Antonio Amoretti è Presidente del Comitato Provinciale dell’ANPI di Napoli. Era sedicenne quando nell’autunno del 1943 partecipò alle Quattro giornate, una delle pagine più note e gloriose della Resistenza italiana. Ci racconta la vita quotidiana della metropoli partenopea prima, durante e anche dopo la guerra, le paure e le speranze della città che scelse di reagire all’occupazione nazista. Il mio interlocutore allinea i ricordi con precisione meticolosa e solo di tanto in tanto concede spazio all’emozione del protagonista.
«I bombardamenti erano la paura più grande per noi civili. Hanno cominciato gli inglesi dalle basi di Malta e tra il ’43 e il ’44 non ci fu notte, quasi, senza incursioni aeree. Napoli ha vissuto nel terrore. I bombardamenti erano atti di violenza indiscriminata, terroristica, contro la popolazione civile. Non posso dimenticare il raid del 4 agosto 1944, costò migliaia di morti. Non posso dimenticare i corpi martoriati allineati nella palestra della mia ex scuola elementare. Quando gli anglo-americani sono entrati in città sono stato uno dei pochi napoletani che non li ha applauditi, quel ricordo era troppo recente».
Oltre ai bombardamenti c’era la fame, continua Amoretti: «Durante la guerra chi poteva aspettava la cessazione degli allarmi aerei nei rifugi, erano pochi i ricoveri in realtà, e stavamo lì fino al mattino. Era una prova continua e terribile: si arrivava al giorno dopo svuotati di qualsiasi energia con la fame che ti accompagnava notte e giorno. Solo una piccola parte dei cittadini poteva rivolgersi al mercato nero, tutti gli altri erano lavoratori sottopagati o disoccupati e si sfamavano con quello che trovavano, anche bucce di piselli o di fave».
Trovare da mangiare era un’occupazione ossessiva, persistente: «Alcuni generi alimentari erano irreperibili – rammenta Amoretti –. Non c’era zucchero e i pasticceri avevano imparato a fare i dolci con i fichi secchi o con le carrube. Il caffé era un ricordo ancora più remoto, non si trovava già da tempo, da quando c’erano le sanzioni per la guerra d’Etiopia. Qualche marinaio lo vendeva di contrabbando, addirittura a chicchi, tanto era prezioso ma per i meno abbienti il sistema più semplice era riutilizzare i fondi di caffé reperiti nei bar. Anche l’orzo era un lusso, così come gli spaghetti, l’olio e il pomodoro, difficili da trovare e venduti in piccole quantità a prezzi sempre più alti. Altrimenti il cibo era immangiabile. Una volta mio padre comprò un sacco di farina “autarchica”, aveva uno strano colore ed era pure ammuffita, riuscimmo a utilizzarne solo una piccola parte. Ho mangiato gnocchi di farina vera solo dopo la Liberazione. Con l’arrivo degli Alleati, infatti, la situazione migliorò e riapparvero generi alimentari introvabili da anni, come il pane bianco. Purtroppo il mercato nero restava fiorente. Gli Alleati adottarono comportamenti da conquistatori: gli inglesi, per esempio, non rinunciavano al rito del tè delle cinque ma preferivano gettare via ogni avanzo per non darlo agli italiani, neppure a quanti lavoravano per loro e si offrivano anche di pagarlo».
La narrazione affronta il tema dalla miseria conosciuta dalla popolazione di Napoli ben prima dello scoppio del conflitto bellico per l’impatto devastante di sanzioni e politica autarchica del regime sull’economia della grande città. Con l’arrivo degli Alleati si conobbe una lieve ripresa.
«La tradizione cosmopolita unita alla privilegiata posizione geografica aveva sempre favorito l’apertura ai mercati esteri e gli scambi internazionali – spiega Amoretti –. C’erano industrie fiorenti grazie all’esportazione, ad esempio quella dei guanti, destinati soprattutto al Nord Europa. Con le sanzioni quei mercati si chiusero e migliaia di operai altamente specializzati si trovarono disoccupati. La perdita del posto di lavoro toccò quasi ogni famiglia per le ricadute anche sull’indotto: un mio parente dovette chiudere l’attività e per sbarcare il lunario fu costretto ad arruolarsi nella Milizia».
Citando la Milizia, la conversazione si sposta sulle caratteristiche del fascismo nel capoluogo campano. «Ci si arruolava per sbarcare il lunario, per sopravvivere, ma non solo. Perché fascismo e camorra tendevano a identificarsi: molti gerarchi e ufficiali della milizia volontaria erano affiliati ai clan e si facevano scudo della loro posizione per continuare indisturbati a fare affari».
A Napoli come nel resto d’Italia, le speranze suscitate dal 25 luglio sono ben presto deluse: «Nonostante tutto, dopo il 25 luglio le violenze contro i fascisti furono poche, la gente festeggiava la caduta della dittatura, preferendo accanirsi contro i simboli piuttosto che contro le persone».
Sulle Quattro Giornate, Antonio Amoretti è misurato fino quasi alla reticenza nel racconto delle vicende personali: si rappresenta come uno dei tanti “scugnizzi” che parteciparono all’insurrezione. Tiene però a sottolineare la natura di quella rivolta, confutando molti luoghi comuni. «Si crede ancora che le Quattro Giornate siano state un movimento spontaneo di popolo, senza alcuna preparazione preliminare. Questa lettura degli eventi in chiave un po’ romantica rischia di mettere in ombra il ruolo delle forze antifasciste, che organizzarono e orientarono la lotta. I combattenti non avrebbero potuto spostarsi senza ordine da un punto all’altro della città, ingaggiando scontri con nazisti in modo casuale. Io personalmente, e molti altri con me, sapevo perfettamente dove recarmi, quali erano i punti dove raggrupparsi. C’era organizzazione dietro tutto questo».
Amoretti si sofferma sulla cospicua presenza, tra gli insorti, di soldati sbandati dopo l’8 settembre, un aspetto che evoca immediatamente gli episodi del film di Nanni Loy. «Mi piace tutto il cinema neorealista, tuttavia ho un debole per Le Quattro Giornate. Il regista venne a Napoli insieme a Vasco Pratolini per raccogliere le testimonianze dei protagonisti. Hanno parlato anche con me e infatti ho ritrovato nel film alcuni degli episodi che avevo raccontato».
Il Presidente dell’ANPI di Napoli si mostra restio ad accreditare altri stereotipi, quelli che circondano la realtà del dopoguerra. «A Napoli non ci fu solo sbandamento e fame – ribadisce Amoretti –. La vita politica e civile riprese rapidamente, e in questo processo le forze di sinistra, e in particolare il Pci, fortemente radicato nella realtà cittadina, svolsero un ruolo essenziale. In particolare io mi dedicai, con un certo successo, nell’organizzazione sindacale dei calzolai, una novità importante nel panorama cittadino. Erano momenti di grandi speranze e l’attesa di cambiamento non aveva nulla di messianico. Era semplicemente alimentata dall’impegno quotidiano di migliaia di donne e uomini di diversa estrazione sociale e culturale, molti dei quali avevano preso parte attiva all’insurrezione. Ho nostalgia di quei tempi, soprattutto se li paragono a un presente dominato dalla fredda logica della finanza e della globalizzazione, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti».
Pubblicato giovedì 1 Ottobre 2015
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