L’8 settembre 1943 è un doloroso punto di cesura della nostra storia nazionale. S’interrompe la vicenda unitaria inaugurata dal Risorgimento e l’Italia torna a essere uno spazio fragile e subalterno, ospite della contesa delle grandi potenze del tempo. La Patria non muore, ma rischia seriamente di farlo, trascinata nel baratro della resa senza condizioni che sancisce l’epilogo della guerra in camicia nera.

Gran parte del merito dello scampato pericolo lo si deve alla Resistenza e all’antifascismo, una corposa minoranza che all’atto dell’armistizio prende il Paese nelle proprie mani e lo guida verso la democrazia e la Costituzione della Repubblica, non risparmiandosi nel mentre una sanguinosa guerra civile.

A dispetto di qualche lettura stereotipata e ormai superata dalla ricerca, questo percorso tormentato non tollera dualismi geografici: non c’è un Nord politicizzato e insorgente a fronte di un Mezzogiorno silente e disperato, capace al più di grandi esplosioni di collera sanfedista.

3 settembre 1943, a Cassibile (Siracusa), l’Italia firma l’armistizio. La comunicazione pubblica al Paese arriverà solo 5 giorni dopo: l’8 settembre

Al contrario, tutto inizia proprio nel Sud, in particolare tra Salerno e Cassino, tra i luoghi di sbarco della Quinta Armata di Clark e la linea Gustav che si dipanava dal Garigliano a Ortona. È indubbio che questo primo capitolo resistenziale sia molto diverso da quello successivo, quando la lotta partigiana avrebbe assunto una piena maturità politica e militare, nel corso dei lunghi mesi dell’occupazione nazista e del collaborazionismo fascista che sfregiano il Centro-Nord. Non di meno, la diversità tra le due esperienze non equivale affatto a una assenza o addirittura alla diserzione (l’ennesima) dei meridionali nei confronti della storia nazionale.

È una diversità determinata dai tempi dell’occupazione, nel Sud assai più ristretti; dallo spazio coinvolto, estremamente più vasto nel Nord; dall’estrema concentrazione delle violenze e delle distruzioni avvenute nel Mezzogiorno, prima e dopo l’armistizio; perfino dal carattere dei protagonisti.

Uno dei bombardamenti sulla città di Messina

Il Mezzogiorno, infatti, arriva all’8 settembre con le sue principali città martoriate dagli incessanti raid aerei anglo-americani — Napoli e Messina, come è noto, sono i centri urbani italiani di gran lunga più bombardati nel corso della Seconda guerra mondiale (un centinaio di bombing a testa, contro i poco più di 50 di Torino) — poi sfigurate dalla furia tedesca in ritirata. Altro elemento peculiare è la maggiore libertà d’azione lasciata alle unità dell’esercito italiano stanziate nel Meridione. I tedeschi, infatti, non hanno né i mezzi né gli uomini per deportarle in massa nei lager, dovendo invece fronteggiare lo sbarco angloamericano nella piana del Sele del 9 settembre. Ci si limita a disarmare i reparti, in qualche caso a convincerli con la forza a desistere, lasciandoli sostanzialmente sbandare.

Molti soldati gettano la divisa, tentano la via di casa, si nascondono, prostrati dai tre lunghi anni di guerra fascista; tanti altri decidono invece di vendere cara la pelle e di resistere. È una decisione, quest’ultima, assunta in grande solitudine, senza una filiera di comando ufficiale che impartisca gli ordini e coordini la transizione.

La targa in memoria della battaglia di Porta San Paolo nella Roma abbandonata dal re e da Badoglio

Al contrario, il re e Badoglio fuggono dalla Capitale senza combattere, imitati da larga parte dei vertici militari, politici e burocratici. Quel tradimento collettivo delle élite è l’atto conclusivo di una storia, ma anche la premessa di un nuovo corso tutto da scrivere. Quell’atto di responsabilità individuale degli uomini con le stellette, la loro scelta di prendere parte, trasforma i soldati in resistenti e pone il primo punto fermo della rinascita.

Riassumendo, mentre il Centro-Nord è rapidamente occupato e neutralizzato dalla Wehrmacht — Carlo Gentile definisce l’operazione come l’ultima grande vittoria di Hitler nella Seconda guerra mondiale — il Sud insorge in armi, favorito da peculiari circostanze di tempo e di luogo. È una Resistenza fortemente segnata dalla fedeltà ai valori patriottici, proprio perché innescata da molti nuclei del Regio esercito, della Marina e delle forze dell’ordine che decidono di non arrendersi.

Il generale Gonzaga del Vodice e il colonnello Michele Ferraiolo

Tra coloro che non fuggono ci sono i comandanti delle unità costiere di Salerno (il generale Gonzaga del Vodice) e di Mondragone (il colonnello Ferraiolo), ambedue fucilati sul posto; i carabinieri di Salerno guidati dal capitano Jaconis; i soldati del 48° reggimento d’artiglieria a Nola, puniti con la decimazione degli ufficiali; i fanti di Bitetto; il 15° reggimento costiero a Barletta; la 209ª compagnia fotoelettricisti a Castello di Scilla; i bersaglieri del 306º Nucleo Anti-Paracadutisti in quel di Piedimonte Matese; gli uomini del capitano Piccoli a San Severo di Puglia; il presidio cittadino e i cantieri di Castellammare di Stabia (guidati dal colonnello Olivieri e dal capitano di Corvetta Baffigo); il generale Bellomo che salva Bari e il suo porto; gli ufficiali di stanza nelle caserme di Caserta (in particolare il tenente Perna) che conducono i propri uomini su monti circostanti, dando vita a un’importante banda collegata poi con gli azionisti di Pasquale Schiano; i tanti militari napoletani che impegnano in combattimento i tedeschi tra il 9 e il 13 settembre, coordinati in larga parte dal comandante del distretto militare, il colonnello Bedoni. L’elenco non è affatto esaustivo, ma sintetizza i termini di quella prima insurrezione post-armistiziale, soffocata a fatica dalla Wehrmacht, ma destinata a riesplodere sul finire del mese di settembre in coincidenza con le Quattro giornate di Napoli, quando l’inizio delle deportazioni in Germania spinge anche i civili nell’agone.

Una foto della più nota tra le insurrezioni popolari contro i tedeschi al Sud: le 4 Giornate di Napoli

Il capoluogo campano è, allora, la prima città europea a liberarsi da sola dal nazismo, diventando un esempio, una matrice, un incitamento all’azione. Tutto, tranne che un affaire di lazzari e scugnizzi. Fare come a Napoli diventa un imperativo categorico e non più soltanto per gli uomini in divisa. La disperazione e le distruzioni fanno da detonatore e mobilitano un numero davvero significativo di civili: uomini e donne, laici ed ecclesiastici, monarchici e repubblicani, antifascisti d’antico conio e di più recente consapevolezza.

L’onda della rivolta segue la traiettoria della ritirata tedesca, interessando tutti i centri che vanno dalla cintura settentrionale di Napoli a Capua — passando per Acerra, Pomigliano, Casalnuovo, Orta, Aversa, il maddalonese, Marcianise, Caserta, Santa Maria Capua Vetere (dove la spinta alla liberazione dallo straniero s’intreccia fortemente con il tema della resa dei conti contro i fascisti locali) — assestandosi lungo la prima linea ritardatrice costruita sulle sponde del Volturno, la Victor, il 7 ottobre del 1943. Ma non sarebbero mancati ulteriori episodi di ribellione anche nell’area più a settentrione, tra il fiume e i confini della Campania, fino al Molise e all’Abruzzo.

12 settembre, Eccidio tedesco di civili di Barletta. Foto di propaganda di guerra nazista proveniente dal “Deutsches Bundesarchiv”, firmata “Benschel”

I documenti dell’intelligence statunitense ci raccontano di una costante preoccupazione rilevata tra i prigionieri tedeschi sottoposti a interrogatorio: tutti ammettono che tra la fine di settembre e i primi d’ottobre del 1943 cambia la loro percezione degli italiani; si accorgono che questi, se motivati, sanno combattere, resistono, sono pericolosi, fanno paura. Rischi destinati a crescere con il passare del tempo, soprattutto nel Centro-Nord della Penisola. Questa nuova consapevolezza provoca una sindrome dell’accerchiamento che porta la Wehrmacht (nel Sud non ci sono reparti delle SS) a una reazione sempre più radicale ai danni dei civili, con una crescita esponenziale delle stragi. Non a caso, è in questa porzione del Mezzogiorno che s’introduce il famigerato foglio d’ordini stragista concepito nel 1942 per la guerra contro l’Urss (il Merkblatt 69/1) — l’autorizzazione agli eccidi, come rimarca Klinkhammer — mentre la quasi totalità degli episodi stragisti che riguardano Terra di lavoro (l’attuale provincia di Caserta, allora vasta porzione settentrionale di quella di Napoli) si svolge tra l’ottobre e il novembre 1943, con qualche ulteriore vicenda luttuosa registrata in dicembre, quando il fronte si stabilizza nei fatti tra la Winter line e la Gustav.

Giovanni Cerchia, storico, Università del Molise