risponde con sarcasmo dalle pagine del Foglio lo storico Dino Cofrancesco che contrappone una lunga citazione di Renzo De Felice: “Certo, la classe dirigente fascista era illiberale. Ma siamo sicuri che fosse, per tutto il resto, tanto peggiore di quella attuale?”, e aggiunge di suo pugno: “Se un giovane liceale, dopo aver letto queste parole (…) si facesse l’idea (giusta o sbagliata, non importa) che, forse, non è vero che oggi si sta meglio di ieri e che anche all’Italia del XXI secolo occorre una cura d’urto – come nel 1922 – quale sarebbe la reazione dei Di Paolo?” (il corsivo è mio).

Quanto basta per aggiungere, alla relativa soddisfazione di una discussione che si apre, una nuova – e non piccola – inquietudine. Riesumare l’infelice paragone di De Felice (scusate il bisticcio) fra la classe dirigente fascista “illiberale” e quella attuale è sconcertante: quella classe dirigente era illiberale. Vi pare poco? Aggiungiamo: nacque e si formò nel turbine delle violenze squadristiche, propose e sostenne le avventure coloniali (o paracoloniali) che furono teatro di terribili efferatezze nei confronti dei popoli dei Paesi invasi (per esempio in Abissinia, in Libia, in Jugoslavia), approvò le leggi razziali, portò l’Italia nel girone infernale della guerra di Hitler. Ancor più sconcertante è minimizzare la “cura d’urto, come nel 1922”, cioè la marcia su Roma. Siamo al panegirico della “illiberalità” e delle sue manifestazioni estreme?

Altra cosa è indicare l’inadeguatezza dell’attuale classe dirigente e, proprio a partire da tale inadeguatezza, sottolineare i rischi che corre oggi la democrazia nel nostro Paese. Altra cosa ancora è cercare di interpretare lo spirito del nostro tempo e la sua ricaduta sulle giovani generazioni. Fra i due fenomeni c’è – mi pare – un nesso.

Oggi è cresciuta una visione critica e consapevole dell’epoca della Resistenza; una visione in base a cui, non nascondendo gli errori, ci è stata consegnata un’idea di Resistenza molto più ampia e di qualità di quanto non fosse in passato: non solo militare, ma anche sociale e civile, non solo al nord, ma anche, nelle sue peculiarità, nel Mezzogiorno, non solo al maschile, ma rendendo giustizia al ruolo essenziale di decine di migliaia di donne.

Assieme, però, è cresciuta un’indifferenza sui valori, una visione tartufesca che tende a mettere sullo stesso piano fascismo e antifascismo (se non addirittura a far prevalere il primo sul secondo), una bonomia nei confronti del ventennio alle volte tollerante, altre apologetica. Un lungo percorso, iniziato con il cosiddetto “sdoganamento” dell’estrema destra all’inizio degli anni 80, continuato in mille modi nei tempi successivi (basti pensare alle ricorrenti equiparazioni fra i partigiani e i “ragazzi di Salò”), ribattezzato ed esteso con i governi Berlusconi (e con Pera presidente del Senato), pienamente iscritto in una rivoluzione di valori avvenuta negli ultimi decenni (individualismo, culto dell’eroe, mistica dell’azione, privilegio della violenza, nuova “normalità” della guerra) e precipitato negli ultimi anni per il ferale connubio fra questi cambiamenti e gli effetti sociali ed esistenziali della crisi economica, sui quali varrebbe la pena soffermarsi andando oltre gli effetti pur drammatici di tipo economico (disoccupazione, distruzione del welfare, lavoro sottopagato, e così via).

Il problema oggi è il senso comune delle giovani generazioni, la loro cultura di base, la loro solitudine sociale, l’effetto moltiplicatore della nuova agorà: i social network. Su questo terreno seminano i neofascisti. L’“ideologia” che veicolano non è solo il vetusto apparato propagandistico del fascismo storico; è un nuovo apparato, contiguo a quello del passato, incardinato su alcune questioni: un’idea comunitaria più o meno tribale ma che si presenta come una sedicente alternativa alla dissoluzione dei legami sociali praticata dall’attuale sistema economico-produttivo; un’idea di nemico che quasi sempre coincide con chi sta peggio di te; un castello di valori territoriali e “trascendenti”, che aggiornano al tempo della globalizzazione l’antica retorica di “sangue e terra” col ritorno di riti e culti nazionalistici. Questo apparato è sostenuto da una pratica sociale collegata alle più svariate forme di volontariato (protezione civile, messa in sicurezza del territorio, riqualificazione del degrado urbano e così via), da un imprinting culturale neofascista (o neonazista) aberrante, ma di una certa efficacia, dall’esistenza di specifici luoghi di aggregazione.

Tutto ciò corrisponde in qualche modo alla ricerca di senso di una parte delle giovani generazioni che hanno visto evaporare il sistema di valori dominante su cui si era sviluppata l’intera società nei decenni precedenti: l’ascensore sociale, il prevalente lavoro a tempo indeterminato, la scuola come formazione complessiva di tipo essenzialmente umanistico, la lingua come espressione ricca e articolata di un pensiero tendenzialmente critico, la solidarietà e la pace come canoni introiettati del convivere civile, il tempo libero come possibilità di socializzare la vita e la cultura. Non ultimo, il postulato dentro cui siamo vissuti dal dopoguerra: il valore assoluto della democrazia come impasto di rappresentanza, partecipazione, spirito critico, capacità di autocorrezione degli errori.

Prima con la caduta del muro di Berlino, poi col dilagare della globalizzazione, le forze democratiche – a ben vedere – su tutti questi terreni hanno cominciato a balbettare, a lasciare spazi sempre più grandi, fino a giungere alla situazione attuale di inerzia, di silenzio, quasi di rassegnazione. In questo autismo della politica (ma anche di grandissima parte della cultura) il virus neofascista e neonazista è penetrato e sta penetrando nel profondo della società: non più solo i pariolini, ma anche i ragazzi di borgata, non più solo squadristi per vocazione, come era negli anni 70, ma giovani “normali”, abbandonati da una società che non riconosce più se stessa perché attua nella quotidianità la teoria della signora Thatcher, secondo cui “la società non esiste: esistono individui, uomini, donne e famiglie”. Uno scenario in cui per alcuni aspetti la stessa democrazia perde di senso e di valore e diventa questione marginale, una sorta di variabile dipendente. Dipendente da che? Dal mercato e dai suoi totem.

Se tutto ciò corrisponde alla realtà, c’è davvero bisogno di un nuovo spirito repubblicano, di un nuovo patriottismo costituzionale, di una critica ad un sistema economico sociale che umilia il valore del lavoro umano e che nega legittimità a qualsiasi alternativa a se stesso. Nella Repubblica e nella Costituzione ci sono gli antivirus contro la peste neofascista e neonazista; questi consistono, certo, nel ristabilimento della verità storica nei confronti delle responsabilità dei fascismi del 900; ma consistono anche in una svolta della politica, dell’economia, della cultura, della scuola, della società. Ecco la ragione dell’urgenza di un grande “ritorno” della buona politica nella cultura, nella società, sul territorio. È vero, una svolta di queste dimensioni non si compie in una settimana. C’è bisogno di una visione d’assieme, di un orizzonte condiviso, di un sistema di valori certo e razionale. C’è bisogno di un grande lavoro delle istituzioni, di un vero riscatto della classe dirigente, di un ritorno pieno e diffuso degli intellettuali – nel senso più ampio del termine – all’impegno sociale e civile. Ma ciò che si può fare subito è avviare questo processo, dare segnali. Di allarme, di controtendenza, di vitalità democratica e partecipativa, di etica repubblicana, di ripensamento profondo della politica su se stessa. In una parola, di progetto, di memoria attiva e di pensiero critico. Già. Ma che svolta? Quanto serve per dare ai ragazzi un senso della vita che non sia di solitudine, emarginazione e disperazione (cioè mancanza di speranza), che sia una promessa di possibile felicità.