Ogni Festival di Sanremo è un microcosmo, anzi: una rappresentazione teatrale in cui, in allegoria, si raccontano gli equilibri di un Paese, per diventare termometro degli umori nazionali, scintillante tableau vivant  in cui politica e spettacolo diventano più che mai indissolubili. E questa settantesima edizione si è rivelata tanto politica, quanto spettacolare, nelle sue esagerazioni, nei suoi record di audience e share, condivisioni social e viralità. Se la scorsa edizione del Festival, con la direzione artistica e la conduzione di Claudio Baglioni, aveva aperto nuovi scenari musicali culminati nella vittoria di Mahmood e ridimensionato la funzione del “pubblico sovrano” e del televoto nella scelta del vincitore, per questo importante anniversario, invece, Sanremo torna a rifugiarsi nel grembo di mamma Rai, coccolando un certo conservatorismo da prima serata con qualche guizzo di novità.

Da https://www.rai.it/cropgd/800×400/dl/img /2020/02/09/1581249423218_Televoto%20HP.jpg

Perciò, iniziamo dalla fine. Ha vinto Diodato, con Fai rumore, una canzone squisitamente sanremese che, senza troppi scossoni, ci fa prendere atto di quanto questo Paese non possa rinunciare a essere democristiano. Secondo e terzo posto rispettivamente di Francesco Gabbani, con Viceversa, e Pinguini Tattici Nucleari, con Ringo Starr. Se, dicendo Sanremo, si pensa subito a giovani tenori ingessati e vecchie (a volte davvero vecchissime) glorie della canzone italiana, una ventata di quasi-nuovo è arrivata sul podio, insieme a un po’ di piaggeria: con l’istrione Gabbani, che ha presentato un inedito orecchiabile, in cui si destreggia tra ossimori e iperboli, usando con leggerezza parole da maneggiare con cura per parlare di una relazione di coppia («Ma l’amore di normale non ha neanche le parole/Parlano di pace e fanno la rivoluzione/Dittatori in testa e partigiani dentro al cuore») e ricordando il savoir-faire di certi delfini del centro-sinistra. La medaglia di bronzo va al gruppo bergamasco Pinguini Tattici Nucleari sia per un brano fitto di riferimenti alla cultura pop, sia per il merito di aver esaltato il pubblico dell’Ariston durante la serata delle cover, proponendo un medley dei più coinvolgenti successi sanremesi ed ereditando il ruolo di irresistibili guasconi e rottamatori che era stato dei bolognesi Lo Stato Sociale, arrivati primi nel 2018.

Era un festival su cui incombeva la spada di Damocle delle polemiche, delle accuse di sessismo riconducibili fondamentalmente alla figura del conduttore, Amadeus che, durante la conferenza stampa di presentazione del cast artistico, aveva apostrofato le sue co-conduttrici (una squadra di sole donne) come «fidanzate di…» capaci «di stare accanto a un grande uomo, stando un passo indietro». Sicuramente una partenza difficile, ma questo 70° Sanremo si è saputo risollevare. E buona parte del merito va a Fiorello, mattatore della risata che, colte le debolezze e i motivi degli attacchi ad Amadeus, li ha fatti rimbalzare con un’agile mossa degna di un politico messo in difficoltà durante un talk-show. Tutte le accuse che avevano accompagnato le settimane precedenti sono state esasperate da Fiorello e restituite al pubblico con un forte eco esilarante, facendo frequente ricorso a improbabili fenomeni denigratori che terminavano in –ismo (uno su tutti: manismo, per indicare la spiccata tendenza gesticolatoria di Amadeus).

Un’ovazione ha accolto Romina Power e Al Bano a Sanremo 70 (da https://www.rai.it/resizegd/-x540/dl/img/2020/02/05/1580879599012_Al-Bano-e-Romina_ART.jpg

Non ho (più) l’età.

La nostalgia (canaglia) e polverosa è stata una cifra stilistica di questo Festival, con la celebrazione delle settanta precedenti edizioni attraverso gli artisti che hanno fatto la storia. Ecco fare capolino l’acclamatissima reunion dei Ricchi e Poveri, nella storica formazione in doppia coppia. E, guardandoli, gonfi di botox, fare un utilizzo indiscriminato del playback, viene da chiedersi se fosse davvero necessario: se la musica richieda scempi di questo genere. E la risposta è semplice: la musica non c’entra, è solo un’operazione nostalgia per tenere buoni i boomers e non ostruire le loro coronarie con troppe novità da criticare. Così come è stata immancabile la standing ovation per la coppia Al Bano e Romina e per il duetto tra Massimo Ranieri e Tiziano Ferro su Perdere l’amore, già patrimonio delle teche Rai. Una tradizione che digrigna i denti, insomma: e se non fossero bastati questi esempi, ecco comparire Ornella Vanoni durante la serata delle cover, che le sue recenti apparizioni televisive non avevano dimostrato essere esattamente nello stato psico-fisico ottimale per i live, e Rita Pavone, la cui partecipazione a Sanremo, resa nota in tempi recenti, rappresenta la quota sovranista di cui questo festival (fortunatamente) risulta abbastanza scarico. E così, senza rinunciare all’operazione nostalgia, l’offerta musicale si è anche aperta verso alcune novità: il già consolidato Achille Lauro, la star del reggaeton ed ereditiera Elettra Lamborghini e i rapper Rancore e Junior Cally, quest’ultimo, arrivato all’Ariston accompagnato da molte polemiche per la violenza di alcuni suoi testi, ha poi sfoderato un brano in cui, tra le altre cose, dice « Spero si capisca che odio il razzista/Che pensa al Paese ma è meglio il mojito» come un palese riferimento al Papeete Beach e a Matteo Salvini il quale, nelle settimane precedenti, aveva caldeggiato gli attacchi indirizzati al rapper.

Roberto Benigni al 70° Festival di Sanremo

Ma c’è spazio anche per una tradizione… di rottura: come la presenza di Roberto Benigni, figura storicamente divisiva tra chi ammira la potenza comunicativa dell’attore toscano e chi ne sminuisce gli interventi, riducendoli solo a ingenti cachet. Oggetto del suo monologo, durante la terza serata, è stato il “Cantico dei cantici”, testo sacro di riferimento per le religioni ebraica e cristiana che Benigni ha plasmato per farlo diventare un inno contemporaneo all’amore, declinato in tutte le sue possibili accezioni, compreso quello omosessuale: un amore ecumenico e che tutto avvolge.

Quello che le donne dicono.

Nonostante si tratti di un’istituzione monolitica, anche Sanremo ha necessità di mutare, seguendo il sentimento comune. O, più che altro, inseguendolo: perché i vertici Rai, si sa, non sono i più propensi a intercettare il cambiamento e a renderlo pubblico. Ragion per cui, negli ultimi anni, sul palco dell’Ariston si sono avvicendati episodi poco eleganti, apparizioni decisamente kitsch, interventi portati avanti nel nome del nazionalpopolare e dei valori fondativi degli ascolti. Uno su tutti: la “famiglia più numerosa d’Italia” presentata da Carlo Conti nel 2015 su cui si potrebbe scrivere un trattato su familismo e patriarcato nella provincia italiana.

Molte donne sul palco e poche in gara a Sanremo 70 (da https://www.gelestatic.it/thimg/24jA_EmIKHvJvv MwP7FqupK0RBQ =/980×450/smart/https:// www.repstatic.it/content/nazionale/img/2020 /01/16/144943184-7ea31946-2260-4d4b-9f89 -c3e5fb0e6c79.jpg)

Ma il vento soffia in un’altra direzione, ora, e l’urgenza è dare rilievo alla figura femminile. Con l’opportuno ritardo che caratterizza Sanremo, s’intende, visto che la tematica era stata al centro di manifestazioni come Golden Globe e Oscar già due anni fa. E così, grazie al cerchiobottismo della più grande rassegna musicale italiana, sullo stesso palco si avvicendano – tra le altre – Rula Jebreal, che porta sul palco il suo vissuto per raccontare con trasporto le violenze subite dalla madre e sensibilizzare sul femminicidio, e Georgina Rodriguez, co-conduttrice incapace e del tutto ignara dei tempi televisivi, la cui presenza è risultata totalmente immotivata, anche (e soprattutto) dopo un’esibizione che era una brutta copia di un tango; una performance seguita da un bacio al suo compagno nonché all’unico motivo che legittimava la presenza della ragazza sul palco: Cristiano Ronaldo, seduto in prima fila. Tra i due estremi, tanta retorica, forse troppa: sulla bellezza femminile, sul valore dell’esperienza, sulla paura di invecchiare – una sfilza di luoghi comuni (accordati tra di loro anche abbastanza male) racchiusi nel monologo di Diletta Leotta.

Elodie all’ultima edizione di Sanremo

Così, in virtù di questo sentire comune bonariamente pregiudizievole che vede le donne accomunate e coese in quanto – appunto – donne, forse si perdono un po’ di vista le singole individualità, tra loro molto diverse, finendo per stigmatizzare una cantante come donna e basta, a prescindere dal genere musicale, dalla validità della sua performance e da tanti altri fattori che dovrebbero concorrere a definire il merito in una gara in cui musica e spettacolo esercitano lo stesso peso. Quindi, agli occhi del pubblico, la quasi trentenne Elodie, interprete di un brano ricercato e attuale, che crea un parallelismo tra le catene del sacrificio di Andromeda e lo stato di paralisi emotiva in una storia d’amore (nonché uno dei pochi brani che sembra collocato nel tempo in cui è stato scritto e non può essere arbitrariamente inserito – ad esempio – in un Sanremo 2003, 1995 o 1974), può essere equiparata alla opaca Giordana Angi, che nella sua Come mia madre sfida il didascalismo per cantare versi come «È che l’orgoglio a volte è un mostro/Che ci fa solo allontanare/E se un giorno sarò una mamma/Vorrei essere come mia madre», o alla sedicenne Tecla, arrivata in finale nella categoria “nuove proposte” con il brano 8 marzo che, se già il titolo non fosse sufficientemente esplicito, apre le porte alla ridondanza per non lasciare niente di oscuro e canta: «E non basta ricordare di una festa/Con un fiore se qualcuno lo calpesta».

Nonostante i nomi delle partecipanti al Festival fossero, in molti casi, reboanti, la presenza delle artiste donne è stata di 7 sui 24 big inizialmente in gara (23, dopo l’esclusione del duo Bugo-Morgan alla fine della quarta serata) e 2 sulle 8 nuove proposte. Quindi, a fronte di una massiva presenza di showgirl, giornaliste e presentatrici in veste di co-conduttrici, forse è legittimo accarezzare il sospetto che il ruolo affidato alle donne sia di contorno, rinverdendo quella polemica sorta alla vigilia del concerto dell’1 maggio di Roma, in cui si lamentava una scarsa presenza di artiste femminili.

Achille Lauro a Sanremo 70

Cantami, o diva, del poliedrico Achille.

Ma c’è chi, in questa 70esima edizione, ha creato un precedente, spazzando un po’ di conservatorismo dal palco dell’Ariston: Achille Lauro, più che vincitore morale, vero e proprio architrave di questo Festival. Ha portato in scena una canzone abbastanza orecchiabile, ma di certo non troppo innovativa (a cui si deve riconoscere il merito di aver sottratto con forza il motto me ne frego all’ultradestra), che sorreggeva un impianto scenico di teatro en travesti. Le sue performance canore sono state accompagnate, nel corso delle quattro sere in cui si è esibito, da altrettanti costumi di scena, legati a una narrazione e a una chiave di lettura stimolante e dissacratoria. Durante la prima serata, presentatosi sul palco in un sontuoso mantello di velluto nero con intarsi dorati, sul ritornello, si è spogliato dei suoi averi per interpretare un San Francesco glam e proseguire l’esibizione in una tutina trasparente e succinta. Poi è stata la volta di David Bowie: nei panni di Ziggy Stardust ha, infatti, cantato al femminile un brano di Mia Martini durante la serata delle cover, per poi proporre un sontuoso abito, omaggio alla “divina marchesa” Luisa Casati Stampa, la cui ambizione era divenire un’opera d’arte, e concludere con una delle figure più determinanti e influenti nella storia inglese: Elisabetta I Tudor. Le interpretazioni su queste performance potrebbero essere molteplici e si rischierebbe di dilungarsi molto, ma ciò che lascia il segno è l’intelligente e ironica sfacciataggine di Achille Lauro, che ha saputo sfidare pregiudizi e omofobia senza farsi travolgere dalla fiumana di insulti che gli è stata indirizzata dallo spettatore medio. Chi sia il cattivo esempio, in questo panorama, è tutto da vedere: di certo non Achille Lauro, che ha saputo reagire in modo magistrale agli attacchi, diventando solo lo specchio attraverso cui osservare con disgusto l’omofobia imperante e dando prova di saper costruire uno storytelling efficacissimo, per dimostrare che l’estensione vocale non è tutto. Ma siamo in Italia: lasciamo che l’attitudine punk arrivi con calma, incontrando forti resistenze anche da parte dei più giovani, di quegli eredi del Novecento che, del secolo breve, non hanno avuto che gli scampoli, ma che si ergono, oggi, a difensori della tradizione e della sacralità delle icone (tanto cattoliche, quanto rock).

1951, 1° Festival di Sanremo (Da https://i.ytimg.com/vi/lxa5XKdfzog/maxresdefault.jpg)

«La risposta delle masse è di sinistra con un lieve cedimento a destra».

Insomma, stabilire un legame biunivoco tra politica e Sanremo no, probabilmente non è possibile, ma seguire l’andamento dei governi e degli umori dei partiti e vederci un piccolo (a volte nemmeno troppo) riflesso tra gli scintillii dell’Ariston è semplice ed epifanico.

Ogni conduzione, ogni direzione artistica porta con sé una precisa volontà politica (aggettivo qui inteso nel più ampio senso aristotelico) che passa anche attraverso le regole del voto: chi decide di depauperare la volontà popolare conferendo al televoto una minore percentuale di incidenza sul risultato finale; chi, invece, affida alle preferenze degli spettatori il 50% del “potere esecutivo” per decretare eliminazioni in itinere e chi decide di istituire una giuria di esperti (diventata quell’élite contro cui, lo scorso anno, si è scagliato il popolo capeggiato da Salvini).

Le affinità tra le conduzioni e i vincitori, spesso, ci sono e, negli ultimi vent’anni, due esempi appaiono molto eloquenti: nel 2000, in cui la conduzione fu affidata a Fabio Fazio e la direzione artistica a Mario Maffucci, il primo posto fu conquistato dalla Piccola Orchestra Avion Travel, baluardo di quell’attitudine che oggi sarebbe definita con disprezzo radical chic. Nove anni dopo, con Paolo Bonolis alla conduzione e alla direzione artistica, arrivano le zampate “defilippiane” con la vittoria di Marco Carta, uscito vincitore l’anno prima dal mondo dei talent e pupillo del pubblico. Ma sono numerosissimi i casi in cui il podio sanremese è anche l’espressione di una volontà, di un sentire comune o di un aperto dissenso. Emblematica, in questo senso, è l’incontrollabile polemica che ha investito il podio della 69esima edizione, che ha visto la vittoria del rapper Mahmood (sostenuto dai “poteri forti”) su Ultimo, espressione del giudizio popolare (e c’è bisogno di ricordare che la sovranità appartiene al popolo?) e alfiere della lotta contro i soprusi della ka$ta.

Insomma, aggirandosi tra la città dei fiori, sembra quasi di scorgere i banchi di Montecitorio, tra voti, polemiche e maggioranze silenziose. E chissà che, con il prossimo regolamento, anche a Sanremo non venga proposta una soglia di sbarramento.

Letizia Annamaria Dabramo