Patrizio Gonnella, presidente di Antigone (Imagoeconomica, Andrea Pantegrossi)

Patrizio Gonnella dal 2005 è presidente di Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. In questi 18 anni ha visto da parte del sistema politico – anche quando ha governato la sinistra – scarsa attenzione alla realtà carceraria. Qualche go, moltissimi stop verrebbe da dire. Ma ora che la destra si è insediata a palazzo Chigi, Gonnella registra un pericoloso salto all’indietro: pulsioni autoritarie e populismo d’accatto sono la cifra del governo targato Giorgia Meloni. L’idea punitiva e repressiva di cui la destra è portatrice travalica i confini delle carceri, investe con forza la società. Ne sono un esempio macroscopico i diversi pacchetti sicurezza licenziati dall’esecutivo. L’ultimo ddl poche settimane fa: un insieme di norme, strombazzate come risolutive, che da una parte colpiscono i reati minori commessi da immigrati e rom e, dall’altra, hanno l’obiettivo di criminalizzare il conflitto sociale. Non cercate in questo ddl fascistoide che ripiomba il Paese nel codice Rocco, norme che puniscano l’abuso d’ufficio, la corruzione e la concussione, questi sì reati che avvelenano davvero il Paese e lo rendono insicuro. Semplicemente non ci sono. Questo è un disegno di legge contro i poveri cristi.

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni (Imagoeconomica, Sara Minelli)

Gonnella che differenza c’è tra sicurezza e securitario? Il disegno di legge del governo – di cui la presidente del Consiglio si è detta “orgogliosa” – cosa c’entra con la sicurezza? Per la mostruosità giuridica partorita da palazzo Chigi non credi che il termine più esatto sarebbe “pacchetto paura” o “pacchetto razzismo”?
Tra “sicurezza” e “securitario” c’è una differenza notevole. Sicurezza è qualcosa che ha a che fare anche con la libertà, nel senso che ciascuno di noi non potrà mai usufruire appieno delle proprie libertà se non facendolo in sicurezza. Quindi una nozione che ha a che fare con le libertà di tutti, con la libertà reciproca. La sicurezza, così come l’abbiamo conosciuta ed è costituzionalmente declinata, non è necessariamente da intendersi come qualcosa che ha a che fare con le misure di polizia ma è sicurezza sociale, è sicurezza profonda, è sicurezza di vita, è sicurezza sul lavoro… Ecco, noi dobbiamo imparare a tornare al passato e a ri-declinare la sicurezza in senso ampio, plurale e democratico.

Una protesta degli ambientalisti di Ultima generazione (Imagoeconomica, Carlo Lanutti)

Il securitarismo invece?
È una declinazione molto semplice e molto pericolosa: vuole rassicurare attraverso misure pensate per l’ordine pubblico. Diventa in questo modo solo la sicurezza dei ricchi che si proteggono dagli altri. L’ultimo “pacchetto sicurezza” del governo segue a tante altre misure che hanno a che fare con la questione migranti. Ogni due mesi un provvedimento! Sembra una strategia diretta a capitalizzare il consenso, perché si tratta delle misure che hanno a che fare con l’emotività delle persone e quindi si cerca in questo modo di costruire quella democrazia di tipo consensuale che poco ha a che fare con la storia nobile della nostra democrazia costituzionale. Paura e razzismo, soprattutto, e anche ingiustizia sociale. Perché le misure del disegno di legge che andrà in discussione in Parlamento includono la criminalizzazione dei comportamenti sociali e del dissenso. Si pensi, ma è solo un esempio, ai blocchi stradali e ai ragazzi di “Ultima generazione” che in questo modo vedono completamente trasformata in azione penalmente rilevante quella che è una loro protesta sociale. Per non parlare poi delle misure penali dirette ad aumentare il numero di anni di carcere per chi commette reati contro le forze di polizia. Siamo ai classici due pesi e due misure: il cittadino comune che subisce un delitto violento sarà protetto meno rispetto a chi è invece veste una divisa.

Nel ddl vi sono anche misure tendenti a impedire alle donne rom che aspettano un bambino di poter portare avanti la gravidanza fuori dal carcere, in regime controllato.
La norma che prevede che le donne in stato di gravidanza siano non necessariamente fuori quando aspettano un bambino ma che contempla, invece, il loro potenziale ingresso in luoghi carcerari come sono le “custodie attenuate” è un precetto vessatorio pensato per una decina di donne rom. È una norma manifesto, una norma simbolo che ha un brutto sapore di tipo etnico razzista.

(Imagoeconomica, Marco Cremonesi)

L’introduzione del nuovo reato di rivolta carceraria farebbe inorridire Cesare Beccaria, il padre Dei delitti e delle pene, pamphlet che oltre due secoli e mezzo dopo la pubblicazione resta, purtroppo, in Italia di drammatica attualità.
Il nuovo reato di rivolta carceraria che punisce fino a 8 anni di carcere non solo chi protesta con violenza ma anche chi pratica la resistenza passiva, e quindi in modo non violento, ci fa piombare nuovamente al carcere dell’obbedienza, dove i detenuti dovevano passeggiare rasente il muro e parlare a voce bassa ed era loro vietato porre domande o fare reclami collettivi. Abbiamo bisogno da questo punto di vista di qualcuno che ricordi al governo che la modernità penitenziaria è altro e non si costruisce certo attraverso un ordine repressivo ma con una vita comunitaria spiegata alle persone. Tutti gli studiosi di pedagogia potrebbero essere buoni testimoni di questo modello.

(Imagoeconomica, Carino by AI Mid)

Il carcere immaginato dalla destra che siede a palazzo Chigi smette di essere il luogo della possibile rieducazione del condannato, diventa un italianissimo arcipelago gulag. Se è tragicamente vero che per anni in carcere non è entrata la Costituzione e l’idea che la pena dovesse essere rieducativa è rimasta spesso lettera morta, con l’introduzione del reato di rivolta carceraria non si farebbe di più e di peggio, tornando alle norme dell’Italia fascista?
Sì. Nonostante la nostra Carta costituzionale in modo inequivoco affermi che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso dell’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, purtroppo in realtà questo è un po’ un mito che stenta a trovare forma e ultimamente – anche per pressione da parte delle organizzazioni sindacali di polizia, quelle autonome in particolare – stiamo osservando retromarce rispetto a un modello punitivo moderno e al tentativo di innovare il sistema penitenziario e di aprirlo al territorio. C’è un mantra “chiudere, chiudere, chiudere”. È ovviamente un mantra incostituzionale perché la funzione educativa della pena non si persegue tenendo un detenuto 20-22 ore chiuso in celle sovraffollate. Siamo oggi a 60.000 detenuti, circa 10.000 in più rispetto ai posti letto regolamentari e tutto questo è incompatibile con quella nobile funzione di reintegrazione sociale che la pena dovrebbe avere grazie alla intuizione dei nostri costituenti.

(Imagoeconomica, Carlo Carino)

Cosa diventeranno le carceri se questo pacchetto dovesse essere approvato così come è stato scritto? E quanto si riempiranno di poveri o di dissenzienti?
Le carceri sono già piene di disgraziati. Non sappiamo se si riempiranno anche di dissenzienti. Chi sono i disgraziati? In primo luogo i tossicodipendenti: un quarto dei detenuti oggi è tossicodipendente. Seguono gli immigrati che hanno fallito nel percorso di integrazione per cause non sempre da loro dipendenti. Circa un terzo della popolazione detenuta è migrante. E poi persone con problemi psichiatrici, non necessariamente con malattia ma con disagio psichiatrico. C’è un consumo stratosferico di psicofarmaci all’interno delle carceri italiane, abusi tendenti sostanzialmente a gestire farmacologicamente la fatica di sopportare il carcere sovraffollato. E infine ci sono i poveri: andiamo in un carcere metropolitano, a Roma, Milano, Bari, Bologna e troveremo la marginalità sociale incarcerata. Questo è il fallimento nella nostra società, il fallimento del welfare. E il carcere non può essere l’ultima frontiera del welfare perché non può fare e non riuscirà mai a fare nelle condizioni in cui versa quello che il fuori non è riuscito a fare prima.

Il pacchetto sicurezza affastella insieme i reati più diversi senza nessuna logica apparente. L’unico elemento che tiene assieme il tutto è da una parte il marketing politico su “legge e ordine”, che combacia con la triade “dio, patria e famiglia”, dall’altra la repressione generalizzata, l’idea di affermare de facto uno stato di polizia. Quali sono, a tuo avviso, i punti che presentano il più altro profilo di incostituzionalità?
Molti punti presentano profili dubbi di legittimità costituzionale, per esempio, come dicevo, la norma intorno alla rivolta penitenziaria, perché si va a criminalizzare la mera disobbedienza e soprattutto con un trattamento penale indifferenziato nonostante la offensività palesemente differente dei comportamenti del detenuto disobbediente. Un conto è reagire con la violenza, un conto con la resistenza passiva: metterle sullo stesso piano viola sicuramente quei principi di ragionevolezza che la Corte costituzionale ha più volte messo in campo. Ma a violare quei principi di proporzionalità e di ragionevolezza sono anche le norme che introducono illeciti penali e aumenti di pene per i blocchi stradali. Vorrei richiamare l’attenzione su un punto: proteggere fino in fondo la libertà di manifestazione del pensiero, anche nelle forme che a volte sono per noi più fastidiose, più antipatiche, è una grande conquista della democrazia contemporanea che noi dobbiamo assolutamente preservare. Ecco perché in questo momento occorre che vi sia da parte delle forze politiche, di maggioranza e opposizione, consapevolezza che non si può strattonare la legge penale fino al punto da renderla così stridente con quello che è il buon senso costituzionale.

Matteo Salvini, ministro delle Infrastrutture (Imagoeconomica, Sara Minelli)

Forse è un paragone azzardato, ma non credi che il Salvini che precetta i lavoratori e attacca frontalmente il diritto di sciopero fa il paio col pugno di ferro contro i blocchi stradali, o l’occupazione delle case?
Non è avventato dire che tutte le misure che si stanno prendendo contro coloro che protestano per i loro diritti sono misure che vogliono criminalizzare quella forma di dissenso organizzato che storicamente noi proteggiamo attraverso il diritto di sciopero e il diritto di manifestazione sindacale. Occorre reagire.

(Imagoeconomica, Marco Cremonesi)

Come?
Intanto andando a spiegare nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro, fra la gente, che noi dobbiamo proteggerle queste nostre libertà, anche quelle che possono un poco dar fastidio agli altri, perché da questo dipende la tenuta democratica del Paese.

(Imagoeconomica, Sara Minelli)

L’Anpi ha fatto proprio l’appello dei garanti delle persone private della libertà affinché il Parlamento modifichi strutturalmente il “pacchetto sicurezza”. Mission impossible, visti i rapporti di forza alla Camera e al Senato?
Il governo gode di una maggioranza granitica e ha numeri così alti da rendere impossibile uno stravolgimento delle posizioni in campo. Ma il punto critico è anche un altro e riguarda il campo del centrosinistra. Ricordo che i pacchetti sicurezza hanno un’origine antica e non è solo un’origine di destra. È accaduto nel passato e accade ancora. Quando è stato approvato il decreto Caivano che ha fortemente inciso negativamente sulla carcerazione dei minori, aumentando la possibilità che vadano a finire dietro le sbarre – misura antipedagogica e antimoderna che costruirà carriere recidivanti – ci sono stati partiti dell’opposizione che si sono astenuti. Non tutti hanno votato contro: il Pd ha votato contro, Sinistra italiana-Verdi hanno votato contro ma gli altri si sono astenuti. E questo non va bene. Che fare allora? Penso che oggi l’Anpi, Antigone, i garanti, dobbiamo tutti insieme fare un immenso lavoro educativo sulle nuove generazioni, un’advocacy politica insomma, per costruire una politica sociale ed economica nuova che contrasti e sconfigga le incrostazioni autoritarie e liberticide che rischiano di soffocare il Paese.