Eccoli: il branco raggiunge Conversano (Puglia); si fa avanti per le strade del paese; sono sette, otto, forse dieci; sono tutti giovani e sono tutti reduci da una breve galera. Ora festeggiano l’amnistia di cui hanno beneficiato; schiamazzano; fanno baldoria. Poi si fermano sotto un balcone. Qui urlano “viva il 25 settembre”, osannando la data in cui l’anno precedente, 1921, hanno ammazzato il nemico di classe, il socialista Giuseppe Di Vagno.
Un passo indietro: 1919. La grande guerra è finita, è il tempo della riscossa dei lavoratori scampati allo scannatoio della trincea. È il tempo delle masse sfruttate che si organizzano in leghe e sindacati e eleggono i propri rappresentanti nel Parlamento di Roma. Quell’anno i socialisti raccolgono una marea di consensi (1.840.000 voti) e portano in Parlamento 156 rappresentanti, di cui 5 eletti in Puglia, piccola isola rossa in un meridione rimasto la grande riserva dei voti dei conservatori.
Quello stesso anno, un avvocato trentenne nato a Conversano e laureatosi a Roma, a nome Giuseppe Di Vagno, assume la direzione di Puglia Rossa, il giornale della Federazione socialista di Bari, e difende in tribunale i braccianti accusati di reati contro il latifondo e la proprietà.
Saranno gli sfruttati della circoscrizione Bari-Foggia a eleggerlo deputato nel maggio 1921.
Essi, infatti, lo conoscono bene e lo sanno al loro fianco, già prima dell’alba, quando muovono dalla piazza per camminare fino alle terre del latifondo per il quotidiano sfruttamento.
È la piazza il luogo della ribellione dei senza terra contro le squadre dei mazzieri assoldati dalla proprietà terriera che vigilano l’ordine padronale; a botte o con il potente strumento del ricatto della fame, riducono all’ossequio di schiavi i lavoratori ribelli.
Se i braccianti di Puglia conoscono bene Di Vagno, altrettanto bene lo conoscono gli squadristi, che ora, danno il turno alle squadre dei mazzieri, arruolando, non solo pregiudicati e avanzi di galera, secondo antica tradizione, ma le nuove forze del rancore antisocialista: studenti, ufficiali congedati, figli di agrari della piccola borghesia povera, avida di prestigio e denaro.
La mistica dannunziana della resurrezione della patria offesa dalla vittoria mutilata – di cui i socialisti devono pagare la colpa – è la cornice dentro cui si inscrive l’obiettivo di distruggerne le organizzazioni e eliminarne fisicamente i dirigenti, così da ristabilire, nelle fabbriche e nelle campagne, l’“onnipotenza padronale” (cit. Angelo Tasca Nascita e avvento del fascismo).
Le bande squadriste dosano il terrore, e, in base al terrore, scandiscono il tempo.
Il 30 maggio 1921, pochi giorni dopo la sua elezione, aggrediscono Di Vagno una prima volta.
Di Vagno non cede; allora si replica: un secondo agguato viene accompagnato dall’esplicito “consiglio” di levare il disturbo da quella terra di braccia affamate, già ferita dall’assalto di trenta squadristi che il 22 febbraio 1921 hanno dato alle fiamme la Camera del lavoro di Minervino Murge, e stanno continuando l’opera loro con la devastazione della Camera del Lavoro di Terlizzi, e con le mazzate in centro Bari, mentre si tiene il congresso provinciale della federazione dei lavoratori della terra.
L’arma dello sciopero generale proletario si spunta; in assenza di una direzione politica non-velleitaria, il furore contadino, che pure ha compreso come fascista mazziere e agrario siano un solo blocco, prende la scorciatoia di una jacquerie che si rivolta rabbiosa e istintiva contro il bestiame, gli alberi, le masserie dei proprietari, mentre la dilagante marcia fascista colpisce con geometrica precisione le sedi delle organizzazioni rosse, e i suoi uomini.
Ecco il branco che aspetta la fine del comizio a Mola di Bari; ecco Di Vagno che saluta i compagni, che riprende il cammino. È il momento: il branco spara tre revolverate e lancia una bomba a mano. Il nemico di classe, il deputato socialista Giuseppe Di Vagno, morirà il giorno dopo, 26 settembre 1921.
Immediatamente sulla stampa socialista, Giuseppe Di Vittorio, cui dobbiamo alcune righe struggenti sulla morte di Di Vagno, denuncerà la responsabilità di Giuseppe Caradonna, fondatore dei Fasci di Cerignola, esponente di punta dello squadrismo nel meridione, impunito anche nel dopoguerra.
E sarà ancora Di Vittorio nel dopoguerra a chiedere la revisione del processo: gli esecutori materiali del delitto saranno puniti con una breve detenzione, e, non diversamente da quanto era già accaduto tra il 1921 e il 1922, saranno amnistiati a fine luglio 1947.
Annalisa Alessio, vice presidente Comitato provinciale Anpi Pavia
Pubblicato giovedì 26 Settembre 2019
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