“Anno bisesto tutte le cose van di traverso”, “Anno bisesto che passi presto”, “Anno bisestile chi piange e chi stride”: un’antica tradizione di proverbi dipinge gli anni bisestili come particolarmente infausti. Non ci vuol molta fantasia per considerare il 2020 annus horribilis, un tempo che rimarrà nella storia del mondo per la micidiale pandemia con le sue luttuose conseguenza e per la crisi economica i cui effetti traumatici si iniziano appena a percepire.
Sarà un caso, ma è anche l’anno del referendum sulla riduzione del numero di parlamentari. Il ruolo del parlamento è tema essenziale per il corretto funzionamento delle istituzioni democratiche, già sotto stress da tempo: un parlamento che troppe volte si riduce a cassa di risonanza delle decisioni del governo, spesso luogo di inverecondi eventi – vedi, ultimo di una lunga serie, l’espulsione di Sgarbi dall’emiciclo a furor di commessi dopo gli irripetibili insulti ad una sua collega -, eletto da una percentuale sempre inferiore di cittadini. Insomma, un lungo percorso di svuotamento di fatto del ruolo delle Camere come organo della rappresentanza politica in cui si esercita la sovranità popolare. L’origine di tale declino data – più o meno – da quando si sono posti in alternativa, quasi in conflitto, due parole difficili: rappresentanza e governabilità. Che vuol dire rappresentanza? Agire su consapevole mandato di altri, in loro nome. Che vuol dire governabilità? Garantire, dati determinati requisiti, continuità all’azione del governo. Il mantra dominante, oramai da decenni, è stato più o meno questo: la rappresentanza limita, diminuisce, frena la governabilità. Nel mondo d’oggi la governabilità è tutto, ergo potenziamola. Risultato finale: gli elettori si sentono sempre meno rappresentati dal parlamento, ragion per cui cresce l’astensione; la governabilità è spesso in fibrillazione per tutt’altra ragione rispetto alla rappresentanza, e cioè per le contraddizioni o i veri e propri spasmi interni ai partiti che governano. Esempio luminoso come il sole a mezzogiorno: la crisi di governo avviata da Salvini l’8 agosto 2019, quando ha scientemente fatto cadere il suo governo “giallo-verde”, invocando elezioni impossibili, data la chance della formazione di un nuovo governo con un’altra maggioranza. A ben vedere si scopre che la grandissima parte delle crisi di governo degli ultimi decenni è stata causata da scelte politiche del leader o del partito, e non certo da un “eccesso di ruolo” di rappresentanza del parlamento.
Dato tutto ciò, e data la evidente crisi in tutto l’occidente della democrazia e della politica, una persona normale avrebbe atteso provvedimenti seri e ponderati tesi a rafforzare in modo profondo la rappresentanza per restituire fiducia ai cittadini e ruolo al parlamento. Già. Ma qual è il ruolo del parlamento? Il parlamento disegnato dalla Costituzione dovrebbe essere, con uno slogan, “lo specchio del Paese”, cioè il luogo dove si confrontano rappresentanze proporzionali di opinioni e interessi diversi e, tramite il gioco del conflitto e della mediazione, si approvano le leggi.
La domanda essenziale è perciò molto semplice: la specifica riduzione del numero dei parlamentari prevista dalla riforma va in questa direzione o va in direzione opposta? L’opinione dell’Anpi è la seconda. Vediamo perché.
Il parlamento passerà dagli attuali 630 deputati a 400 e dagli attuali 315 senatori a 200. È un taglio di più del 30%, non fondato su alcuna ragionevole analisi e che sembra rispondere esclusivamente a quattro ragioni di propaganda: 1) La riduzione della spesa; una riduzione che consentirebbe un risparmio irrilevante; chi ci dice che domani, col pretesto del risparmio, non si taglino altri strumenti di democrazia rappresentativa? Il punto è che la democrazia ha un costo che in realtà è un investimento a favore della rappresentanza. Un conto è ridurre con buon senso spese superflue, altro conto è tagliare spese necessarie. Se non compro più sigarette, oltre al risparmio, ne guadagnerà la mia salute. Ma se non pago la bolletta della luce, fino a prova contraria mi tagliano la corrente. La “riduzione dei costi” come valore in sé è uno dei tanti flatus vocis dell’antipolitica, il cui risultato è il rischio di un pericoloso scivolamento verso l’antidemocrazia; 2) La campagna contro la “casta”, generica accezione qualunquista che mette sotto accusa il parlamento in quanto tale. Da qualche decennio la politica in generale e il parlamento in modo specifico sono identificati come il brodo di coltura della “casta”, fruitrice di immotivati privilegi e sproporzionati emolumenti. Da un lato una casta politica dipinta come brutta e cattiva, dall’altro interi segmenti sociali con redditi stratosferici e privilegi da milleeunanotte coperti da un muro di silenzio (meglio non far nomi per carità di patria). In altri termini: quando esplodono le diseguaglianze (cioè oggi) si difende una struttura sociale rigorosamente classista, cioè che conserva ed esalta le diseguaglianze, e si offende una struttura della rappresentanza politica invece di restituirle la sua funzione costituzionale. Tutto ciò non è nuovissimo: le polemiche contro il “parlamentarismo” affondano nei tempi del secolo scorso e hanno storicamente aperto un varco nel bastione della democrazia. 3) L’Italia è il Paese con più parlamentari d’Europa. Troppe poltrone. Del tutto falso. Nei Paesi Ue l’Italia, rispetto al numero di abitanti, ha un numero di deputati medio-basso, più di Francia, Olanda, Spagna e Germania, e meno di tutti gli altri 22 (ventidue) Paesi (fonte: Dossier degli uffici studi di Camera e Senato del 7 ottobre 2019). 4) Meno parlamentari, così il parlamento sarà più efficiente. Dipende da cosa intendiamo per efficienza. Il parlamento non è un’impresa. L’Italia reale sarà meno rappresentata. Un solo esempio: a rischio di scomparsa le minoranze linguistiche. Non solo: sarà più precario e macchinoso il funzionamento delle Commissioni e degli altri organi delle Camere.
Andiamo avanti. Mentre prima si contavano 96.006 abitanti per deputato, con la riforma si conteranno 151.210 abitanti per deputato. L’Italia diventa il Paese Ue col più alto numero di abitanti per deputato. Sarà ovviamente più difficile rappresentare un numero così elevato di cittadini.
Intendiamoci: una ragionevole riduzione del numero dei parlamentari potrebbe in linea di principio essere accettabile, purché motivata, limitata e congruente. Non è questo il caso.
In sostanza tale riforma non rende il Parlamento più rappresentativo, non restituisce fiducia ai cittadini, letica la “pancia” degli odiatori professionali (quelli che odiano la politica, il parlamento, il confronto, il conflitto, la composizione), apre problemi complicatissimi: occorrerebbe una contestuale nuova legge elettorale che salvaguardi per quanto possibile i partiti minori dalla loro cancellazione, e perciò una legge proporzionale. Si parla di uno sbarramento del 5%. Con questo sbarramento nella storia italiana il Pri di La Malfa – partito piccolo ma fortemente rappresentativo nel Paese dei primi decenni del dopoguerra – difficilmente sarebbe entrato in parlamento. Ma occorrerebbero anche nuove norme per l’elezione del Presidente della Repubblica. Art. 83 della Costituzione: “Il Presidente della Repubblica italiana è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri. All’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze”. Se il parlamento passa da 965 membri a 600 membri con tre delegati per regione si scombina il potere di elezione: meno potere il parlamento, più potere le Regioni. Detto per inciso: non pare che l’attuale attribuzione di poteri alle Regioni abbia rappresentato il modo migliore per contrastare la pandemia (ma questa è un’altra storia).
In breve: il parlamento italiano ha un problema, e cioè l’urgenza di riconquistare la sua centralità attraverso un più forte ruolo di rappresentanza ed uno sganciamento dalle decisioni del governo (decreti legge, mozioni di fiducia). La riforma peggiora la situazione ed aggiunge problema a problema.
Infine: con i soliti anglismi che stanno butterando la lingua italiana, si andrà all’election day. Il votare assieme per una importante modifica della Costituzione che avrà effetti permanenti sulla vita istituzionale e per un composito turno di elezioni regionali e amministrative, cioè l’esercizio ordinario della democrazia rappresentativa, è una evidente diminuzione del valore della scelta referendaria. Il voto referendario sarà trascinato dal voto delle amministrative e delle regionali, diventando una specie di cenerentola della tornata elettorale. Sarà irrealizzabile promuovere nel Paese una riflessione seria sul ruolo del Parlamento e della politica oggi quanto mai urgente, per evitare che scelte di questo peso siano decise in modo superficiale. Il cittadino sarà di fatto privato del diritto di informare ed informarsi, e di conseguenza la sua scelta sarà condizionata. Per questo l’accorpamento della votazioni, diventato legge a metà giugno, sembra un grave errore e una irrimediabile forzatura.
Conclusione: con la riforma si appanna ulteriormente l’immagine del parlamento come luogo dove esercitare il pluralismo della rappresentanza ed il virtuoso conflitto fra interessi sociali diversi. Bene sarebbe invece ricominciare da una riforma del sistema politico in attuazione dell’art. 49 Cost. (“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”), affinché i partiti diventino fucine di idee e di progetti di trasformazione, il cittadino torni a riconoscersi nel parlamentare eletto, il parlamento torni ad essere specchio delle contraddizioni sociali del Paese e luogo della mediazione. La crisi indotta dagli effetti della pandemia ci racconta che il tempo sta scadendo, che la fiducia nelle istituzioni è a fondamento della loro credibilità, e assieme che l’intervento pubblico è garanzia della coesione sociale e della tenuta democratica. Ma ci dice anche dei gravi pericoli che corre la democrazia, come insegna la deriva autoritaria di tanti Paesi.
Con la demagogia non si va da nessuna parte. Ci aspettano mesi pesantissimi che avranno come oggetto le condizioni di vita di milioni e milioni di donne e di uomini. In questo scenario sta a tutti noi riprendere, con pazienza e serenità, il filo di una discussione che, a partire dai temi della lotta alle diseguaglianze, ponga al centro la questione della rappresentanza e del ruolo del parlamento come luogo di difesa del lavoro e del reddito. Perché in parlamento si rappresentano gli interessi. Ed è bene oggi che si difendano in primo luogo gli interessi dei lavoratori, dei più poveri, dei ragazzi a tempi determinato, dei ceti medi decaduti, dei disoccupati.
Annus horribilis, questo 2020!
Pubblicato venerdì 3 Luglio 2020
Stampato il 05/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/idee/editoriali/lannus-horribilis-e-il-referendum/