Cercando in rete, facilmente, troviamo l’indicazione del libro “Diciassette colpi”, Milano, Longanesi 1950. È il libro di un assassino.
Il suo nome è Amerigo Dumini, e la sua storia comincia sul fronte della Grande guerra, quale volontario – anno 1916 – nei battaglioni d’assalto dei votati alla morte. Da allora in poi, il pugnale ne rappresenterà il paradigma esistenziale; ostentato come prediletto lessico politico e rivendicato come privilegiato strumento di vendetta contro i rossi sovversivi e traditori della patria.
Intrisa nel veleno della “vittoria mutilata”, trascinata tra una osteria e l’altra, ritmata dal vitalismo barbarico delle canzoni dell’arditismo, la storia di Amerigo Dumini trova tappa nella fondazione del fascio di combattimento della sua città di adozione, Firenze, e della relativa pubblicazione “Sassaiola fiorentina”; e prosegue, a mano armata di moschetti e bombe Sipe, con l’assassinio, fine febbraio 1921, in via Taddea del sindacalista Spartaco Lavagnini, l’uomo che i proletari di Firenze affettuosamente chiamano “il nostro piccolo Lenin” (Vasco Pratolini, “Lo scialo”), con l’eliminazione, 2 giugno 1921, a Massa Carrara, del socialista Renato Lazzeri e di sua madre, e con l’agguato a ottobre dello stesso anno al deputato repubblicano Ulderico Mazzolani, prelevato sotto casa e sottoposto al “rito purificatorio” dell’olio di ricino cacciatogli giù per la gola fino alle viscere.
La storia di Dumini conosce un breve intralcio, quando, luglio 1921, con altri sei, viene arrestato a Cascina in provincia di Pisa: sul camion della banda criminale, sottovalutata e sopportata dai più, a volte guardata con occhi benevoli dalle forze dell’ordine e dalle prefetture, vengono rinvenuti cinque moschetti austriaci, ingenti quantitativi di cartucce, numerosi caricatori e alcune bombe a mano Sipe.
L’intoppo durerà soltanto quarantotto ore, al termine delle quali Dumini uscirà di galera, perché il pretore ne giudica credibile la versione secondo la quale la presenza di armi sul camion sarebbe imputabile ad una subdola manovra diversiva da parte di alcuni antifascisti della zona. (cit. Franzinelli, “Squadristi”).
E la storia di Amerigo Dumini, detto cuore di ferro, vicino al fratello del duce e al sansepolcrista Cesare Rossi, legato a Mussolini dall’ambiguo rapporto che si stabilisce tra uno schiavo e il suo padrone, continua tra un treno in partenza e uno in arrivo, sui quali Dumini viaggia con tessera gratuita, ottenuta, gennaio 1924, su istanza diretta del capo ufficio stampa di Mussolini Cesare Rossi, per meglio esplicare le proprie gesta e meglio rendere i propri servigi, facendo sosta alla stazione di Milano dove, marzo 1924, guida la aggressione contro Cesare Forni, a sua volta squadrista, ritenuto figura troppo ingombrante per il fascismo che aspira a farsi Stato.
E la storia di Amerigo Dumini continua nel sottobosco criminale fascista fino a intrecciarsi, nella soffocante canicola di una Lancia Lambda presa a noleggio, con le biografie di altri quattro ex arditi e criminali comuni: Giuseppe Viola, Augusto Malacria, Albino Volpi, Amleto Poveromo.
La lamiera della Lancia riverbera nel sole pomeridiano di giugno che batte sul lungotevere Arnaldo da Brescia, a Roma, mentre trascorrono le ore in attesa dello schiudersi di una porta.
Da quella porta dovrà uscire per recarsi in un pavido Parlamento responsabile del proprio avvilimento, l’onorevole Matteotti, che da tempo ha rinunciato ad avere una casa e, nel tentativo di restare vivo, dopo una prima aggressione nel suo Polesine, e una seconda a Siena nel luglio 1923, abita in provvisori domicili semi clandestini.
Ecco, Giacomo Matteotti sta uscendo: è il 10 giugno 1924.
Nulla, dopo il suo rapimento, sarà uguale a prima.
Arrivato dall’America, dove è nato, Dumini, che poteva essere solo uno dei tanti relitti di una guerra nazionalista, partorita dalle radiose giornate del maggio interventista, che lo fece criminale, mandato impunito dallo stato liberale, collocato all’incerto confine tra squadrismo e fascismo, diventa famoso; e figura scomodissima per il fascismo che, anno 1925, si fa Stato, legittimato e eretto sui resti del corpo dell’onorevole socialista massacrato, e rinvenuto nell’agosto 1924 nella boscaglia della Quartarella.
C’è ancora un gran sole: questa volta non illumina il Lungotevere di Roma, ma la tenuta agricola di Derna in Libia, dove il fascismo imperiale relega Dumini, imprigionandone fuori dai sacri confini della nazione ogni possibile inquietante testimonianza sulle dirette responsabilità di Mussolini.
Sopravviverà a tutto Dumini: anche alla guerra e anche alle carceri del dopoguerra dalle quali, arrestato nel luglio ’45, uscirà comunque nel 1956, per approdare come scialba figura nelle file del Msi, che, in spregio alla lotta di Liberazione, già dal dicembre 1946 offre una nuova casa e un’opportunità parlamentare ai nostalgici e ai nuovi fascisti.
Così, essendo il nome di un assassinato inesorabilmente legato a quello del suo boia, è la storia di Amerigo Dumini quella che, nell’anniversario della morte di Giacomo Matteotti, vogliamo ricordare, perché resti stampata nella memoria la vicenda politica di chi, ripudiato ogni principio democratico sostituì ad esso la categoria del cameratismo della trincea, contribuendo a predisporre la nascita e l’avvento del fascismo.
Annalisa Alessio, vicepresidente del Comitato provinciale Anpi di Pavia
Pubblicato lunedì 10 Giugno 2019
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