Un governo imbottito di militari. Un turbocapitalista all’economia. Alla giustizia il magistrato che ha chiuso Lula in carcere. Così, per iniziare.
L’uomo dell’ultradestra Jair Messias Bolsonaro ha vinto le presidenziali del Brasile, 55% contro il 45% dello sfidante del Partido dos trabalhadores Fernando Haddad. Dieci milioni di voti di differenza, su 140 milioni di votanti. Non sembra una grande vittoria, e invece sì. Cancella di colpo quattro mandati consecutivi del Pt, quattro tentativi di redistribuire l’oscena ricchezza brasiliana, di strappare milioni di famiglie alla povertà, di impedire lo sbudellamento dell’Amazzonia… Con moltissimi errori – compreso il ricorso alla corruzione, con effetti clamorosamente sottovalutati – il Pt ci ha davvero provato. Ora Bolsonaro intende spazzare via quell’esperienza.
Il nuovo presidente del Brasile è un’incognita, la biografia aiuta ma non dice tutto. Terzo dei sei figli di un dentista abusivo e una casalinga, di antenati italiani con qualche tedesco di mezzo, il giovane Jair si innamora della divisa da ragazzino, giocando ad aiutare i soldati della dittatura che inseguono una leggenda della guerriglia, “El Capitan” Carlos Lamarca, fin nel paesino della zona povera di San Paolo in cui Bolsonaro padre è andato a rifugiarsi per poter praticare la sua arte senza che nessuno gli chiedesse un diploma. Il guerrigliero fugge ma non importa, sarà massacrato l’anno dopo. E il ragazzino entra alla prepa militare e poi all’accademia Agulhas Negras, creatura dei generali al potere. Arriverà ai gradi di capitano, buonuscita dopo un paio di processi e un arresto per aver chiesto aumenti salariali e per aver pianificato di far saltare in aria un po’ di caserme se gli aumenti non fossero arrivati. Ormai riservista, Bolsonaro insiste, scrive articoli pro-militari che gli valgono un certo successo e lo sbarco in politica, questa volta a Rio. Sarà l’approdo definitivo: 27 anni da deputato federale che per un uomo nuovo sono parecchi, 171 progetti di legge firmati e 2 (due) approvati, l’improvviso e inspiegabile arricchimento negli anni 90 con conseguente trasferimento alla Barra da Tijuca, il quartiere-supervip della capitale carioca dove risiede tutt’ora, l’aumento costante delle sparate fasciste, razziste, omofobe e misogine – celebri i piccoli aerei che sorvolavano Copacabana con lo striscione: “Il bandito buono è il bandito morto” – e il parallelo lievitare dei consensi, fino all’ultima elezione: il più votato a Rio, 450mila preferenze. Nel frattempo l’intera famiglia è in politica, tre figli (su cinque) tra Camera e Senato, due delle tre mogli attive (e pagate) nell’organizzazione, qualche scandaletto minore come lo stipendio della portaborse che non esiste ma soprattutto la sorte di restare lontano dallo scandalo principale, quel Lava Jato che ha devastato una intera classe politica. Molto in sintesi, è questo il Bolsonaro che si presenta alle presidenziali. Poi accadono due cose.
La prima è che arruola un autentico Chicago boy come suo superministro dell’economia. Si chiama Paulo Guedes, un master nel tempio dei superliberisti capeggiato dal nobel Milton Friedman, ha anche fatto il professore, una volta – nell’università di Santiago del Cile a inizio anni 80, con Pinochet al potere e l’ateneo sotto diretto controllo dei militari – poi è tornato in Brasile, ha fondato banche d’affari e think tank neoliberisti, ha accumulato miliardi (e un paio di inchieste a carico). Quando Guedes accetta, Bolsonaro ha improvvisamente ciò che gli mancava: un programma economico e l’appoggio dei grandi poteri finanziari e mediatici del Paese, tutti alla ricerca della pallottola d’argento che possa abbattere il popolarissimo Lula e l’odiato Pt.
La seconda cosa che accade è che la pallottola d’argento viene sparata, ma dai giudici: il pm Sergio Moro condanna Lula, un appello-lampo aggrava la condanna, il tribunale supremo lo estromette dalle presidenziali. E qui c’è l’ultimo errore del Pt: insistere su Lula fino, letteralmente, all’ultimo giorno utile, fino alla consunzione. E affidare fuori tempo massimo la sua bandiera al semi-sconosciuto Fernando Haddad, un intellettuale che si ritrova a battersi nella palude delle fake news, dello strapotere opaco e pronto a tutto della bancada da boi (la lobby dei deputati ruralisti, oltre 200), da biblia (gli evangelici, pochi meno ma persino più conservatori), da bala (i difensori delle armi, solo 27 ma attivissimi), da mina (quelli delle miniere, circa 180 ma affamati di Amazzonia come piranhas). E su tutto i grandi odiatori del Pt, i gruppi mediatici Globo e Abril, il primo il più grande gruppo editoriale d’America latina dominato dalla famiglia Marinho, gente nostalgica del dorato periodo militare, il secondo editore di Topolino ma soprattutto di Veja, il Time brasiliano, che spara a palle incatenate accusando il Pt di tutto, compresi legami con guerriglie e narcotraffico. Non poteva finire bene, e non finisce bene.
Da presidente eletto, Bolsonaro non si è moderato. Ha già slegato il superministro Guedes per la riforma delle pensioni, “la prima e più urgente da fare”, che consiste nel portare tutti alla capitalizzazione individuale, quanto versi tanto paghi. E il passaggio come si finanzia? Intanto, privatizzando tutto il privatizzabile, secondo il verbo di Chicago. Le aziende pubbliche federali sono 147, valgono circa 500 miliardi di dollari, che è un’enormità; per ora Bolsonaro ha messo un freno solo alla vendita dei giganti Petrobras e Eletrobras, ma chissà. E inoltre, aprendo l’Amazzonia agli agrari e alle compagnie minerarie. Da oltre dieci anni i ruralistas spingono su una legge costituzionale chiamata Pec 215, che affida a un parlamento praticamente già loro il compito di definire quali terre sono degli indios (900mila, l’1% della popolazione) e quali aperte allo sfruttamento. Il Pt li aveva fermati, con Bolsonaro la strada è spianata.
Come ministro della giustizia, Bolsonaro ha proposto proprio il giudice Sergio Moro, l’uomo di Lava Jato e dell’estromissione di Lula, sepolto per 12 anni nel carcere di Curitiba. Moro è un conservatore che ha letteralmente il mito di Antonio Di Pietro, sarebbe la ciliegina su una torta di un governo che potrebbe contenere molti militari: oltre al suo vice Hamilton Mourao, c’è Alessio Souto all’educazione (“Nei libri di storia ricorderemo i successi economici del proceso”, eufemismo per dittatura), Oswaldo Ferreira alle infrastrutture (è un geniere, e tra le ‘infrastrutture’ c’è l’Amazzonia), Augusto Heleno alla difesa (era il capo delle truppe Onu a Haiti, che non si coprirono di gloria). E poi ci sono i tre figli del presidente: Eduardo, Carlos e Flavio. Per un po’, con l’elettorato sarà luna di miele. E saranno dolori per qualsiasi anche vago progressista del Paese: “Se non ci vogliono – ha già detto Jair Bolsonaro – se ne possono andare”.
Roberto Zanini, giornalista, già redattore capo de “il Manifesto”
Pubblicato mercoledì 31 Ottobre 2018
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