Manuela Tempesta, filmologa, sceneggiatrice, assistente alla regia, autrice televisiva e regista.
Nel 2003 ha vinto il festival di Aosta “A corto di idee”. Nel 2006/2007 ha lavorato come sceneggiatrice e aiuto-regista per il documentario “Non tacere”, sulla storia di Don Roberto Sardelli e della scuola 725, fondata tra i baraccamenti di Roma alla fine degli anni 60, vincitore di vari festival e finalista nel 2009 ai David di Donatello. È autrice, con chiara Bondì, di “Nannarè”, un soggetto per un film-documentario su Anna Magnani. Nel 2008 ha scritto il soggetto e curato la ricerca d’archivio del documentario “Pietro Germi: il bravo, il bello, il cattivo”, che nel 2009, è stato selezionato al Festival di Cannes nella sezione Cannes Classic. Nel 2009 ha scritto con Maria Sole Tognazzi, che ne firmerà la regia, il film-documentario, “Ritratto di mio padre”, sulla vita e la carriera di Ugo Tognazzi, presentato nel 2010 al Festival di Roma e finalista nel 2011 ai David di Donatello. Ha collaborato a diverse fiction televisive ed è stata assistente alla regia per il film “Ci vediamo a casa” di Maurizio Ponzi . Nel 2011/2012 ha lavorato come consulente d’archivio per il film-documentario su Carlo Verdone “Carlo!”, diretto da Gianfranco Giagni e Fabio Ferzetti. Nel 2013, con Peter Marcias, ha firmato il soggetto del documentario su Piera degli Esposti “Tutte le storie di Piera”, diretto da Peter Marcias e presentato al Festival di Torino di quell’anno. “Pane e Burlesque” (2012), di cui firma anche la sceneggiatura insieme a Massimiliano Bruno e a Michela Andreozzi, è la sua prima prova alla regia: una commedia al femminile nella quale le vicende private delle protagoniste si intrecciano ad alcuni dei problemi più scottanti del contesto italiano degli ultimi anni: la crisi economica, la carenza di posti di lavoro, il precariato occupazionale.
Come e quando è nata la tua passione per il cinema?
La mia passione per il cinema è nata un po’ insieme a me: parte della mia famiglia ha lavorato con Anna Magnani e Vittorio De Sica, ha frequentato il Neorealismo in diverse situazioni e forme; alcuni di loro erano dei teatranti, facevano parte di una compagnia stabile a Roma, la compagnia di Checco Durante; dal lato materno avevo dei familiari musicisti, qualcuno faceva parte della vecchia orchestra della Rai, che oggi non esiste più. Vedevo sempre un sacco di film da bambina: mio nonno era un grande appassionato di cinema e mia mamma mi ha sempre portato al cinema. Ho scritto la mia prima sceneggiatura per un film a nove anni insieme a un compagno di classe, si intitolava “Quella scuola davanti al boschetto”. Il cinema mi ha sempre aiutata a sognare, a far venire fuori le idee, a tirar fuori una creatività che tutti i bambini hanno e che io ho cercato e cerco ancora di conservare.
“Pane e Burlesque” è il tuo primo film da regista. Come è nata l’idea per questo progetto e com’è stato passare dalla sceneggiatura alla regia?
“Pane e Burlesque” nasce dalla voglia di fotografare una situazione italiana, di raccontare un momento di crisi e di passaggio di questo Paese, quindi è legato essenzialmente alla tematica della crisi economica e lavorativa. Da un altro lato, però, è legato all’esigenza di parlare di alcuni aspetti che caratterizzano l’universo femminile: volevo unire l’esigenza di raccontare un momento sociale con quella di mostrare la capacità della donna di trasformare la propria vita e quella di chi le sta intorno – mariti, compagni, ecc. – attraverso il burlesque.
Perché proprio il burlesque?
Sono sempre stata affascinata dal mondo del burlesque. Dita Von Teese ha, a mio avviso, ricompattato e rilanciato, anche a livello mediatico, un modello di donna che era andato perduto e che ha a che fare col mistero, con la segretezza, con la seduzione, con l’armonia nel saper gestire la propria femminilità, che poi significa anche saper superare le proprie paure. Questo era uno dei messaggi del mio film: dire a tutte le donne che possono cambiare il corso delle cose, il proprio destino, che possono prendere in mano le redini della propria esistenza e cercare di traghettarla da un’altra parte.
Tu credi che nel Sud Italia viga ancora una visione così maschilista del ruolo della donna nella società?
Non ne faccio una questione di Nord o di Sud, credo che certi pregiudizi di genere ci siano ancora un po’ ovunque. Credo che i pregiudizi nei confronti delle donne siano ancora molto diffusi, a Roma come a Monopoli, anche se poi nel mio film dimostro che la gente può cambiare idea, tanto è vero che alla fine gli abitanti del paese aiutano la protagonista a mettere su la sua fabbrica del burlesque. È pur vero che una donna ancora oggi deve fare più fatica di un uomo per dimostrare ciò che è: non c’è ancora una vera parità di genere, la società offre agli uomini delle opportunità che noi riusciamo ad ottenere con molta più fatica.
Tu provieni dal documentario, un settore che in Italia, sebbene negli ultimi anni in ascesa, sembra essere sempre un po’ trascurato. Cosa pensi della situazione del cinema documentario in Italia?
Credo che si tratti di un settore che si è molto evoluto ultimamente, nelle sue diverse forme, dal documentario puro al reportage, al documentario di finzione a quello ricostruito. Resta però il fatto che in questo Paese che un prodotto documentario, pur costando molto meno di un film, ha meno mercato di un film, perché tutto il circuito cinematografico di distribuzione legato alla sala è culturalmente abituato ai generi di finzione. Quindi mentre negli Stati Uniti o in Francia ci sono delle sale esclusivamente deputate alla proiezione di documentari, il pubblico italiano è abituato ad andare al cinema per vedere un film di fiction. Convincere la filiera distributiva e dei gestori di sala a prendere un documentario e a tenerlo per diverso tempo non è facile; qualcuno, in parte, c’è riuscito, come nel caso di “Sacro GRA”, vincitore a Venezia nel 2013. Certamente negli ultimi anni di si è data più dignità al documentario: mentre prima era un prodotto di nicchia, adesso è un genere con cui anche grandi autori e importanti registi italiani si sono confrontati e, grazie soprattutto alla TV a pagamento, anche il pubblico ha iniziato ad approcciarvisi maggiormente. Io amo moltissimo il documentario: ho realizzato documentari tra le case occupate, tra gli ex baraccati, ho raccontato di personaggi famosissimi che non ci sono più, da Pietro Germi a Ugo Tognazzi, ma anche di qualche vivente, come Carlo Verdone e Piera Degli Esposti. Io ci credo ancora.
A proposito di Neorealismo, mi sembra che il cinema italiano abbia perso negli ultimi anni la capacità – e forse anche l’urgenza – tipica, per l’appunto della poetica neorealista, di farsi carico delle istanze sociali della nazione, di raccoglierne i fermenti di giustizia…
Io penso invece che ci siano degli autori che hanno delle idee fortemente sociali e che le propongano anche; il problema è che io posso scrivere quello che mi pare però o mi auto-pubblico oppure, laddove ho bisogno di molti soldi per realizzare il mio film, ho bisogno di qualcuno che mi produca. Il punto è spesso i committenti producono solo quello che vogliono loro, che a loro interessa. Tutto quello che noi vediamo al cinema in Italia non è il meglio del meglio che viene scritto e pensato, ma quello che qualcuno ha fatto sì che si potesse realizzare. Quindi io credo che non si tratti di un’incapacità da parte di autori e registi né dall’assenza di un certo tipo di urgenza, ma dal fatto che in Italia, il più delle volte, si producono solo certe cose, si scelgono solo determinati copioni.
In questi giorni è in corso la Mostra del Cinema di Venezia. Tra i film italiani in concorso ce n’è qualcuno sul quale avresti voglia di spendere qualche parola?
Io ho avuto l’onore di collaborare al film di Marco Bellocchio, “Sangue del mio sangue”. Fui selezionata per i corsi da lui tenuti a Bobbio nel 2009, anno in cui sono stata a Cannes con il documentario su Pietro Germi e finalista al David di Donatello con “Non tacere”: Francesca Calvelli, che è la compagna nonché la montatrice dei film di Bellocchio, vide il mio documentario, si complimentò con me e questo mi fece incredibilmente piacere. Ho avuto l’opportunità di stare sul set per alcuni giorni, di vedere come lavora Marco ed è stato un grandissimo onore, un privilegio, oltre che una grande palestra, essendo lui un artista e una persona eccezionale. Sono felice che finalmente questo film, a cui in questi anni ha continuato a lavorare, esca nelle sale e sono curiosissima di vederlo.
È di questi giorni la notizia dell’appello lanciato da alcuni personaggi dello spettacolo, i quali hanno deciso di mettersi in marcia scalzi dal Lido di Venezia fino alla Mostra (iniziativa alla quale hanno aderito diversi centri di accoglienza e associazioni romane, come Baobab e la Casa delle Donne) per solidarizzare con i migranti, “con chi è obbligato a mettere in pericolo il proprio corpo per cercare di sopravvivere”. Cosa pensi di questa iniziativa e del suo riferimento alla tematica del corpo (centrale, tra l’altro, anche nel tuo film)?
Quella del corpo è sempre stata tra le mie principali tematiche di riflessione, a partire dai miei studi universitari. Il corpo dell’attore è al centro di tutte le grandi teorie e metodologie teatrali, per cui trovo giusto che un gruppo di attori faccia riferimento al corpo in un’occasione del genere, ad una cosa che ci accomuna tutti, ad un corpo che può fare una marcia di dolore, come quella fatta dai migranti. Penso che sia assolutamente giusto che degli artisti che hanno voce in capitolo e che possono parlare ai media tengano presenti queste tematiche; non è un atto di buonismo, ma un atto dovuto, un gesto per richiamare l’attenzione dei politici sulla necessità di fare un’accoglienza diversa. E trovo molto giusto, per l’appunto, che questo gesto venga associato al patire del corpo, che si sia pensato di marciare scalzi, perché questo permette di sentire la terra, il rapporto col territorio. Dobbiamo ricordarci che attraverso il corpo noi viviamo e sentiamo la vita.
A cosa stai lavorando adesso?
Sto scrivendo alcuni documentari e altri progetti per dei film, ho un progetto a cui tengo moltissimo sulla malattia mentale, sugli ex manicomi. Sto facendo un lavoro di archivio per trovare delle storie reali da cui trarre spunto per dei personaggi che provengono da tante mie osservazioni raccolte in questi anni. È un tema che mi ha sempre interessato. Per il momento non posso dire di più.
* Azzurra Sottosanti, studiosa di filosofia e discipline storico-critiche, scrittrice di cinema e musica per vari periodici, assistente di produzione, esperta di promozione culturale
Pubblicato martedì 15 Settembre 2015
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