Visto che è il giorno della memoria
ricordate d’andare a pijarlo n’culo”,
Cristina Bertuletti, sindaca leghista di Gazzada Schianno (Varese). [1]
“Per “genocidio” intendiamo la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico […] In senso generale, genocidio non significa necessariamente la distruzione immediata di una nazione, se non quando esso è realizzato mediante lo sterminio di tutti i membri di una nazione. Esso intende piuttosto designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, per annientare questi gruppi stessi. Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei gruppi nazionali, e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite degli individui che appartengono a tali gruppi. Il genocidio è diretto contro il gruppo nazionale in quanto entità, e le azioni che esso provoca sono condotte contro individui, non a causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo nazionale”.[2]
Gli ultimi decenni hanno visto un fiorire di studi sulla Shoah, ma anche, per contro, il levarsi di alcune voci critiche sull’eccessiva produzione scientifica legata al genocidio degli ebrei. Sono nati centri e istituzioni d’eccellenza, dove si studiano i genocidi del passato secolo, ma il bilancio è lungi dall’essere positivo, e persino iniziative come la Giornata della memoria, istituita il 20 luglio 2000, se non collegate a un percorso formativo adeguato, rischiano purtroppo di esser vissute da alcune fasce della popolazione come “sagre del dolore”. I tempi attuali vedono una forte ripresa di slogan e temi che non avremmo più voluto ascoltare e il recente monito del Capo dello Stato rileva come una diffusa ignoranza rispetto al fascismo non debba essere sottovalutata in alcun modo. [3] Fortunatamente ci sono persone che riescono a dedicare parte del loro tempo per fare capire il nostro recente passato e il vero, devastante volto dei genocidi alle generazioni più giovani. Una di queste persone è la scrittrice Anna Segre, il cui approccio ha caratteristiche differenti da molti altri volontari; in questa intervista con lei cercheremo di toccare i punti principali della sua attività.
Anna Segre, medico, psicoterapeuta e scrittrice, ha scritto Judenrampe, gli ultimi testimoni, in collaborazione con Gloria Pavoncello, edito da Elliot, 15 interviste a sopravvissuti ai campi di sterminio, corredate da ritratti psicolirici e osservazioni sui meccanismi psichici comuni, Biografia di una vita in più, Fatina Sed, in collaborazione con Fabiana Di Segni, edito da Elliot, il manoscritto di Fatina Sed, sopravvissuta alla deportazione ad Auschwitz, rinvenuto dopo la sua morte dalla nipote Fabiana Di Segni, e le interviste alle figlie nell’indagine dei danni ereditati dall’esperienza della madre, Monologhi di poi, edito da Manni, uno sguardo sulla comunità ebraica di Roma tramite epitaffi.
Quando hai avuto il tuo primo contatto con la Shoah? E perché hai deciso d’impegnarti nello spiegare la “logica” del genocidio agli studenti dei licei?
Il primo contatto con la Shoah è stato presto, prestissimo: quando ho capito che mio padre aveva messo i libri sugli scaffali più alti della libreria per non farmeli leggere. A 9 anni. Ce n’erano tanti: Edith Bruck, Primo Levi, Simon Wiesenthal, Elie Wiesel, Amery, e un certo Katzenik con un numero che non ricordo, sul destino di alcune donne nei campi di sterminio. Ti nomino questi autori perché li ho letti avidamente tra i 9 e i 14 anni, aggiungendo poi Uris sul ghetto di Varsavia, che, chissà perché, non stava lassù. Capendo cosa? Non lo so.
Aveva qualcosa di vertiginosamente coinvolgente, questa storia del nazismo e della soluzione finale, non potevo smettere di leggerne ed era difficile leggerne allo stesso tempo. Ebbene: avevo studiato, sì, ma non avevo capito davvero. Quando anni dopo, molti anni dopo, ho intervistato con Gloria Pavoncello alcuni sopravvissuti ai campi di sterminio, è stato evidente che la vera conoscenza di quei meccanismi mi sfuggiva e che forse non avrei mai davvero saputo la verità. Posso dire che quelle testimonianze dirette mi hanno cambiato completamente la cognizione rispetto ai campi di sterminio, malgrado avessi letto tanto sull’argomento. C’era scritto tutto, ma, dopo le testimonianze, rileggere gli stessi libri fu illuminante. Per questo sto cercando con i ragazzi dei licei (ho ereditato lo scrupolo di mio padre rispetto alla pornografia della violenza e credo, come lui, che l’età adatta per capire davvero sia dai 14-15 in su) di leggere insieme e di smontare in pezzi ogni frase, ogni disegno, descrivendo ogni singolo pezzo nella sua tridimensionalità e cono d’ombra. Mi accorgo che stanno capendo quando mi fanno le domande. La precisione e la pertinenza delle domande mi indica quanto hanno fatto proprie le letture analizzate insieme.
Ci puoi descrivere il tuo lavoro con i ragazzi?
Stiamo tentando, io e il professore di lettere Roberto Marzocchi del liceo Seneca di Roma, di dare una continuità al discorso sull’affermazione della dittatura e sui meccanismi che hanno portato alla Shoà. Cioè: incontro la stessa classe circa due volte al mese per tre anni di liceo. Siamo al primo anno, adesso, ma vedo già una risposta molto vivace agli stimoli proposti.
Dopo la lettura di Maus, di Art Spiegelman, stiamo decodificando insieme Meta Maus, sempre di Spiegelman. Ho pensato a Maus perché è un fumetto che ti trascina nella trama, bypassando una certa resistenza dei ragazzi alla lettura di un testo tutto scritto, distraendoti e al contempo descrivendoti con immediatezza. In effetti, ha funzionato. Tramite il fumetto, ci siamo addentrati in Meta Maus, che è il come, il quando, il chi e il perché è stato scritto Maus. Significa: come ha fatto il figlio di un sopravvissuto ai campi di sterminio a farsi raccontare la storia dal padre? Cosa si può dire in un libro, a un figlio, ai lettori? Cosa è troppo difficile da esprimere? Come sta il sopravvissuto? Come sta il figlio? Come si disegna ciò che viene narrato? Come s’integra la narrazione del singolo con la storia? Questo lavoro viene descritto da Spiegelman nei particolari in Meta Maus. E i ragazzi lo capiscono così bene, che, come dicevo prima, fanno domande pertinenti.
L’intenzione è quella di leggere poi ‘I sommersi e i salvati’ di Primo Levi, l’anno prossimo. L’ultimo anno, se riuscissimo, sarebbe l’ideale, ‘Essere senza destino’ di Kertesz.
È probabile che gli studenti chiedano altre letture, che da questi libri analizzati insieme vogliano leggere per conto proprio, che le loro domande potrebbero servirsi di altri libri e che, alla fine, sia un circolo virtuoso di curiosità che ti portano un metro più in là.
Quali a tuo giudizio i risultati più importanti ottenuti?
Leggono. Vedono parallelismi con la loro stessa realtà, con la loro stessa anima. Il che fa della Shoà un fatto condiviso, messo a punto da esseri umani, subìto da altri esseri umani.
Secondo te il dramma della Shoah riesce oggi a far comprendere l’universo dei nazionalismi estremi e dei genocidi del secolo passato o è percepito perlopiù come un problema ebraico?
Abbiamo fatto un gioco di ruolo, con Fabiana Di Segni, durante un incontro sulla memoria, al liceo Seneca: applicando un paio di regole di manipolazione della comunicazione, i ragazzi, quasi tutti, sono caduti nel tranello propagandistico.
Deve diventare chiaro che la Shoà non è stata un fatto unico, bensì un fatto paradigmatico. Ci possiamo servire della storia per capire come funziona l’animo umano, i gruppi, le folle, la comunicazione, appunto. Durante il nazismo l’oggetto dell’odio e dello sterminio erano soprattutto gli ebrei ma ciò non fa della Shoà un problema ebraico. L’escalation che ha portato ai campi di sterminio non è il frutto di una mente malata, di mostri incomprensibili. Magari! Legge dopo legge, documento dopo documento, esproprio dopo esproprio, menzogna dopo menzogna si è verificato il maelstrom dell’umanità: se guardi un pezzetto alla volta, capisci che è perfettamente riproducibile. Non identica. Ma quella. Il punto è che si guarda alla Shoà come a un’enormità indigeribile. Bisogna cucinarla a fettine sottili, per averne un’idea, per capirne la banalità. Sì, questo è conoscibile. Quello che invece ho capito di non poter davvero sapere per intero è il danno sui singoli individui.
Nei tuoi scritti l’approccio alla Shoah è caratterizzato dal racconto del singolo, pensi sia per via della tua esperienza professionale in campo medico?
Come ti dicevo, l’individuo è per me la complessità, forse inconoscibile, degna d’indagine.
Per quanto i meccanismi del trauma siano codificabili, rimane sempre, per i singoli esseri umani, la risposta divergente, il particolare che non ti aspetti, la forza che gli credevi finita e invece. Forse la professione che ho scelto dipende da questo modo di vedere e l’approccio al racconto anche. È stato naturale, per così dire.
Hai scritto Judenrampe con Gloria Pavoncello ci vuoi parlare di com’è nato questo lavoro?
Le interviste ai sopravvissuti ai campi di sterminio raccolte insieme a Gloria Pavoncello sono state poco più di un caso che si è trasformato in ricerca sia psicologica che letteraria. Ci mettevamo lì con la registrazione subito dopo l’incontro, per farlo a caldo, io cercavo di individuare l’aspetto rievocato con più vividezza e da quello scrivevo dei ritratti sintetici, poetici, diciamo… Poi ci venivano le osservazioni, le riflessioni. Man mano che procedevamo, ci venivano in mente aspetti che non potevamo trascurare, sembrava una matassa che a ogni nodo sciolto ne presentasse uno nuovo…
Nonostante l’orrore che uno scrittore si trova a descrivere quando narra dello sterminio degli ebrei, per te può essere “meraviglioso” un romanzo sulla Shoah? Hai un testo in particolare che ami o più di uno?
La scrittura sulla Shoà parte dal cercare di descrivere ciò che si è subìto, di spiegarsi com’è potuto accadere, di fare nessi, di combattere l’oblio, affrontare l’indescritto, l’indicibile, il mai accaduto prima, un male ‘grandioso’. Quando l’essere umano contatta il pericolo di annientarsi, cioè capisce che, per cercare di salvarsi la pelle, rischia di dannarsi l’anima, cammina su un crinale tra la perdizione e la spinta alla salvezza. Il ‘meraviglioso’ in alcuni punti di alcuni libri sulla Shoà si realizza nell’aggrapparsi con tutti se stessi alla bellezza, alla natura, alla vita; il ‘meraviglioso’ compare in mezzo al fango anche solo con un pezzetto di specchio, o, come dice Liliana Segre, guardando una farfalla che vola sui reticolati. Il ‘meraviglioso’, per come lo vedo io, è la fine del libro La notte, di Wiesel, quando lui si danna per aver percepito sollievo dopo la morte del padre che stava portando sulle spalle durante la marcia della morte. Si danna e si pente di aver sentito una sorta di liberazione, perché, mentre scrive, non è più in quello stato di terrore e spossatezza: ricongiunto alla sua etica e umanità, confessa quel sollievo colpevole provato allora e con poche righe ti fa contattare tutto l’irrimediabile insostituibile irrestituibile perso: è un punto altissimo di letteratura, ed è, sì, meraviglioso.
Come psicoterapeuta cosa vorresti cambiare in questa società, qual è il suo disagio più pericoloso?
Pensare che comunicazione sia scrivere qualcosa, che vedere il telegiornale sia conoscere la realtà, che il mare di immagini cui possiamo accedere siano tutte le immagini possibili. Noi, probabilmente anch’io, cadiamo nel tranello che l’immediatezza del reperimento di un’informazione voglia dire che nulla può sfuggirci.
Non facciamo controlli incrociati sulle notizie, non approfondiamo, abdicando alla conoscenza, fidandoci di quello che ci viene proposto. Siamo pigri. Il più grande disagio di questa società è l’accidia culturale. Questo aspetto apre alla possibilità di nuovi totalitarismi: siamo facili da governare, da persuadere. Nuovi, sì, ma non per questo meno totalitari.
Un progetto editoriale futuro al quale tieni molto?
Vorrei, e non so se riuscirò, lavorare sulle seconde generazioni, sui figli dei sopravvissuti ai campi di sterminio, per capire che strada fa un politrauma come quello, capire se (credo di sì, ma vorrei accertarmene) è passato ai figli qualcosa, e cosa, di quello che hanno subìto i genitori.
Davide Franco Jabes, PhD in Storia alla The University of York (UK), ha lavorato a numerosi progetti come consulente e ricercatore di Storia Moderna e Contemporanea per l’Università di Siena e molti altri Istituti di ricerca e case editrici (Rizzoli, Bompiani, Guanda)
[1] Post su Facebook di Cristina Bertuletti, sindaca leghista di Gazzada Schianno (Varese).
http://www.repubblica.it/politica/2018/01/28/news/giornata_della_memoria_la_sindaca_leghista-187510381/
[2] Definizione coniata da Raphael Lemkin, docente di diritto internazionale all’università di Yale. Yves Ternon, Lo Stato criminale, I genocidi del XX secolo (Milano, 1997), p. 13.
[3] (visto il 01-02-2018) http://www.huffingtonpost.it/2018/01/25/sergio-mattarella-il-fascismo-non-ha-avuto-meriti-per-il-capo-dello-stato-razzismo-e-guerra-non-furono-solo-degli-episodi_a_23343207/
Pubblicato giovedì 22 Febbraio 2018
Stampato il 11/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/interviste/scrivere-lindicibile/