Nella giornata del 10 luglio 1940, in una Francia oramai perlopiù conquistata militarmente dai tedeschi, veniva votata, con l’assenso di buona parte dell’Assemblea nazionale (l’unione della Camera dei deputati e del Senato repubblicani, a quel punto in via di dissoluzione di fatto dinanzi alla catastrofe militare e civile generata dal tracollo del Paese), la legge costituzionale che conferiva i pieni poteri al maresciallo Philippe Pétain, divenuto una ventina di giorni prima capo del governo. La nomina di quest’ultimo, peraltro, seguiva al tracollo delle istituzioni francesi, alle dimissioni del precedente esecutivo presieduto da Paul Reynaud (durato tre solo mesi, fino al 16 giugno 1940), alla scelta di sottoscrivere l’armistizio, di cui Pétain – già figura di primo piano nella guerra contro la Germania del 1914-1918, generale e poi maresciallo di Francia – era uno dei maggiori sostenitori. Il 22 giugno, infatti, il documento, che sanciva la resa francese, era stato firmato a Rethondes. Pétain, investito dal dimissionario Presidente della Repubblica Albert Lebrun della funzione di primo ministro, ma anche del ruolo di amministratore politico della disfatta, a quel punto era salutato non solo da tutta la destra radicale ma da non pochi connazionali come il «salvatore della patria».
Giocando sul prestigio militare di cui si ammantava dalla fine della Grande guerra, e raccogliendo intorno a sé quelle robuste componenti del torbido estremismo nazionalista, fascista e poi filonazista che, soprattutto dalla Guerra di Spagna, si erano violentemente manifestate nella declinante Terza Repubblica francese (1870-1940), il Maresciallo, dopo avere stabilito la sede del suo governo nella cittadina termale di Vichy (in quella parte di territorio non direttamente sottoposta alla stringente occupazione dei tedeschi), si fece votare una legge ritagliata su di sé per potere meglio corrompere ciò che restava della Francia, soggiogandola alla volontà di Berlino. Per la cronaca, l’entità politica che nasceva in quei giorni, conosciuta come “État Français”, una pseudo-repubblica presidenzialistica, iperautoritaria, ferocemente paternalista, razzista, priva di reale spessore politico e completamente prona e china ai tedeschi, avrebbe visto lo stesso Maresciallo come premier fino al 18 aprile 1942 (quando gli sarebbe poi subentrato Pierre Laval, dopo cinque governi in successione) e a seguire in quanto capo di Stato, ruolo dal quale sarebbe infine decaduto alla Liberazione del Paese, nell’estate del 1944.
La funzione della legge costituzionale, oltre a sancire i pieni poteri in capo al medesimo Pétain, lo delegava a dare corpo e a promulgare una nuova Costituzione, di fatto superando gli equilibri istituzionali, politici e amministrativi garantiti fino ad allora dalle precedenti leggi costituzionali del 1875, che avevano invece dato forma alla Terza Repubblica in quanto Stato repubblicano indipendente, faticosamente liberale e democratico. L’atto di autorità imposto nel luglio del 1940, sarebbe poi stato abrogato (dichiarandone la nullità legale e l’inesistenza degli effetti giuridici) il 9 agosto 1944, con l’arrivo delle truppe franco-anglo-americane in terra francese e il consolidamento della loro presenza (Parigi sarebbe stata liberata tra il 19 e il 25 agosto di quell’anno).
La storia della legge costituzionale voluta da Pétain è strettamente legata alla natura del regime collaborazionista la cui nascita, di fatto, essa stessa formalizzava una volta per sempre. La sottoscrizione dell’armistizio di fatto sanzionava l’avvio di una nuova fase nella storia della Francia. Il tutto si consumava, come una tragedia che assume a tratti anche i contorni della farsa, durante e subito dopo il confronto, intercorso tra il 16 giugno (giorno della nomina del vecchio Maresciallo a presidente del Consiglio dei ministri) e il 29 giugno (con il definitivo trasferimento di ciò che restava delle istituzioni francesi a Vichy, avendo esse abbandonato prima Parigi e poi Bordeaux). Un confronto al vetriolo tra quanti avrebbero voluto continuare a combattere contro gli invasori, anche a rischio di farlo al di fuori del “territorio metropolitano”, e coloro che intendevano invece capitolare, cercando forme di accomodamento con i nuovi padroni.
Pétain e i circoli politici che si riconoscevano in lui (lo scrittore Charles Maurras, leader dell’Action Française, la maggiore organizzazione reazionaria e radicale del tempo, parlò della nomina del Maresciallo come di una «sorpresa divina», lasciando intendere che dal suo governo sarebbe derivata una restaurazione antirivoluzionaria, una rivalsa sullo «spirito del 1789»), caldeggiavano la necessità di dare vita ad un governo forte, antidemocratico, illiberale, antisocialista, privo della necessità di un qualsiasi sostegno parlamentare.
I motivi immediati erano identificati nella stringente necessità di aprire più tavoli di negoziazione con i tedeschi, insieme alla gestione del gigantesco problema alimentato dall’esodo della popolazione civile in corso in quelle settimane, fuggita dinanzi alla tumultuosa avanzata nazista, e alla resa di buona parte dell’esercito francese. Le ragioni di più lungo periodo, ovvero quelle maggiormente ambiziose, demandavano invece all’aspirazione di cogliere la palla al volo, trasformando una disfatta di proporzioni catastrofiche nella circostanza per rimodellare ciò che restava della Francia in chiave non solo reazionaria ma anche restaurazionista, ossia ripristinando un sistema di poteri ed una società destinate ad andare soprattutto a completo rimorchio del modello di cui la Germania iniziava, passo dopo passo, a farsi dichiarata portatrice: un’Europa razzista, basata su una rigida gerarchia etnica, in grado di distruggere il “bolscevismo”, di cancellare qualsiasi autonomia individuale, profondamente antisemita. Di tutto ciò, e di molto altro ancora, l’État Français – pantomima tragica di un’organizzazione politica ed istituzionale senza alcuna effettiva indipendenza, nei suoi quasi cinque anni di esistenza solo ed esclusivamente al solerte servizio dei nazisti – avrebbe dato le peggiori manifestazioni. Fino all’arrivo delle truppe della “Francia libera” di Charles de Gaulle, nell’agosto ’44. Basti solo citare l’eclatante coinvolgimento dei fascisti e dei collaborazionisti francesi nella deportazione dei loro connazionali ebrei verso i campi di sterminio. Una compromissione così zelante da sorprendere, in più di una occasione, gli stessi tedeschi.
Che dietro la legge del 10 luglio ci fosse una precisa volontà politica, ovvero un disegno di distruzione delle libertà, la quale andava ben oltre le circostanze del momento, fu comunque evidente da subito, posto che la legislazione della Terza Repubblica, all’epoca ancora vigente, non impediva a priori di conferire ad un esecutivo poteri rafforzati, soprattutto in ragione della condizione di assoluta emergenza nella quale si trovava il Paese. Pétain poteva inoltre contare su un buon seguito popolare, che si sarebbe consumato solo in parte negli anni successivi, malgrado la nascita e la crescita di un diffuso movimento resistenziale. Il 29 giugno 1940 il potente vice-presidente del Consiglio dei ministri Pierre Laval, già esponente socialista, transitato poi nelle file della destra antidemocratica e divenuto quindi acceso filotedesco, aveva presentato un suo disegno di legge costituzionale affinché, sotto la guida del Maresciallo, fosse istituito un regime che avesse ad obiettivo di «garantire i diritti del lavoro, della famiglia e della Patria». Il riferimento ad una nuova Costituzione a venire, prima ancora che demandare ad un insieme di norme giuridiche doveva semmai richiamare il nuovo spirito patriottico ispiratore di una Francia inserita nel disegno egemonico tedesco. L’intendimento, che in concreto sanzionava il rapporto di volontaria subordinazione all’occupante, era quello di sotterrare una volta per sempre le istituzioni della Terza Repubblica, nel nome di una «profonda riforma dei costumi politici» corrotti dal liberalismo e dal socialismo.
Benché nella Francia d’anteguerra sia i socialisti che i liberali non avessero avuto sempre e comunque vita troppo facile, erano ora presentati, insieme alla «minaccia bolscevica» (e poi, in rapida successione, al «complotto del giudaismo internazionale»), come la radice di tutti i mali. Si trattava quindi di ripristinare gli ancestrali «valori tradizionali», quelli di una Francia profonda, patriarcale e maschilista, rurale ma anche affascinata da certi immagini di efficienza tecnocratica provenienti dalla Germania, dando corso ad una non meglio precisata «rivoluzione nazionale» (quest’ultima espressione divenne ben presto il “marchio d’impresa” di Pétain e dei suoi uomini). L’ex socialista Laval era la vera anima di questa profonda trasformazione, alla quale comunque plaudiva una parte del Paese. A quei parlamentari ancora presenti a Vichy (altri erano nel mentre fuggiti o avevano abbandonato la loro funzione istituzionale), garantì egli stesso il fatto che nel nuovo regime che si sarebbe così configurato il ruolo delle Camere sarebbe stato quello di offrire la «leale collaborazione di una rappresentanza nazionale». Si trattava, in realtà, del suono a morto delle campane per il residuo parlamentarismo. Non a caso, nel giro di pochissimo tempo, il vice-premier trasformò l’intero dispositivo giuridico, dichiarando che la nuova Costituzione, una volta varata, sarebbe stata «ratificata dalla Nazione e applicata dalle Assemblee che avrà creato». Il «popolo», incarnato dal solo esecutivo e non da altri, avrebbe quindi dato sostanza alla volontà plebiscitaria che il governo stesso, di volta in volta, si incaricava di raccogliere e di esprimere. Da sé e per sé, si intende, in una sorta di moto circolare. In altre parole: il governo di Vichy si autoproclamava coscienza collettiva, senza bisogno di alcuna forma di mitigazione di un potere che aspirava all’assolutismo.
Sullo sfondo degli ultimi bagliori del crepuscolo del parlamentarismo repubblicano, alcuni esponenti del residuo schieramento democratico, ancora nei primi giorni del luglio 1940, si incaricavano di sottolineare come le richieste di Laval avrebbero «inevitabilmente portato alla scomparsa del regime repubblicano». Anche a fronte della situazione di assoluta emergenza, che richiedeva comunque di «concedere al maresciallo Pétain che, in queste ore serie, incarna così perfettamente le virtù tradizionali, tutti i poteri di svolgere l’opera di pubblica salvezza e pace». Il disperato tentativo di assegnare la redazione della nuova Costituzione all’Assemblea nazionale e al maresciallo Pétain, isolando e neutralizzando in tale modo i tentativi egemonici del governo, fallirono quindi pressoché da subito.
Il 9 luglio, le Camere, riunitesi separatamente, votarono pressoché all’unanimità (con la sola opposizione di tre deputati e un senatore) la necessità di una revisione costituzionale. Il giorno successivo, l’Assemblea nazionale, alla presenza di un conciliante e suadente Pierre Laval, avviò un’inconcludente discussione sulle prerogative residue del Parlamento. Di fatto, i suoi componenti si trovavano tra l’incudine e il martello di una situazione di assoluta eccezionalità: la pressione dell’esercito tedesco, il definitivo disfacimento di quello francese, la dirompente presenza per le piazze e nelle strade dei fascisti del Partito popolare francese dell’ex comunista Jacques Doriot, anch’egli già candidatosi al più bieco collaborazionismo, il rischio di un collasso totale del Paese. Le minacce erano evidenti e si riassumevano nel dilemma tra il continuare un’opposizione parlamentare oramai insostenibile, l’abbandonare il campo (cercando di recarsi nei territori d’Oltremare), il disporsi per una futura lotta clandestina contro il dispotismo nascente oppure il cedere alla miscela di lusinghe e di intimidazioni. Il tutto, in un’atmosfera politica non solo cupa ma asfissiante e torbida, definita dal socialista Leon Blum al pari di una «palude umana».
Di ciò Laval abilmente si avvantaggiò, promettendo molto per poi non mantenere nulla. Nel pomeriggio del 10 luglio si procedeva così al voto del disegno di legge liberticida, a maggioranza dei presenti effettivi e non dei membri eletti. Valeva il numero dei suffragi espressi, non quello degli aventi diritto. La legge passava quindi con 590 assensi, una ventina di astensioni e un’ottantina di dinieghi, espressi perlopiù da socialisti, radicali, esponenti della sinistra democratica ed indipendenti. Quasi tutti sulla via dell’auto-estromissione dalla vita pubblica, se non peggio. A ciò si sommavano 179 assenze. Si trattava di una disposizione costituzionale raccolta in un unico articolo, che recitava così: “l’Assemblea nazionale conferisce pieni poteri al governo della Repubblica, sotto l’autorità e la firma del maresciallo Pétain, con l’incarico di promulgare, tramite uno o più atti, una nuova Costituzione dello Stato francese. Questa Costituzione garantirà i diritti del lavoro, della famiglia e del Paese. Sarà ratificata dalla Nazione e applicata dalle Assemblee che avrà creato. Questa legge costituzionale, deliberata e adottata dall’Assemblea nazionale, sarà eseguita come legge statale”. Veniva così confermato un esecutivo non solo strenuamente antiparlamentare ma soprattutto antidemocratico; tuttavia, con l’assenso di ciò che restava del Parlamento stesso. Si trattava di una nuova forma di governo il cui potere era dichiaratamente dittatoriale.
L’autentico significato di questo gesto assembleare era quello di sancire, per via di una residua legittimità, ridottasi peraltro al lumicino, la morte della legalità e della giustizia repubblicana. In sostanza, non solo un suicidio politico ma anche una catastrofe istituzionale. I parlamentari che avevano in grande numero votato per questo esito erano stati peraltro eletti durante la tornata del 1936, quella per la sedicesima legislatura, vinta dal Fronte popolare (57,17% dei voti) con il successivo premierato di Leon Blum. Si trattava di 618 seggi. I senatori, nominalmente, erano invece 348. Mancavano all’appello i deputati comunisti, in origine 72 (parte dell’originario cartello del Fronte delle sinistre), formalmente decaduti – alcuni tra di loro anche incarcerati – nel settembre del 1939, per via del patto Molotov-Ribbentrop, da buona parte di essi sostenuto ma considerato dall’allora governo di Édouard Deladier come antinazionale. Erano assenti anche 27 parlamentari fuggiti verso Casablanca.
Durante e dopo il voto si aprì un lungo contenzioso sulla legittimità di una tale deliberazione, sia per le condizioni in cui il tutto era avvenuto sia per le conseguenze che portò da subito con sé. Il quesito di fondo, a tutt’oggi, si riassume così: “può una democrazia votare, per il tramite dei suoi legittimi eletti nella più importante assemblea rappresentativa, la sua stessa soppressione?”. L’ordinanza del 21 aprile 1944, emanata dal governo in esilio della Francia libera presieduto da Charles de Gaulle (una giunta militare che controllava perlopiù alcuni territori coloniali francesi, operando da Londra), relativa all’organizzazione delle autorità pubbliche in Francia a Liberazione avvenuta, invalidava il voto, dichiarandone l’inammissibilità e sancendo la decadenza dei «membri del Parlamento che hanno rinunciato al loro mandato votando la cessione di potere costituente a Philippe Pétain il 10 luglio 1940». La successiva ordinanza del 9 agosto 1944, relativa al ripristino della legalità repubblica sul territorio francese, statuiva al medesimo tempo l’insussistenza giuridica dell’atto “noto come legge costituzionale del 10 luglio 1940”, corredando una tale dichiarazione di volontà con il qualificare il regime di Vichy del maresciallo Pétain come “un’autorità di fatto, che si autodefiniva governo dello Stato francese” senza averne nessun titolo legale, politico, istituzionale e, soprattutto, morale. “Di conseguenza, tutti gli atti costituzionali, legislativi o regolamentari, nonché i decreti adottati per la loro esecuzione, sotto qualunque denominazione, promulgati sul territorio continentale dopo il 16 giugno 1940, sono da considerarsi nulli e non producono alcun effetto”. A riscontro di ciò, infine, affermava che “la forma di governo è e rimane la Repubblica. In diritto, questo non ha cessato di esistere”, neanche durante l’occupazione tedesca e il collaborazionismo petanista, incarnandosi semmai nelle organizzazioni dell’esilio, della lotta partigiana, della Resistenza.
Dopo il 10 luglio 1940, il maresciallo Pétain, giocando anche sul suo prestigio personale, diede corpo e sostanza ad un nuovo regime politico. Intorno alla sua figura si era comunque raccolta una parte non secondaria dei francesi, senza che per parte loro si volesse considerare in alcun modo gli effetti di inaudita distorsione della legalità, della liceità e della giustizia che il fenomeno collaborazionista stava ingenerando, al pari di un veleno che andava inquinando e distruggendo la coesione nazionale. Con dodici atti costituzionali (ma senza arrivare mai a promulgare una nuova Costituzione), succedutisi tra il 1940 e il 1942, il sistema delle garanzie di diritto vigenti durante la Terza Repubblica fu quindi completamente stravolto. Già l’11 luglio il Maresciallo con il primo atto costituzionale di Vichy, «vista la legge costituzionale del 10 luglio 1940», si auto dichiarò Capo di Stato. L’atto costituzionale numero due, firmato nella medesima giornata, definendo i poteri del Capo dello Stato francese concentrava nelle sue mani le funzioni esecutive e legislative, abrogando tutte le disposizioni costituzionali contrarie. Si era creato un sistema non solo dispotico ma autocratico. Che cosa il nefasto regime collaborazionista francese comportò, lo potremo vedere in maniera più dettagliata ed analitica in qualche articolo a venire.
Claudio Vercelli, Università cattolica del Sacro Cuore, Istituto di studi storici Salvemini
Pubblicato sabato 18 Luglio 2020
Stampato il 14/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/longform/francia-80-anni-dopo-pieni-poteri-a-petain/