Oggi è presidente dell’Associazione ex parlamentari, nonché di Animi, l’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia, un sodalizio che ha visto alla sua guida uomini del calibro di Pasquale Villari, Giustino Fortunato, Benedetto Croce, solo per citarne alcuni. In un’era politica precedente, quella che passa sotto il nome di Prima Repubblica, è stato ministro, presidente del gruppo parlamentare, segretario e poi presidente del Partito popolare italiano, parlamentare europeo, direttore del quotidiano Il Popolo. L’elenco è lungo. Due cose ancora vanno però ricordate: è lui che nel 1995 si oppone con forza alla deriva destrorsa che Buttiglione intende imprimere al Ppi ed è uno dei padri fondatori dell’Ulivo di Prodi. Un intellettuale e politico a tutto tondo Gerardo Bianco. Di quelli che nel mondo politico attuale sono rari. Con lui proviamo a ragionare sul presente del Paese. Un presente su cui le critiche sono nette, perché, dice, “se non mi sentirei di bocciare radicalmente le scelte sul piano economico e sociale del governo Renzi, sul piano istituzionale il mio giudizio e assolutamente negativo e preoccupato. La riforma del Senato è un pasticcio. Allora meglio sarebbe stato abolirlo del tutto. Perché così avremo un organismo sì senza grandi poteri ma che ciononostante finirà per alimentare una pericolosa conflittualità istituzionale”. Svuotamento delle assemblee legislative da una parte e crisi dei partiti dall’altra, “rischiamo di farci scivolare verso una democrazia autoritaria. Bisogna però intendersi: nulla nasce per caso, la situazione attuale è figlia del passato recente”. E per riannodare i fili di questo passato il vecchio politico democristiano risale indietro di venti anni, al biennio 1992-1994, “che rappresenta un punto fondamentale di svolta nella vicenda politica, e non solo, italiana”.
Uno dice ′92-′94 e subito il pensiero corre a Tangentopoli, alle monetine contro Craxi davanti al Raphael di Roma.
Lo so, eppure, a mio avviso, si tratta dal punto di vista storiografico di una alterazione di valutazione. Perché se si entra nel merito delle questioni e nel merito dell’attività politica svolta tra il 1992 e il 1994 ci si accorge che i partiti storici, quelli che hanno costruito la Repubblica e la democrazia italiana, assolsero fino in fondo il loro compito. Non è un caso che i due governi appoggiati dalla Dc e, sia pure in maniera oscillante, dal partito erede del Pci, il Pds – parlo dei governi Amato e Ciampi – passino come due tra i migliori governi della Repubblica italiana. Invece di dare giudizi storici per sentito dire e seguendo le vulgate, o come diceva un grande filosofo, Francesco Bacone, gli idòla tribus e gli idòla fori, si andasse a studiare la storia del biennio ’92-’94; ci si accorgerebbe che ci si trova di fronte ad uno dei momenti più alti di azione politico-parlamentare. Anche perché i partiti si erano ritirati dall’occupazione del potere mettendo mano agli squilibri finanziari ed economici. È in quel periodo che si sviluppa anche in parlamento una intensa battaglia per chiarire e per gettare su basi più solide lo stesso discorso della legittimità costituzionale, della legalità e della moralizzazione.
Già, ma tutto questo non basta. C’è un vento che, in nome della sacrosanta moralizzazione, finisce per spazzare via i vecchi partiti politici aprendo le porte al “nuovo”. Incredibilmente Berlusconi si prepara alla fine di quel biennio terribile e intenso a passare all’incasso.
Sì. Questo perché l’opera di rifondazione della democrazia e di ristrutturazione delle forze politiche viene travolta prima dall’offensiva di una magistratura che usciva dalle proprie competenze e che alimentava l’eccitazione di una opinione pubblica bisognosa di cambiamenti e poi da una decisione che non ho mai ritenuto saggia – e la storia mi ha dato ragione – quella cioè di anticipare le elezioni. Fu un errore storico quello commesso allora dal Pds di Occhetto e da chi, insieme a lui, Mariotto Segni, riteneva che andasse cancellata tutta la vicenda storica della Dc, non comprendendo che per uscire fuori dalla crisi ambedue i partiti avrebbero dovuto rigenerarsi ma mantenere l’architettura in base alla quale la Prima Repubblica si era mossa, quella cioè di difendere la struttura istituzionale del Paese, la Costituzione. Mentre invece prevalse la logica di dare il colpo finale al potere democristiano. La gioiosa macchina da guerra si infranse nelle urne e il potere fu consegnato nelle mani di Berlusconi, artefice di una operazione politicamente truffaldina. Con il berlusconismo l’Italia ha perso la memoria, la consapevolezza che la nostra era una storia e una Repubblica fondata sull’antifascismo.
Di lì a poco venne il dibattito sulla pacificazione, sui ragazzi di Salò, che vide protagonisti pure personaggi eminenti della sinistra. Non crede che, al di là delle intenzioni di chi promosse quel dibattito, si aprì allora una pericolosa falla?
Vede, la pacificazione non poteva essere richiamata in assenza del superamento dei miti che avevano alimentato la opposizione antisistema della destra italiana. Perché, mentre la sinistra aveva ormai aderito ai valori occidentali ed europeisti, la destra italiana ed europea era attraversata dai miti del parafascismo. Certo, anche i ragazzi di Salò erano stati ispirati a dei valori, ma quei valori erano antitetici alla costruzione della democrazia italiana. Si poteva riconoscere il valore morale ma non quello politico di chi aveva aderito al fascismo. Berlusconi rappresenta, anche da questo punto di vista, una vera e propria cesura con la storia precedente. E il paradosso lo sa qual è? Che in parte la dissacrazione della storia repubblicana si alimentò anche di una tesi che ha albergato a lungo pure a sinistra: la tesi cioè del doppio stato. Se, insomma, la storia repubblicana era una storia solo esteriormente corretta, ma in realtà quella vera e nascosta era una vicenda criminale, si poteva e doveva cancellare senza tanti rimpianti. La criminalizzazione di Giulio Andreotti, che pure non ho mai amato e seguito, è in qualche misura l’emblema della teoria del doppio stato.
A quella subcultura della destra si dette una risposta forte e purtroppo sfortunata con la nascita dell’Ulivo. Che è figlio a ben vedere, non già degli uomini nuovi ma della classe politica del passato, quella cresciuta con i valori della Resistenza e della Carta del ’48.
I due partiti che venivano dalle ceneri del Pci e della Dc capirono che il compito era quello di ricostruire una democrazia che riprendesse il percorso del passato sulle grandi idee riformatrici. Una visione rigorosamente e fortemente europeista, la politica come servizio, il welfare non come assistenzialismo, ma come costruzione di una società più giusta ed equa: l’Ulivo è questo. E il suo punto forte era che i partiti che lo componevano non perdevano la loro identità. Proprio nel momento in cui si potevano raccogliere i frutti, l’Ulivo affonda. Subentrarono nella vicenda politica due elementi dissociativi: uno, quello della competizione e della gelosia nell’ambito della sinistra, con i Ds preoccupati di Rifondazione e il Prc che ripropone i suoi schemi senza rendersi conto che così si favoriva la destra. E poi c’è un altro elemento pericoloso che nasce dall’interno e corrode il sistema: la cultura politologica si va sostituendo alla politica.
Cioè?
Nascevano allora gli schemi astratti, quelli che avevano già ispirato la politica referendaria di Segni: l’idea che i vecchi partiti avevano esaurito la loro funzione e che bisognava fare la grande fusione, fusione a freddo, invece di consentire che ciascuna forza – all’interno di una cornice unitaria quale era appunto l’Ulivo – proseguisse il processo di rielaborazione politico-culturale. Risultato: si spogliano le culture politiche e si arriva alla teorizzazione astratta delle forze in campo: tutto diventa politologia, teoria astratta del governo e non evoluzione storica e quindi corposità di azione da parte dei partiti esistenti. Il discorso politico non è più basato su una verifica delle teorie. Si archiviano gli stessi autori oppure si mettono insieme in modo sincretistico. In un certo senso viene fuori che la cosa importante non è l’analisi ma il risultato. La politologia finisce per far prevalere l’aspetto organizzativo rispetto alla evoluzione ed elaborazione politico-culturale. La politica perde l’anima e diventa ossatura esteriore, come una architettura fatta soltanto di pilastri e non di rifiniture. Eppure l’identità di una casa è data dai quadri che ci stanno dentro, da un mobile, da un fiore. E invece ci siamo trovati di fronte alla rivincita della struttura. È così, con questo vizio di fondo è nato il Pd, un partito senza una idea di società, senza nessun chiarimento, nessuna idea di organizzazione istituzionale. Eccoci arrivati all’oggi.
Al Pd di Renzi e alla riforma del Senato?
Renzi in un certo senso è il figlio logico di questa perdita di retroterra culturale di cui parlavo. Non è un caso che si spengano le riviste, rimane un po’ in piedi la elaborazione dei principi economici, ma anche qui l’idea della società giusta, le grandi elaborazioni del pensiero economico, ebbene tutto questo si disperde. Al più si prendono in esame i bilanci. La politica si riflette nel presente. Tutto diventa presente. Il passato viene cancellato e demonizzato. Il futuro non si sa, e in ogni caso è un futuro liquido. Tutto viene ridotto al politicantismo quotidiano. Emerge la leadership personale di Renzi. Ha alle spalle una struttura partitica che ha residuato in parte l’eredità dei vecchi partiti, ma non ha più un’idea di partito e gioca la partita quotidianamente, di volta in volta. Eppure essendo l’unico personaggio che ha il timone in mano tutto sommato è bene che lo tenga altrimenti la zattera chissà dove va a finire.
Mentre le scelte di carattere economico e sociale sono in qualche misura rispondenti alle esigenze della società, laddove il premier si muove su un piano istituzionale, lì siamo completamente fuori strada. In tutta la vicenda delle riforme si introduce una visione paradossalmente economicistica: “dobbiamo ridurre le spese”, “dobbiamo ridurre il costo della politica”. Non, come sarebbe stato augurabile, “dobbiamo organizzare al meglio lo Stato”. È ovvio che con queste basi di partenza viene fuori una riforma completamente sbagliata che determinerà una conflittualità permanente. Perché è evidente che un Senato con scarsi poteri – ma in ogni caso con la possibilità di intervenire su certe materie e richiamare comunque i provvedimenti approvati dalla Camera per un esame – alimenterà il conflitto istituzionale: la logica unitaria del Paese finirà per scontrarsi con le logiche separatrici e localistiche. Il Senato diventerà il controcanto, anche se impotente, della Camera.
Il bicameralismo perfetto andava superato?
Sì, ma c’erano proposte di legge presentate già 40 anni fa sua questa questione. Andavano riprese perché erano molto più logiche. Basti pensare alle proposte di legge ispirate da Leopoldo Elia. Adesso avremo una Camera che non è nemmeno territoriale. E mi permetto di dire che le proposte presentate dalla sinistra del Pd, se possibile, peggiorano la situazione. Nel momento in cui viene fuori un Senato di questo genere, creare anche il fondamento popolare senza che questo fondamento abbia poi un sbocco finisce per rafforzare lo spirito antagonistico del Senato. E non c’è niente di peggio che il mix impotenza-antagonismo.
Aggiungo che la nuova legge elettorale, l’Italicum, che dà un premio di maggioranza alla lista vincente, consegna al leader del partito di maggioranza un potere notevolissimo. Con possibili rischi di una democrazia autoritaria. Lo ha detto perfino il presidente emerito, Giorgio Napolitano, che pure è stato assai generoso nei confronti delle scelte istituzionali del governo.
Quest’anno ricorrono i 70 anni della Resistenza. Quanto pesa la Resistenza nel dibattito politico?
Purtroppo pesa poco e nulla. Sembra soltanto orpello retorico perché non c’è la consapevolezza che è il momento fondante di una nuova Italia e della democrazia. Che le devo dire! Manca il senso del valore dei valori.
Pubblicato venerdì 23 Ottobre 2015
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